Faccio il minestrone (delirio e castigo)

Mi piacciono quei blogger che ogni tanto mettono in riga i memi dell’ultimo mese, o dell’ultimo anno (vedi anche Mashable, dicembre è tempo di resoconti), perché è nel destino delle elenchi ordinati mostrare successioni di prese di coscienza, raffinamenti, tracce, momenti di bricolage. Non sono uno di quelli, no. Però leggo, e riporto, perché la nostra funzione sociale di router umani, smistatori di pacchetti di informazioni a cui ciascuno di noi aggiunge contesto passioni e punto di vista, è la base operativa di questo ecosistema della conoscenza in cui viviamo, la mia scintilla personale per contribuire al fuoco della conversazione, il clic della partecipazione, foss’anche solo mettere una stellina a un video sul Tubo.
Poi in questi giorni leggo spesso di prossemica digitale, di folksonomie, di grammatiche aggiornate per comprendere le narrazioni dei cambiamenti sociali odierni, di visioni del futuro. Ma guarda.
Sono parole che tre anni fa avrebbero avuto significati del tutto differenti, e se guardo indietro mi sembra quasi di vedere il percorso di raffinamento di questi concetti con cui oggi cerchiamo di ragionare qui in Rete, nominando e manipolando i nuovi strumenti di espressione con cui l’umanità mette in scena sé stessa, indagandone le conseguenze sociali, le necessità educative per le nuove generazioni, il cambiamento dell’atteggiamento di chi deve vendere qualcosa ad altri dentro il mercato finalmente conversazionale, le possibilità di incidere direttamente nella gestione delle politiche territoriali locali.
In prospettiva, talvolta riesco a visualizzare la storia di queste idee, dal loro apparire magari dentro una chat per diventare un post su un blog, poi il meme rimbalza nei commenti di altri blog, avviene via via una analisi collettiva e collaborativa delle implicazioni di quel nuovo concetto che si impone come adeguato a descrivere i nuovi fenomeni (mettiamo sia “blog”, oppure “web20”, oppure “folksonomia”) e poi qualcuno realizza un video in cui riesce graficamente a suggerire un nuovo punto di vista, e poi tutto torna nel calderone del socialweb nelle community e nei lifestreaming dove però si risottopone ad esame la diffusione mediatica tradizionale del nuovo concetto e si apportano nuove precisazioni e alla fine abbiamo per le mani una navicella per correre migliori acque.

Ma ci rendiamo conto dei flussi che ci stanno investendo, di come i nostri cervelli sociali e le nostre città neuronali si stanno riorganizzando per fronteggiare la complessità? Da quelle tremile notizie che ho letto, da quelle quattrocentocinquanta fonti sull’aggregatore che vedete nell’immagine qui sopra, oppure da navigazione selvaggia (tra parentesi: una volta era più facile fare navigazione selvaggia, è vero? seguendo i link dei siti personali si giungeva facile all’inaspettato completamente slegato dal nostro punto di partenza, mentre dopo l’azione tematicamente organizzatrice svolta dai portaloni e poi dalle “configurazioni di senso” stabile e circoscritte delineate dalle reti dei blogroll – affinità elettive – navighiamo sempre più dentro orizzonti di attese conosciute… ops, mi è finito lo spazio per la parentesi sociomediatica) ultimamente ho trovato nelle seguenti riflessioni, che poi serendipità o il bricolare del pensiero magico (a proposito, vorrei salutare Claude Lévi-Strauss nei cui libri sprofondavo rapito e sorridente, uno che qualche anno fa venuto qui in zona a ritirare il premio Nonino in grapperia ha detto che il Friuli era “la zona più esotica che avesse mai visto” ehehh) in qualche modo mi fanno leggere come un tutto collegato, un insieme di pensieri che girano e trovano via via nuove forme in cui alloggiare e lasciar scaturire senso.

Ad esempio, ho letto Sorchiotti su Apogeonline, dove si parla di social proximity e dove si prova a prendere le misure di questo nuovo fenomeno folksonomicamente emerso dai socialambienti tipo FaceBook (e qui dico che seguendo GasparTorriero un anno fa mi ero anche disiscritto, e poi il boom presso colleghi mi ha portato a riattivare l’account per motivi professionali, poi le ultime cose che leggo tipo i maneggi business che ci stanno dietro mi portano nuovamente a considerare di andarmene), ovvero che la dimensione semi-pubblica di questi Luoghi socialweb, l’intreccio tra reti amicali e gruppi più ampi, i meccanismi di partecipazione e appartenenza portano a rimodellare la nostra personale percezione del Paesaggio relazionale, ed il tutto si trasforma in nuovi comportamenti, in nuove possibilità di “dettare l’agenda personale e collettiva”, nella aumentata solidità del nostro abitare in rete, in quanto ora arricchito della dimensione gruppale. E qui ci starebbe qualche bella riflessione sulla grammatica dei gruppi, robe di dinamiche affettive e di strategie identitarie, perché se non lo sapete “i gruppi sono la più importante invenzione del XX secolo“, per il semplice motivo che il fenomeno “gruppo” prima non era neanche pertinentizzato come possibile oggetto di analisi; dalla massa alle folle, siamo arrivati ai “campi di forza” delle situazioni interpersonali solo verso gli anni Trenta, e degli anni Quaranta sono le prime serie riflessioni riguardo cosa succeda dentro i gruppi, dal punto di vista delle affettività dislocate nelle relazioni interumane o degli stili di comunicazione adottati o nei giochi di ruolo situazionali. Perché il gruppo fa pensare alle persone cose che altrimenti non penserebbero, il gruppo “parla” attraverso i singoli, e possiede una sua grammatica narrativa nel perseguire i propri scopi. Insomma, qui serve qualcuno che da psicologo o da analista conversazionale o perché no da attore di teatro (gente in grado di ragionare su dinamiche comunicative situate) provi a considerare quello che succede nei circuiti conversazionali in rete, e permetta a noi tutti di acquisire competenze di tipo meta- rispetto a tutto quello che facciamo ogni giorno, abitando qui dentro. Ogni tanto iniziative come codiceinternet, al di là del loro scopo manifesto, sono utili per portare attenzione riflessivamente sui media che stiamo usando, in questa fase spasmodica di etichettamento delle nuove possibilità espressive, dei nuovi rituali sociali, della stilistica della Cultura digitale.

Poi ho letto Zambardino, che ci dice chiaramente che l’esperienza quotidiana di vita dei millennials è “fuori dalla cultura attuale della società italiana”. Tutti i ragionamenti che dottoroni o sedicenti esperti fanno ad esempio sulla pericolosità dei videogiochi o sulla frequentazione degli ambienti sociali in Rete, sono fuori luogo. Sono indicazioni magari frutto del buon senso, che però sostanzialmente non còlgono le specificità di quegli stessi comportamenti che pretenderebbero di regolamentare o semplicemente giudicare, perché chi ha pensato quelle cose non le vive, non le annovera nell’armadio dei propri vissuti esistenziali. Nessun insegnante attuale ha giocato migliaia di ore con la play, chattato migliaia di ore, visto tv migliaia di ore prima dei suoi quindici anni, navigato su web per migliaia di ore. E sappiamo che non sono cose che si possono raccontare, vanno vissute, come buttarsi col paracadute. E in ogni caso per imparare a nuotare bisogna buttarsi in acqua, magari all’inizio dove si tocca.

Privi di punti di riferimento, genitori e insegnanti, operatori sociali e giornalisti, medici e psicologi si sentono autorizzati a interpretare come fantasmi i fatti reali che hanno di fronte. E’ come se un aereo a reazione fosse comparso sui cieli dell’antica Roma. Semplicemente non avrebbero capito cos’era. Col mondo digitale è così: i bambini ( i ragazzi, diciamo da 8 a 20) “sanno”. “Noi” no, e vaghiamo da incubo ad incubo: dal terrore dell’assalto pedofiilo (come se nello sport o in parrocchia il problema fosse evitato a priori…) al timore dell’”isolamento” psichico. Invece di vedere l’enorme forza formatrice e educativa della rete, cerchiamo disperatamente il muro più alto da alzare.

Proprio simpatico l’esempio dell’aeroplano. Torna sempre utile, quando si tratta di ragionare sulla pensabilità del futuro. Ovvero, il pensiero corre alle categorie della pensabilità, chiamatele come volete, e come la siepe di Giacomino mi viene da chiedermi in che modo lo sguardo verso il futuro è condizionato da abitudini e piste troppo battute. Oh, bell’esempio di ineffabilità, diciamolo, il futuro. Diciamolo anche così: ineffabile come il pensiero dei posteri. Chissà cosa penseranno di noi, e con quale ermeneutica proveranno a ricostruire i nostri pensieri. In ogni caso stiamo costruendo anche nuove forme di narrazione, e la narrazione stessa per la sua capacità di conferire senso agli eventi e alle situazioni in modo più finesse e meno geometrico (non è sempre bene; ma è bene ad esempio quando l’orizzonte stesso del problema non è ancora ben definito, oppure nella gestione del cambiamento di atteggiamenti individuali, gruppali o collettivi) viene riconosciuta anche per le sue concrete capacità operative.

Qui su Bloom.it trovate una intervista di Francesca Prandstraller a Steve Denning, autore di The Springboard: how Storytelling ignites action in Knowledge-Era Organizations, evidentemente un guru nell’utilizzare formule narrative nella gestione del cambiamento delle organizzazioni lavorative. Eppure non è difficile: le tecnologie, comprese quelle dell’intelligenza, nascono contestualizzate, recano il senso del Luogo su cui agiscono. Ecco perché è possibile coordinare alla vendita di un quotidiano una raccolta di coltelli professionali su base regionale, perché lo stesso coltello dalla stessa identica funzione magari altamente specializzata (un coltello concepito e forgiato per pulire il pesce, ad esempio) ha forma differente se inventato a Bolzano oppure a Ragusa, e racconta molto.
Quindi narrazioni. Che sono efficaci se innescano nell’ascoltatore un processo di ri-narrazione interiore, e veicolano valori cognitivi e patemici, e nell’atto stesso del loro apparire come storie costruiscono una nicchia ricettiva, dove chi ascolta si può adagiare e girare l’interruttore per un diverso ritmo dell’esperienza, più lento e più denso, che risuona anche nel petto oltre che nella testa. O addirittura in pancia, ma vedremo dopo.

Quindi ricapitoliamo, ed è facile perché siamo sempre lì.
Sta avvenendo un cambiamento epocale, nascono nuovi oggetti sociali, cambiano quelle istituzioni vecchie, c’è gente che di tutto questo non ci capisce una mazza ma anche ci sproloquia o peggio ci legifera sopra, e per raccontare queste nebulose di contenuto stiamo moltiplicando gli sforzi in direzioni differenti, dal cloud computing alla folksonomia ai rituali poietici dentro le comunità digitali, allo strabordare dei valori etici e sociali (privacy attiva, conversazione, orizzontalità) della Rete verso il mondo atomico (e ora il mondo delle banche dei giornali delle religioni della politica del mercato deve imparare a parlare come si parla in Rete, cioè nella forma migliore di dialogo collettivo mai raggiunto da specie umana, e dentro una rete paritetica orizzontale è difficile bloccare un flusso come nelle reti gerarchiche; e come si controlla tutto, se non puoi censurare a monte? chi tra voi ha 25 anni e sta scrivendo una tesi su “Potere e forme di controllo nel XXI secolo? qualche promettente fraticello nelle segrete del Vaticano?).

Poi quando ad un convegno arriva Baricco e prova a mettere giù le cose in forma narrativa, più o meno intorno ai barbari, ecco che Quintarelli DeBiase e Chittaro ne parlano, perché sanno che un punto di vista diverso contribuisce alquanto alla comprensione del problema. E il problema è appunto il futuro, la sua pensabilità, la sua forma, i modi in cui già oggi il presente lo contiene, le linee di sviluppo. Anzi, per Baricco il futuro è finito, questo vivere pesantemente nel presente ne ha modificato la percezione al punto da ridurlo a contenitore delle scovazze, dove buttiamo rifiuti, e tutto questo uccide i concetti di “progetto” e di “progresso”. Non c’è il futuro, c’è il nuovo. Ma dicendolo abitiamo qui, non là. Nel narrarlo, situiamo qui e ora l’azione. Qui c’è sotto qualcosa che riguarda la narrazione del futuro, dice Baricco, e quello che ci raccontiamo è quello che effettivamente risulta reale. Ma se lo raccontiamo con gli stilemi dei serial televisivi, ormai forma nattativa imperante, cadiamo male, perché quelli sono fatti apposta per essere ciclici, onfalici, autoreferenziali, circolari, immobili e senza futuro. Ed esplicitamente, almeno nel resoconto che ne fa DeBiase, è cambiata la grammatica della mente, la grammatica della pensabilità, oggi maggiormente connotata da rapide e ampissime esplorazioni della superficie, piuttosto che da rallentamenti e approfondimenti alla ricerca del senso, e da categorie rinnovate nell’identificare e distinguere i concetti di naturale e di artificiale, nella direzione del nostro essere indifferentemente biodigitali.
Annoto qui anche il ruolo di narratore della cultura pre-diluviodigitale che Baricco si attribuisce, quale scelta per il futuro: consapevole del cambiamento radicale in atto, si definisce amanuense intento a descrivere il mondo forse con la vecchia grammatica ma con le nuove parole, mentre i selvaggi tutto distruggono e tutto genialmente ricostruiscono.
Quintarelli riporta anche una mappa di ciò che si è detto su quel convegno a Venezia sulla pensabilità del futuro, e la trovate qui.

Poi cosa c’era? Bene.
Siccome stavamo leggendo e ragionando su come il nostro essere confortevolemente installati nelle nuove narrazioni sociali della rete faccia emergere aspetti di personalità e forme del pensiero che prima non conoscevamo, prontamente mi imbatto in un post di PierCesare Rivoltella, dedicato a Media, Media Education, costruzione dell’identità.

I media concorrono a costruire le identità dei soggetti? E come? Quali sono i modelli più funzionali a fornire risposta a questa domanda: quelli basati sull’idea del modellamento? E il modellamento assume le forme del pensiero unico che si impone trasversalmente rispetto alle appartenenze geografiche e culturali? O esistono le appropriazioni, sempre locali, sempre storicizzate, a mediare l’impossibilità dell’omologazione? E ancora: quale risposta educativa si può dare alla questione della costruzione identitaria del singolo e della società attraverso i media?

Navigando mi sono imbattuto in Gloria Origgi, ed è stata un’ottima scoperta. Seguendo il link arrivate sull’articolo “Designing wisdom through the Web: The passion of ranking”, dove si racconta come noi tutti in realtà stiamo passando dall’Età dell’Informazione all’Età della reputazione, e quindi della necessità di strumenti di tracciamento e di valutazione, sempre per via di quella folksonomia e quelle reti sociali cui partecipiamo e dell’intelligenza collettiva.

An efficient knowledge system will inevitably grow by generating a variety of evaluative tools: that is how culture grows, how traditions are created. A cultural tradition is to begin with a labelling system of insiders and outsiders, of who stays on and who is lost in the magma of the past. The good news is that in the Web era this inevitable evaluation is made through new, collective tools that challenge the received views and develop and improve an innovative and democratic way of selection of knowledge.


Poi ci sarebbero un paio di cosette apparentemente più easy, che meriterebbero un post tutto loro.
Una di queste è la segnalazione di Punto Informatico, ripresa da Mantellini a cui prendo anche l’immagine, della sentenza californiana secondo cui avere sul pc dei cartoni animati porno, nel caso specifico la famiglia Simpson compresi Burt e Lisa, sia reato di pedopornografia.

Sinceramente, non so cosa pensare.
Ma non credo che il contenuto delle fantasie erotiche possa essere regolamentato da legge. Non credo che imbattersi in un cartone animato di qualunque tipo sia perseguibile, perché nessuno può dirmi a me adulto cosa leggere e cosa no, o proibirmelo, in uno stato laico. Ed il fatto che si tratti di un disegno, e non di immagini fotografiche reali o parareali o snuff-movie innescherebbe altre riflessioni, che mi riprometto di seguire.

Sempre in relazione ai lati pornelli della cultura contemporanea, non posso non segnalare in ultimo un bel saggio di Alberto Abruzzese, su nimmagazine.it ovvero la newsletter italiana di mediologia, dedicato all’emergere prepotente del fenomeno del porno amatoriale, realizzato in casa da un mucchio di gente e poi messo online, ad esempio sul celeberrimo YouPorn. Dentro ci sento risuonare un bel po’ di discussioni “eretiche” del ‘900, da Bataille a Debord a Baudrillard, ma indubbiamente la sensibilità dell’autore riesce a ricondurre gli interrogativi ad una formulazione aggiornata ai nostri tempi internettari, e

… mentre la natura dei media industriali ha stretto e continua a stringere un patto molto forte, reciproco, tra chi comanda la società e il medium che vi svolge il ruolo dominante, la natura dei new media è tecnicamente tanto duttile e aperta da potere soddisfare, seppure in varia misura, anche i bisogni relazionali di persone, soggetti e parti sociali che non sono egemoni, non lo sono più o non lo sono ancora, e che possono quindi entrare a far parte di una complessa trama mediatica, di una aggrovigliata matassa di tendenze e controtendenze culturali

E’ un bell’articolo, su questo ci torno sicuramente. Parla di personal media nomadici, di privato e pubblico, di corpi e di relazioni, di società e di civiltà.

Un pensiero su “Faccio il minestrone (delirio e castigo)

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