Hashtag, o del passaparolachiave

In un messaggio privato di qualche tempo fa scrivevo

ci starebbe una riflessione accademicosa sulle qualità linguistiche dell’hashtag in quanto “lato visibile” dello tsunami. Un #qualcosa che sappia stare tra l’informativo e il lol, bello comodo da maneggiare per tutti quelli a seguire. Adeguato, circostanziato. Lì c’è il brainstorming, dinanzi al fatto immagino ci sia un’esplosione di possibili hashtag, poi nella dura battaglia della crowdselezione uno s’impone. Se diventa riconoscibile e maneggiabile vuol dire che si è diffuso il codice che lo rende tale, e allora lui può esser segno. Vediamo come funzionerà ilprossimo, roba di giorni credo. 

Lato ricezione, c’è da agganciarsi a nuvole di significato pertinenti, va compreso e memorizzato il richiamo semantico su cui l’hashtag fa leva, variamente espresso nella parola chiave da utilizzare su Twitter.
Più informativo di tanto non può essere, è una parola sola o due tre unite, spesso sono i nomi dei luoghi dove sta avvenendo qualcosa (e sappiamo possono essere immaginari) oppure il nome del personaggio protagonista, parole che con il cancelletto davanti # diventano il nome dell’accadimento appunto diversamente connotativo, nonché strumento stesso della ricerca di informazioni sull’accadimento-degno-di-menzione sul web, nei flussi in tempo reale di Google o di Twitter stesso.
In questi giorni ci sono gli episodi del NoTAV in Piemonte Val di Susa, e un hashtag dell’evento è #saldi, esplicitamente ricavato da nervi saldi, ma a me vengono in mente anche i saldi dei negozi che partono più o meno ora, e la locuzione “siamo ai saldi” su area semantica “saldare il conto” quindi indicazione di temporalità per le ultime fasi di un contratto o situazione, e se vogliamo ci sarebbe anche il “saldare” con la fiamma ossidrica, unire metalli in modo fermo, e torniamo ai nervi.
Coloriture di significato che allertiamo nell’interpretare e maneggiare l’hashtag, e su di lui si riverberano.

Lato produzione è tutto da ridere. L’hashtag è l’emergere spontaneo (ma non nel senso di inconsapevole o ignaro di sé, anzi) della parola adeguata, attraverso un filtro fatto di magari decine di migliaia di twit, di persone che lo hanno visto e riutilizzato nel partecipare alla comunicazione complessiva di quell’atto o evento da tenere sotto occhio mediatico. Immagino per ogni accadimento la nascita spontanea di molti hashtag diversi, poi dal loro stesso girovagare per le reti sociali (di maggior o minor influenza) vengono abrasi o levigati come ciottoli di fiume, e avviene la selezione verso uno o due hashtag “ufficiali” dell’evento.
Tra l’altro, già cominciamo a assistere a hashtag progettati a tavolino, prima dell’evento, a esempio nei team professionali delle web agency che si dovranno dedicate alla copertura mediatica.
Quello sgorgare immediato, o talvolta elaborato e ponderato, di una parola-chiave nelle testa e sulla tastiera di un singolo già molte volte è accaduto nei brainstorming delle redazioni che devono curare il flusso in uscita, o reinoltrare aggregando l’informazione emergente dalle genti connesse.
Bullarsi simpaticamente dell’onore di aver creato e diffuso un trending topics di Twitter rivela una realtà mentale già ora presente nei professionisti della comunicazione anche italiani, orientata a scoprire congetturando i modi per bucare il muro grigio dell’informazione indifferenziata che ci scorre davanti, per guadagnarsi visibilità e diffusione, per guadagnare la nostra attenzione.
Certo, i fattoidi ora possono dilagare. Come mostravano certe avanguardie artistiche, creare la comunicazione di un evento è già costruire l’evento, al punto che quest’ultimo può anche non aver luogo. E se l’evento ha luogo, non è un fatto, è un fattoide, come una partita di calcio trasmessa in tv, di quelle nate solo per la tv, e se non vi fosse la copertura mediatica loro non esisterebbero, non avrebbero luogo. Fisico.
Perché se l’evento è a sua volta mediatico, fatto di bit, una rapresentazione, può essere traquillamente una menzogna, progettata e consapevole. Però ripresa e reinoltrata da decine di migliaia di persone, che diventa trending topic, che giunge fino ai media tradizionali (il che non è garanzia di qualità o significatività, perché dipende a sua volta da altre agende e punti di vista, e cose di cui parlano milioni di persone in Rete possono venire completamente ignorate da un TG nazionale).
E sono cose che nascono dalla Rete, sia nello sgorgare di un hashtag da una singola persona, sia come etichetta situazionale più o meno ponderata da appiccicare a tutto un flusso livestreaming.
E progettare spreadability di un hashtag è buona scommessa, visto che poi può accadere di tutto a quel segno, una volta immesso nei flussi vorticosi di una comunicazione rapida, nei torrenti delle segnalazioni spontanee, nei passaparola.

Noi in Rete non siamo più solo redattori, possiamo come caporedattori mettere i titoli delle notizie, dare a un evento il suo nome e vederne la propagazione istantanea nel Web, di bocca in bocca, o meglio di becco in becco trattandosi di cinguettii.
Anche qui, di nuovo: sbaglio a suggerire una dimensione gerarchica, una scala di importanza tra semplice twittare e twittare qualcosa con un hashtag, o inventare proprio l’hashtag. Si tratta semplicemente di possibilità che il sistema mi offre, potenzialità tecniche offerte indifferentemente a tutti noi, come connaturate e native degli strumenti di trattamento dell’informazione di cui dispongo. Così ridisegnamo il senso degli accadimenti, parlandone con altri.

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