Le parole nello scanner

Fare didattica oggi a scuola (geografia, scienze, antropologia, educazione alla tecnologia, educazione alla cittadinanza) senza le mappe satellitari tipo googlemaps è perder tempo.
E come più volte si è detto in questo blog, non si tratta di una carta geografica (anche perché la parola “carta” non va più bene) da portare in classe e guardarla per un po’ e fare le fotocopie e magari tracciarci sopra delle righe a matita e tracciare aree con gli evidenziatori.

Per comprendere appieno una didattica capace di integrare armonicamente gli strumenti delle TIC nel flusso situazionale e conversazionale delle situazioni formative, nella mente dell’insegnante deve essere ben viva una rappresentazione dei Luoghi di apprendimento come indifferentemente fisici (l’aula scolastica, il territorio) e digitali (come le mappe online).
Questo perché la didattica poi trova visibilità e interazione nella pubblicazione social web di elementi originali frutto delle attività scolastiche su quella stessa mappa, sotto forma ad esempio di segnalibri con dentro video immagini e testo e collegamenti ipertestuali, e questo si chiama abitare la mappa, arricchendola di vissuto e risvolti antropologici socioterritoriali e connotandola come luogo identitario, che parla di me e del mio fare. La mappa è un ambiente, non uno strumento.

La mappa di Google è un ambiente digitale che però mette in scena l’ambiente fisico e relazionale, e questo cortocircuito ci confonde un po’ le idee. Qui raccontavo di come forse sia meglio oggi dire “il territorio è la mappa”.
Però credo anche che i siti dei Comuni e delle Regioni potrebbero tranquillamente usare una mappa digitale online come homepage, su cui appuntare spazi informativi e di navigazione: quale miglior modo di mostrarmi chi sei se non mostrandomi il tuo territorio, le sue peculiarità insediative, le collettività che lo abitano osservate nelle loro reti relazionali e conversazionali, nella loro unica e originale produzione mediatica?

Quello che vale per le mappe online, vale anche per l’aggregatore di classe (da cui distillare quotidianamente spunti per le attività scolastiche, restando sintonizzati sul mondo) e per il blog di classe (dove contrappuntare i flussi degli apprendimenti con commenti personali da parte degli stessi allievi, perché ri-raccontare agli altri ciò che si è appreso fa imparare meglio) e per molti altri Luoghi che già popolano la nostra vita di oggi, strumenti e ambienti di interazione sociale che per quelle piccole persone di nove anni costituiranno una presenza costante per tutta la loro vita.

Già integrare queste cose nel flusso situazionale dell’aula scolastica, si diceva sopra, significa svolgere concretamente Educazione alla Cittadinanza nel rendere consapevoli i minori dei propri diritti di accesso all’informazione e di espressione di sé; inoltre l’uso critico di questi stessi strumenti favorisce un corretto approccio di Media Education, rispetto alle retoriche della manipolazione mediatica; e ancora si promuoverebbe la corretta postura culturale (da cui pedagogica) dell’utilizzo del web sociale, dove le interfacce si “trasparentizzano” e si riesce finalmente a mettere a fuoco una delle vere mission delle generazioni umane che abitano e abiteranno il Ventunesimo secolo, ovvero riuscire a costruire “intelligenza collettiva”, Luoghi di socialità aperti e condivisi e partecipativi, Società planetaria della Conoscenza, nella certezza che l’incremento della circolazione di informazioni idee e opinioni possa contribuire in maniera determinante al miglioramento delle condizioni di qualità del nostro abitare, al ben-stare glocale su questo pianetino.

Ecco, guardare i computer e non vedere il web è purtroppo uno dei paraocchi che indossa chi oggi dovrebbe ragionare di fare scuola in modo moderno, come i ministri o molti dirigenti scolastici o molti insegnanti, ma di modernità non capisce nulla.
In tal modo, quando guardo il computer penso “informatica”, rendendo ancora più solide quelle interfacce che invece vorrei vedere trasparentizzarsi. Guardo il computer, e penso ancora “calcolatore”, non “socialità”; penso fogli di calcolo, non blog o community. A scuola creo i famigerati laboratori informatici, anziché provvedere connettività nelle classi. Mi invento i curricoli di informatica, e poi se va bene faccio un po’ di multimedialità, e non adotto nessuna metodologia didattica specifica in grado di migliorare l’apprendimento in ambienti ormai stabilmente abitati da Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.
E io che sono qui a lagnarmi di scelte strategiche sbagliate, esito di scarsa Cultura Digitale, nello stabilire cosa vada valorizzato o meno nei ragionamenti sugli utilizzi delle TIC in classe, vengo come immagino molti insegnanti italiani raggelato dalle dichiarazioni di una FAQ del Ministero, dove si afferma che il laboratorio di informatica “non costituisce, soprattutto nella scuola primaria, un insegnamento prioritario”. Ne parla repubblica.it.

E’ chiaro che se alle scuole primarie diminuiscono le compresenze degli insegnanti, e alle scuole medie diminuiscono le ore di Educazione Tecnica, i bambini andranno sempre meno nell’aula informatica. Lì si può tagliare.
Che poi è assurdo che sia il prof di Educazione Tecnica che deve “fare computer”.
Che poi è assurdo che le ore di Educazione Tecnica diminuiscano, in un mondo tecnologico.
Che poi è assurdo che esistano le aule di informatica, e dei curricoli che prevedono informatica dentro le aule informatiche, alle scuole di base.

Lì potrebbe essere la chiave, nella frase sopra riportata. Nelle parole leggiamo l’approccio culturale di chi le ha scritte, e traspare una visione del mondo vecchia due volte. Non solo quel funzionario o quel ministro non sa cogliere il significato social delle tecnologie TIC nei settori della formazione, secondo precise indicazioni europee; non viene nemmeno più garantito l’uso dello strumento computer, indipendentemente dal fatto che sia connesso o meno. Questo perché i giovani quando entrano a scuola in realtà entrano in una capsula del tempo, e ritornano agli anni Ottanta quando non c’erano né il web né i cellulari. Meno divertente però il fatto che uscendo da scuola per lavorare e diventare cittadini si trovino a dover abitare un mondo decisamente tecnologico, su cui la scuola non ha saputo promuovere nessuna competenza o consapevolezza specifica.

L’errore non è che “non sia prioritario”, l’errore è considerare ancora il pc e il web come oggetto di insegnamento curricolare.

UPDATE: via Roberto Sconocchini, apprendo che quelli del Ministero hanno rimosso la frase incriminata dalle FAQ.

Un pensiero su “Le parole nello scanner

  1. luber

    E pensare che dovrebbe essere sufficiente ricordare come tutto ebbe inizio.
    Non voglio essere io a ricordarlo; qualcuno mi rimprovera di rendergli la via difficile, continuando a citare aspetti della mia passat vita professionale.
    Dico solo che basterebbe rivedere l’evoluzione dell’informatica come esperienza diretta, di confronto tra problemi quotidiani, o idee da realizzare, e lo stato dell’arte del computer.
    Si potrebbe intuire cose interessanti, sostituendo magari il Web al Compputer del passato.

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