Felicità sostenibile

Leggo questo libro, e mi accorgo di come dentro di me vivano schemi interpretativi, gerarchie di valori, meccanismi “automatici” di attribuzione di senso, su cui poi poggiano ipotesi sul funzionamento economico delle società assolutamente non tarate sulla realtà dei fatti.

La visione culturale che l’Occidente ha di se stesso, il macro-codice (non-detto, non narrativizzato) attraverso cui poi interpreta il proprio abitare sul pianeta e la relazioni con le altre culture e con l’ambiente abita da un paio di generazioni almeno dentro una colossale fiction di tipo cinetelevisivo, la stessa in cui i polli crescono direttamente nei supermercati.
Al punto che se qualcosa qui va storto, e vista l’aleatorietà del nostro attuale sistema economico basterebbe il giusto sassolino nel giusto ingranaggio, lo scenario che mi viene in mente è quello de “I sopravvissuti“, quella serie televisiva inglese della fine degli anni Settanta.

Io decrescito.

I Paesi in cui il reddito pro capite è inferiore ai due dollari al giorno sono i Paesi non industrializzati, a cui i Paesi industrializzati tolgono il necessario per alimentare il superfluo delle loro economie che sono obbligate a crescere per evitare di entrare in una fase di recessione. Considerarli poveri perché il loro reddito pro capite è inferiore a due dollari al giorno è una forma di colonialismo culturale e, in ultima analisi, di razzismo. Significa ritenere che le società fondate sulla crescita della produzione di merci sono superiori alle società in cui l’autoproduzione di beni continua ad avere un ruolo determinante. Significa credere che il modo in cui in queste società si soddisfano i bisogni essenziali è il modo migliore per farlo, tanto da diventare la misura a cui rapportare tutte le altre. Con due dollari al giorno si è poveri soltanto se si deve comprare tutto ciò che serve per vivere. Ma se la maggior parte dei beni si autoproduce, due dollari al giorno possono essere sufficienti a comprare ciò che non si riesce, non si può, non si sa, non conviene autoprodurre.
Maurizio Pallante, La felicità sostenibile, pg. 58.

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