Venezia 2.1 secolo

Ogni essere animale o vegetale rappresenta una parola viva nel dialogo tra codice genetico e ambiente. Una parola di cui aver cura, perché veicola un significato unico e originale, esito tangibile di una selezione darwiniana da leggersi nella profondità delle generazioni. Un essere vivente, guarda caso, è perfettamente adatto a interagire con la propria circostanza vitale, nella propria nicchia ecologica.

In modo simile, anche i linguaggi umani sono sommamente preziosi, avendo ciascuno la capacità di nominare il mondo in modo unico e originale. Un termine linguistico fiorisce perché una comunità di parlanti ritiene utile la sua esistenza per poter comunicare.

Poi le specie viventi muoiono o si trasformano, e così le parole.
Se cambia l’ambiente di vita, e nella popolazione non è già presente la giusta mutazione genetica capace di “incastrarsi” con le nuove condizioni esterne, gli organismi si estinguono.
Se oggi la parola “glauco” non esiste più, è perché non vi è più la necessità sociale di pertinentizzare un colore che sta a metà tra il celestino e il verde e il grigio acciaio, che i Latini vedevano e noi non vediamo più. Il mare oggi ha altri colori, evidentemente, negli occhi di chi lo guarda, nelle parole con cui lo si pensa.

Anche gli artefatti, le “parole pronunciate” della tecnologia, possiedono nella propria forma determinate caratteristiche storiche che ci rendono capaci di ricondurre la loro progettazione e realizzazione a tempi e luoghi ben precisi, soprattutto nel caso di utensìli appartenenti alla Cultura Tecnologica agricolo-artigianale, slegati dalle logiche della produzione industriale seriale e della distribuzione planetaria.
Arnesi e strumenti sono nati in contesti d’uso specifici, sono anch’essi frutto di una negoziazione tra l’urgenza di risolvere un problema pratico, i modelli di pensiero dell’ideazione posseduti da una data collettività, e la realtà fisica materiale su cui dovranno intervenire. L’aratro o un coltello per desquamare un pesce, oppure la tecnologia della concia delle pelli e quella dei rivestimenti murari sono apparsi indipendentemente in molte diverse zone del mondo in tempi diversi, dove a parità di funzione d’uso possiamo notare mille varianti realizzative, a seconda della diversa conoscenza di tecnologie trasformative delle materie prime, a seconda della durezza della terra da arare o del tipo di pesce da cucinare, a seconda del clima in cui quella collettività viveva. Gli artefatti parlano, CI parlano, parlano di noi e delle peculiarità ecosistemiche del nostro ambiente di vita, dell’inventiva dei nostri predecessori.

Specie viventi, parole o artefatti, il senso è sempre contestuale.

Guardate lo scalmo nella foto qui a fianco: i veneziani dovendo muoversi con quelle loro barche lunghe e strette in angusti canali naturali della laguna o artificiali come nella loro tutta tecnologica città, hanno dovuto prediligere una postura del vogatore particolare, che non richiedesse troppo spazio né in profondità né in larghezza alla remata, e permettesse di condurre l’imbarcazione stando in piedi.
Questo ovviamente è stato reso possibile dall’evoluzione dello scalmo in un supporto del remo elaborato, unico e originale e solo veneziano, che rendesse praticabile la particolare vogata del gondoliere, per come la conosciamo oggi.
C’è tutto il mondo dentro e dietro quello scalmo, c’è l’intelligenza dei maestri d’ascia nel loro trattare il legno, c’è la comprensione delle necessità vogatorie, c’è una rappresentazione del contesto d’utilizzo, c’è un’estetica talmente connotata da far assurgere nel tempo quella postura e quel gesto del gondoliere a simbolo stesso della città, fino alle riproduzioni in plastica per i turisti.

Ora Venezia dopo mille anni di storia si accorge di essere moribonda. Venezia in quanto città esplicitamente voluta e tecnologicamente progettata, sorta in un ambiente inospitale fatto di sabbia e di paludi reso Luogo antropico dal fare delle generazioni. Una città costruita sopra milioni di pali di rovere infissi nel fango per sostenerne le fondamenta, dove l’intelligenza delle sue genti e dei suoi governanti ha compreso fin dal Cinquecento – dall’istituzione del Magistrato delle Acque – che la sua sopravvivenza fisica dipendeva dalla capacità di gestire con dighe e canali, ecosistemicamente, i flussi delle maree e delle acque di superficie dell’intera laguna e di ampie fasce dell’entroterra. Venezia resa ricca dall’intraprendenza dei suoi commercianti nel Duecento, capaci allora di scommettere sul futuro, resa illustre nei secoli dalla qualità dell’ambiente socioculturale cosmopolita che poteva offrire, ormai da molti anni sopravvive a sé stessa svolgendo attività amministrative e in ultimo turistiche.

Le sue stesse caratteristiche fisiche, ragione del suo successo storico, si sono rivelate inadeguate rispetto ad una economia di tipo industriale pesante, fatta di binari e di tralicci e di scarti tossici, e certamente gli insediamenti di industrie chimiche nell’immediato entroterra di Marghera non sono stati pensati con una logica ecosistemica, che tenesse in dovuta considerazione le difficoltà logistiche dei trasporti e degli approvvigionamenti di materie prime, l’effetto della pressione antropica, il delicato equilibrio ecologico della laguna veneta, ricamata di isole e canali come un merletto.
La secolare sapienza nella gestione del territorio è capitolata dinanzi all’impatto del pensiero industriale, indifferente e prevaricatore rispetto alle specificità del contesto di attuazione. Il dialogo tra collettività umana e ambiente di vita è diventato senza senso, come una gaffe o peggio come un delirio, dove le parole pronunciate non tengono conto del contesto di enunciazione.

Al mutare dell’ambiente di vita in direzione dell’economia industriale, cento anni fa, quell’essere vivente che è la città di Venezia non risultava più adeguato alle nuove esigenze, il supporto tecnologico (lo scalmo) dell’organizzazione territoriale insediativa e abitativa non risultava più adatto al movimento vitale (il remo) della produzione di beni e degli scambi commerciali, le parole pronunciate non riuscivano più a cadere coerentemente nella conversazione intrecciata con le altre collettività umane, se non in discorsi circoscritti come quello della fruizione turistica, abbandonando la modernità e l’innovazione, scegliendo la museizzazione come proprio destino e i turisti come noncuranti abitanti.

Oggi però assistiamo a un ulteriore cambiamento epocale, quello innescato a partire dagli anni Settanta dalle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, dall’economia della miniaturizzazione o della smaterializzazione, dal pensiero post-industriale.
Venezia può tornare oggi a essere un centro vitale, fatto di imprese e di cittadini, perché nelle nuove forme di economia la distanza o l’agibilità geografica dei luoghi produttivi è molto meno rilevante, avendo soprattutto a che fare con il trasferimento di informazioni.
Non è più necessario stravolgere il territorio con artefatti macroscopici per adeguare il contesto della produzione alle necessità delle imprese. Anzi, la qualità stessa dell’ambiente lavorativo, a misura d’uomo e non di macchina, costituisce un fattore prezioso per la scelta degli insediamenti produttivi nel settore del terziario avanzato.

Ridisegnare Venezia per il Ventunesimo secolo, scommettendo sulla Cultura Digitale e sull’economia dell’immateriale, significa riuscire a tenere in considerazione l’ecosistema della conoscenza, significa riflettere sull’interazione vivificante tra web e territorio, significa promuovere le nuove forme di socialità in Rete e l’abitanza digitale.
Perché aver cura dei territori ormai indifferentemente fisici o digitali dove viviamo e lavoriamo è ciò che differenzia un cittadino, tale solo per il suo essere vincolato a diritti e doveri spesso percepiti come esterni e impersonali, rispetto a un Abitante affettivamente coinvolto nella promozione della qualità delle condizioni di vita, del proprio Ben-Stare in quanto astratto benessere finalmente declinato concretamente in un qui-e-ora.

Il coinvolgimento degli abitanti di Venezia, individui o gruppi formali, istituzioni e imprese, nei circuiti conversazionali resi oggi disponibili dalla Rete attraverso l’e-government e l’e-democracy, i blog urbani e le mappe georeferenziate della socialità e dei flussi vitali della produzione e del commercio, permetterà alla nuova identità che Venezia sente pulsare dentro di sé (come ri-orientamento della propria postura “esistenziale” e del proprio fare rispetto al mondo tecnosociale del Ventunesimo secolo) di emergere e di trovare una rappresentazione mediatica polivocale di sé costruita collettivamente da tutti gli attori sociali nella loro quotidiana riflessione e partecipazione alle dinamiche abitative della città, alle scelte politiche nel senso pieno ed etimologico della parola, fino all’apparire di un sentimento di appartenenza a una collettività e a un territorio biodigitale su cui poter abitare consapevolmente.

Per ragionare di tutto questo qualche giorno fa sono stato invitato dal vicesindaco di Venezia, Michele Vianello, a partecipare a una sorta di brainstorming su come impostare alcune iniziative culturali in grado di suggerire la nuova visione di Venezia in quanto città digitale, capace di coniugare l’innovazione con il proprio straordinario patrimonio culturale, dove già dal prossimo luglio i cittadini potranno usufruire di collegamenti wifi gratuiti su quasi tutto il centro storico.
Sono rimasto piacevolemente sorpreso dalla determinazione di Vianello nel proporre il cambiamento e l’innovazione come qualcosa di assolutamente necessario per la vitalità stessa della sua città, dalla sua personale cultura di cose digitali e del loro risvolto civico (potete trovare traccia delle “rivoluzioni” nella Pubblica Amministrazione veneziana consultando liberamente questo suo libriccino dedicato alla Cittadinaza digitale e all’Amministrare 2.0, Una scommessa da vincere).

Alla tavolarotonda hanno partecipato persone ben addentro alle dinamiche della Rete, professionalmente coinvolte e attente agli aspetti sociali e abitativi delle moderne tecnologie di comunicazione, e mi preme sottolineare come si sia instaurato rapidamente un buon clima di gruppo, fecondo di idee e propositivo rispetto alla progettazione di future iniziative (un convegno magari destrutturato e creativo da tenersi in settembre, la delineazione dei criteri di qualità delle reti civiche rese possibili dalla connettività diffusa, le connotazioni culturali su cui poggiare per la narrazione mediatica dell’identità cittadina) per la promozione di VeneziaDigitale.
Gigi Cogo ha approntato un wiki su cui poter continuare a riflettere e progettare, Massimo Mantellini, Sergio Maistrello, Roberto Scano, Luca De Biase hanno bloggato le loro impressioni sull’incontro, Alfonso Fuggetta, Marco Camisani Calzolari, Andrea Casadei e Lele Dainesi stanno scrivendo sul wiki.

La sfida è ardua, ma la conversazione è stimolante, e gli obiettivi prestigiosi. Credo mi divertirò.

Il contesto


Le persone

La mappa


Aver cura della rete

 

4 pensieri su “Venezia 2.1 secolo

  1. Walter

    Non sono sicuro d’aver capito tutto (Jojo, è lunghetta, eh?), ma sarebbe strano.
    Intanto, complimenti: per il tuo lavoro, che dà soddisfazione, per come scrivi e per quello che scrivi.
    Questo Post ha il taglietto pagato.
    Si può, no?, anche da parte di chi senz’altro non vola così alto…
    :-)
    Daniele (“Transit”).

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