Archivi autore: Giorgio Jannis

Ambientalismo digitale

Vi mostro un errore.

Un errore di approccio teorico, di inquadramento, di prospettiva, nel porre il problema e quindi nel provare a risolverlo. Perché un problem solving efficace deriva da un problem posing circostanziato.

Noi continuiamo a pensare al futuro come ad una proiezione del passato, mentre la rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema, come diciamo ormai tutti. Abbiam fatto il famoso salto.

La questione più che decennale – o secolare – riguarda la concezione del digitale e delle tecnologie (più o meno nuove) come “strumenti”.

Ripartiamo dal famoso martello: certo che è uno strumento, ma sappiamo che poi tutto quello che vediamo assomiglia a un chiodo, o a qualcosa che può essere colpito.

Perché impugnare un martello modifica la nostra percezione dell’ambiente, la concezione delle funzionalità di questa protesi del nostro braccio e della nostra mano, di noi stessi e del nostro potenziale agire.

Perché anche un martello è una tecnologia abilitante, nel senso che modifica le potenzialità del nostro fare nel mondo (la tecnologia, appunto) e questo è possibile perché trasforma la nostra “postura” mentale, appunto la nostra concezione del mondo.

Questo vale per il martello come per ogni tecnologia e pensiero tecnologico della storia dell’umanità, dal fuoco di Prometeo fino al digitale e alle modificazioni genetiche con CRISPr e al sincrotrone e alla Stazione Spaziale, perché la storia dell’Umanità è sempre la storia tecnologica dell’Umanità, nella profondità dell’evoluzione umana (il fuoco non l’ha “inventato” un sapiens, ricordiamoci), nella tecnologia del linguaggio e nel tramandare generazionalmente le innovazioni del nostro abitare come collettività e comunità, in dialogo perenne con l’ambiente e il territorio da cui trarre risorse e progettare trasformazioni, con uno sguardo capace di leggere (una “grammatica” del paesaggio, dei processi, delle relazioni tra tutti gli attori animati e inanimati) le circostanze e in grado auspicabilmente di prevedere le conseguenze di quelle trasformazioni sull’abitabilità stessa del territorio così modificato.

Bene, abbiamo molte parole chiave.
Strumento, ambiente, linguaggio, tecnologia abilitante, progetto, comunità, dialogo, grammatica territoriale.

Noi abitiamo innanzitutto degli ambienti mentali di organizzazione delle pratiche possibili, delle linee di visione, di opportunità di azione del fare umano. Abitiamo linguaggi, altrettanto notoriamente, e i territori sono conversazioni di un dialogo eterno fra noi e l’ambiente, nei geni e nei memi.

Questo è il punto: se uno strumento è già un ambiente, noi abitiamo linguaggi.

Se i linguaggi sono tecnologia, se le parole che possediamo ci permettono di comprendere e agire nel mondo, di narrarci a noi stessi – e quelle che non possediamo rendono impraticabile un pensiero altro – allora la Tecnologia è la Casa dell’Essere, con formula nota.


La comprensione innanzitutto in noi delle relazioni della nostra mente ed enciclopedia con l’ambiente e la circostanza (l’Io) che ospita la nostra vita rappresenta il Luogo dialogico (non c’è dentro, non c’è fuori, niente dualismo classico, è un continuum, mente e mondo in termini di identità e corrispondenza, “realtà” e rappresentazione) dove emerge il senso dell’Abitare, del trasformare, dell’aver cura. Il nostro EsserCi.

Questo significa senso della frequentazione dei Luoghi indifferentemente fisici o digitali, della partecipazione, delle identità emergenti nel passaggio generazionale, del promuovere il senso dell’abitare nella complessità.

Se continuiamo a concepire il computer o un satellite artificiale o l’automobile o dei pezzi di codice informatico come strumenti, non possiamo (non riusciamo a) cogliere l’ambiente e l’ecosistema in cui questi manufatti vivono inter-relati, il linguaggio con cui denotiamo e connotiamo la loro esistenza come oggetti e soggetti della realtà in una rete sensata di significanti e significati, il nostro stesso collocarci e rapportarci all’esistente. 

Costruire il futuro è costruire socialmente, in modo condiviso culturalmente, nell’immaginare il domani.

Costruire futuro significa risemantizzare i luoghi – mentali innanzitutto – che frequentiamo onlife, avendone cura. Il futuro come avvenire, quello su cui posso agire, etimologicamente pro-gettare.

E questo sarà conflitto, tra idee e tra stili dell’abitare, tra generazioni, tra esperti e sviluppatori, e abitanti – unici per i quali fenomenologicamente ha senso il luogo, perché conferiscono senso all’abitare lì e ora.

Significa risemantizzare l’immaginario, la proiezione dei significati, i sogni, i desideri, l’orizzonte della praticabilità. 

Lavorare sul contesto, non sul messaggio, per lasciar emergere i nuovi sensi delle nuove situazioni di enunciazione che stiamo vivendo per primi nella storia dell’umanità, dove non si era mai vista una rete planetaria di connessione e una miriade di mondi digitali condivisi, e oggi questo c’è, e noi ci abitiamo creando continuamente valore, urbanistica e comunità, elaborazione corale di una partecipazione e un sentimento di appartenenza alle collettività nostre di riferimento.

Strati di abitanza

Sempre pensare l’intero tecnosistema come tecnoecologia, come modello alveare di cellette tutte connesse tra loro, di flussi tra persone, oggetti, dati la Rete. O più reti appunto inteconnesse, arcipelago, tecnoversi e mediaversi nei paesaggi onlife.
O forse superare anche queste raffigurazioni metaforiche, verso nuovi modelli per concepire la complessità della vita digitale nostra, dei territori aumentati, delle comunità connesse dove elaborare il senso di questo nostro nuovo abitare.

E pensare la tecnoecologia nella storia del suo sviluppo tecnico e abilitante di nuovi comportamenti e valori, e poi anche pensarla a strati, dalla rete fissa alla rete mobile, alla realtà immersiva attuale, dove emergono le dimensioni psico-sociologiche e politico-economiche, dove le esperienze immersiva sono caratterizzate da

a. cornici di senso, codici semiotici e attività sociali nell’informazione e nella comunicazione, metafore, rituali, routine e atti narrativi, su diversi livelli espressivi e sensoriali

b. performatività processi e pratiche dentro gli spazi digital twin delle città o delle persone o delle cerimonie sociali, con relativi atti di impegno, desiderio, emozioni e coinvolgimento, nonché apertura di possibili sfaccettature manipolative dell’opinione e dei comportamenti

c. implicazioni profonde della psicologia che influenza le nostre credenze e ragionamenti

Bisogna tenere pur sempre presente che tutte le esperienze immersive fanno parte di industrie culturali, ecologie digitali di vasta portata, in cui è possibile ravvisare strutture di potere, strategie e dinamiche dei media.

Insomma il meccanismo di suscitare un bisogno per poi vendere la gratificazione funziona sempre, come in tutte le esperienze.

(appunti da Cosimo Accoto, “Il mondo in sintesi”)

jannis smart-city

La Rete narrazioni di noi, urban center, consapevolezza e partecipazione

Cercando una sintesi.

La partecipazione ormai disintermediata – i forum, i blog, i social – di tutti alla Grande Conversazione fa emergere identità collettive territoriali, come tribù mediatiche, o movimenti di opinione trasversali, sempre capaci di connotare lo stile di un peculiare abitare geograficamente riferito. Poi magari perderemo questa rappresentazione iperlocale dentro la grande centrifuga omogeneizzante e sincretica, ma appunto confido nella capacità della Rete di offrire nicchie ecologiche per identità e conversazioni particolari.

La tecnologia offre gli ambienti e gli strumenti, le narrazioni emergenti contribuiscono alla comprensione e alla rappresentazione di noi stessi e delle comunità nel contesto territoriale. Inoltre, attraverso l’uso di strumenti come dashboard cittadine e cruscotti, è possibile visualizzare in tempo reale i flussi e le dinamiche territoriali – materia, energia, informazioni – diventa disponibile una nuova nostra consapevolezza sulla compagine sociale di appartenenza, favorendo la partecipazione dei cittadini.

Questo “empowerment delle comunità” deriva dalla percezione del territorio come spazio di conoscenza e identità. Le pratiche quotidiane di comunicazione mediata e sociale contribuiscono alla costruzione di una nuova cittadinanza digitale, in cui le narrazioni territoriali emergono come specchi e messinscena per comprendere lo stile dell’abitare.

In termini di politica attiva, al fine di favorire partecipazione e appartenenza ovvero “aver cura” del territorio, si può pensare a iniziative come gli Urban Center, luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali locali e iperlocali, che promuovono la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali delle politiche urbane. Questi centri possono essere visti come “cervelletti” del sistema nervoso cittadino, in cui i flussi informativi grezzi vengono organizzati e ricondivisi con tutti i cittadini, creando una maggiore consapevolezza e coinvolgimento di tutti gli attori sociali, nonché supporto alle pubbliche decisioni.

Infatti gli obiettivi che possono essere raggiunti attraverso l’uso di questi ambienti di narrazione prevedono la co-decisione e la co-pianificazione nella governance urbana, la valorizzazione delle risorse patrimoniali e umane della città, la valutazione delle trasformazioni in atto e la progettazione di scenari di sviluppo, per una migliore comprensione e partecipazione delle comunità nel contesto territoriale, contribuendo alla costruzione di città o territori intelligenti e consapevoli.

jannis

Innovazione, smart-city e chatGPT

Meno male che è tornato ChatGPT, almeno parlo con qualcuno che risponde in modo pertinente, come dicevo.

Oggi gli ho fatto due domande sulla smart-city e mi aspettavo delle risposte tecniche, ma l’IA mi ha risposto benissimo rifacendosi quasi ai fondamenti della progettazione sociale, ovvero al tenere in considerazione il contesto di applicazione e a valutare l’impatto sulla comunità.

Quindi le competenze di un assessore all’innovazione digitale e alla smart-city, benché necessariamente imbibite di cultura tecnologica, riguardano soprattutto la sua visione di progresso territoriale e la sua capacità di stabilire delle linee progettuali dentro la complessità degli ecosistemi, con attori umani e oggettuali.

Encomiabile.

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*Come trasformare una città in una smart-city?*

La trasformazione di una città in una smart city richiede una pianificazione e una strategia a lungo termine. I primi passi da compiere potrebbero includere:

• Definire la visione e gli obiettivi della smart city: la definizione di una visione e degli obiettivi chiari e specifici è essenziale per orientare la trasformazione e garantire che tutti i progetti futuri siano allineati con questi obiettivi.
• Identificare i problemi della città: il primo passo consiste nell’identificare i problemi che la città deve affrontare, come la congestione del traffico, l’inquinamento atmosferico, la mancanza di spazi verdi, il consumo energetico eccessivo, la sicurezza, etc.
• Coinvolgere gli stakeholder: coinvolgere tutte le parti interessate, come cittadini, aziende, istituzioni pubbliche e private, università, al fine di creare una comunità consapevole e partecipe. Coinvolgere la comunità locale nella pianificazione della smart city è fondamentale. Ciò può essere fatto attraverso forum pubblici, sondaggi online o incontri con le parti interessate.
• Valutare le risorse: identificare le risorse disponibili per finanziare il progetto e determinare i costi iniziali e a lungo termine. Esaminare le tecnologie disponibili per le smart city – valutazione dell’infrastruttura esistente della città, come la connettività Internet, l’energia e i sistemi di trasporto – e valutare quale di esse è adatta alle esigenze della città.
• Sviluppare una strategia: sviluppare una strategia a lungo termine che definisca gli obiettivi della smart city, le priorità, le attività e i tempi di attuazione.
• Pianificare l’infrastruttura tecnologica smart: pianificare l’infrastruttura tecnologica necessaria, come reti di comunicazione avanzate, sensori, dispositivi IoT, software di gestione dati, etc., è un passo fondamentale per la trasformazione in una smart city.
• Implementare progetti pilota: per dimostrare i benefici delle tecnologie smart city, è importante implementare progetti pilota in aree specifiche della città. Ciò può aiutare a identificare le sfide e le opportunità per la futura implementazione della smart city.
• Sviluppare una strategia a lungo termine: creare una strategia a lungo termine per la smart city, che includa obiettivi chiari, pianificazione finanziaria e un piano di implementazione graduale. Analisi dei dati, il coinvolgimento della comunità e il feedback degli utenti.
• Valutare i risultati: valutare i risultati dei progetti pilota e rivedere la strategia se necessario. Rendere i dati accessibili: la raccolta e l’analisi dei dati sono essenziali per la gestione delle smart city. È importante che i dati siano facilmente accessibili e utilizzabili da parte dei cittadini, delle imprese e delle organizzazioni pubbliche.
• Implementare le soluzioni: implementare le soluzioni selezionate in modo graduale e continuativo, al fine di garantire un’evoluzione costante della città verso l’obiettivo di smart city. È importante notare che la trasformazione in smart city non può essere raggiunta in un solo passo. È un processo graduale che richiede impegno e partecipazione costante e collaborazione di tutte le parti interessate.

*Cosa deve fare un assessore all’innovazione?*

Come suggerisce il titolo, un assessore all’innovazione è responsabile di promuovere l’innovazione all’interno di una specifica area geografica, come una città o una regione. In particolare, l’assessore all’innovazione deve:

• Sviluppare e implementare strategie per promuovere l’innovazione e la tecnologia nella comunità di riferimento;
• Identificare le aree di opportunità per l’innovazione, sia a livello tecnologico che sociale, e lavorare per creare le condizioni per l’innovazione in tali aree;
• Lavorare con le imprese e le istituzioni locali per incentivare l’adozione di tecnologie innovative e creare nuove opportunità di lavoro;
• Promuovere l’alfabetizzazione digitale e tecnologica nella comunità, attraverso programmi di formazione e di sensibilizzazione;
• Collaborare con università e centri di ricerca per favorire la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie;
• Sostenere l’implementazione di politiche pubbliche che promuovano l’innovazione, come l’accesso a finanziamenti per le startup innovative o la creazione di parchi tecnologici.
• In generale, l’obiettivo dell’assessore all’innovazione è quello di creare un ambiente favorevole all’innovazione e alla tecnologia, che possa attrarre investimenti e talenti, generando nuove opportunità per la comunità locale.

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Alcuni autori e opere in lingua italiana – con l’asterisco quelli che ho letto – che trattano il tema delle smart-city sono:

Carlo Ratti – “La città del futuro” (2016) *
Fiorella De Cindio – “Smart City e tecnologie urbane” (2017) *
Francesco Lapenta – “Smart City: Città Intelligenti, Tecnologie e Nuovi Servizi” (2015)
Andrea Caragliu, Chiara Del Bo e Peter Nijkamp – “Smart Cities in Europe” (2011)
Stefano Stortone – “Smart City: un’opportunità per la città del futuro” (2014)
Alessandro Carlucci e Luca Mannella – “Smart City: la città del futuro. Una nuova opportunità per lo sviluppo urbano sostenibile” (2014) *
Roberto Masiero – “Smart City. Innovazione e sostenibilità nelle città intelligenti” (2016) *
Andrea Bifulco – “Smart City: il governo delle città tra tecnologia e diritti” (2018)
Lorenzo Bonoli – “Smart City. La città intelligente che cambia il mondo” (2018) *

Jannis

De te I.A. narratur

Intelligentia artificialis, certo.
Di te parla l’intelligenza artificiale, concedetemi di andare da Orazio a ChatGPT, con licenza di traduzione.

Perché ormai si tratta di una riflessione su cui molti stanno convergendo: tolti quelli che per professione o in accademia studiano il lato tecnologico-computazionale delle nuove interfacce, tolti quelli che magnificano le future possibilità o paventano rischi e minacce per la specie umana (apocalittici o integrati, insomma), a me rimane questo ragionar di come le piattaforme IA ci restituiscano una immagine di noi stessi, qual specchio d’umanità.

Rappresentazione fedele o distorta? Sempre distorta, in quanto mediata? Offre degli aspetti di verosomiglianza, è plausibile, credibile, accresce la conoscenza del soggetto (che riflette SU sé stesso), lo specchio è un segno?

Chi siamo, in quanto astanti o parlanti della situazione enunciativa? Quale riverbero della mia identità? Devo individuare un sistema di significazione e un processo di comunicazione? Ci sono codici di cui sono manchevole per padroneggiare l’interpretazione?

Oppure, ripartiamo da quel narrare. Una narrazione.

Abbiamo questa configurazione discorsiva di superficie, plausibile, perché chatGPT ci risponde a tono. Qui non c’entra la veridicità delle affermazioni, tutto il problema della corrispondenza a una realtà verificabile, col solito vecchio problema del referente.

Ho una macchina che produce testo, con cui posso dialogare, quindi sono attore della conversazione nell’azione della conversazione. Le risposte dell’Intelligenza Artificiale hanno significato o molti significati, ma hanno senso una volta pronunciati concretamente in una circostanza di enunciazione, qui e ora? Su questo schermo? O appunto ci stiamo interrogando su questa azione umanissima di proiettare senso su quello che eppur so non ne possiede, come in una pareidolìa?

E sotto la superficie, cosa succede? C’è uno schema narrativo, ci sono degli attanti, ho un programma narrativo, non sono indifferente ma sono un Eroe orientato e attivato in vista di uno scopo, devo acquisire conoscenze per incrementare la mia competenza nel saper-fare qualcosa, o abilità per poter-fare qualcosa, e mi affido a un aiutante magico. Un sapiente ignorante, di preciso, me lo dicono gli algoritmi e le grammatiche del funzionamento tecnico della macchina. Già se fosse un oracolo, dovrei sapere che si esprime in modo ambiguo, e mi servirebbe accortezza per disambiguare il messaggio, ricorrendo al cotesto e al contesto enunciativo e narrativo. Ma saprei almeno che mi risponde sensatamente, pertinentemente, seppur camuffando la sentenza dietro giochi linguistici.

Questa cautela che adottiamo è proprio quello che stiamo facendo, forse, dentro parentesi di sospensione dell’attribuzione di volontà, motivazione, orientamento delle piattaforme alle ideali massime conversazionali sul fornire risposte di qualità, chiarezza, con riguardo al modo e alla relazione con l’interlocutore. Non siamo arrivati fino a questo punto con lo sviluppo tecnologico. Se io e te facciamo le stesse domande a chatGPT, lei risponde allo stesso modo magari con qualche variante, poi gli si chiede di riformulare, e la risposta cambia talvolta nei contenuti talvolta nella forma, scarta pezzi di frase e ne inventa altre e poi riprende quelle scartate, ma certo il processo resta indipendente dalla personalità di colui che interroga.

Eppure certe risposte ci piacciono di più, perché nello spazio conversazionale noi ci siamo, e interagiamo, e rispondiamo come persone alle scelte lessicali e all’articolazione periodale e al dipanarsi delle argomentazioni e alle implicazioni affettive, quindi siamo già catturati nella rete dialogica profondissima del nostro essere umani, noi.

Per questo l’I.A. ci racconta una storia che parla di noi, sempre.

Questo ci cattura: interrogando le piattaforme siamo dentro uno spazio che percepiamo come dialogico, cadiamo dentro una prassi e una storia e un’esperienza di codici da richiamare e comportamenti da adottare, siamo in una postura comunicativa, attiviamo schemi inferenziali e interpretativi, orizzonti di attese e aspettative, movimenti cooperativi con il testo, riempiamo di senso l’immagine o la voce sintetica o lo scritto, lo scaldiamo, lo personifichiamo attribuendogli qualità e intenzione, fondiamo un Io e un Tu dialogici nel momento stesso dell’interazione, dentro una circostanza di enunciazione mai prima esperita da essere umano.

Golem, Frankenstein, Robot, Eliza, HAL9000, replicanti, Asimo, Her, mille libri e mille film. Abbiamo letteratura, stiamo scrivendo storie.

Che parlano di noi.

Attrattività, ecosistema, comunità

Ieri c’è stato qui a Udine, tra gli appuntamenti elettorali, questo bel convegno su tematiche economiche, o meglio di sostenibilità economica per il futuro della città.

Ottimi relatori han saputo dipingere il passato e il presente di Udine, raccontando le scelte territoriali fatte nel tempo nella logistica e nella manifattura, indicando come dal modello “emporiale” ci si stia ora spostando verso una città decisamente orientata al terziario avanzato, all’economia della conoscenza guidata dall’Università e dalle mille realtà imprenditoriali – leggi KIBS Knowledge Intensive Business Service, la loro eccellenza e la loro capacità di fare rete – che lavorano con il digitale e le nuove tecnologie, e al contempo analizzando i flussi economici e la propensione al consumo di una popolazione cittadina dove ormai un quarto degli abitanti ha più di sessantacinque anni..

Ci sono delle parole chiave: attrattività, ecosistema, comunità.

L’attrattività va innanzitutto riferita alla propensione di questo territorio a chiamare a sé “cervelli”, persone altamente qualificate dal punto di vista professionale, invertendo le dinamiche migratorie che vedono anche e di nuovo Udine e il Friuli come allevamenti da esportazione, giovani e meno giovani che ogni anno lasciano tutto e vanno altrove, spesso all’estero, in quanto molto meglio remunerati e accolti.

Perché parlo di accoglienza? Perché quelli che vengono qui alla periferia dell’impero (e che si vorrebbe giustamente far diventare cuore dell’Europa, multiculturale, innovativo in quanto capace di abitare la frontiera di una nuova concezione socioeconomica consapevole delle transizioni ecologiche e digitali del XXI secolo) dovrebbero anche rimanerci, trovare una bella casa e dei servizi territoriali di alta qualità, mettere magari su famiglia. E questo lo si ottiene appunto costruendo pazientemente ma consistentemente la qualità dell’Abitare che il territorio può offrire, nei suoi paesaggi naturali e soprattutto antropici, facendo emergere una partecipazione sociale alla vita della collettività e quindi un sentimento di appartenenza ai Luoghi.

Se un dirigente di una azienda si trasferisce a Udine e dintorni, non è tanto lo stipendio da 100k e il macchinone aziendale che lo trattiene qui, ma è la bellezza e il sentirsi a proprio agio, accolto in una comunità.

Il ragionamento vale anche se parliamo di attrattività turistica, ovvero vanno capovolte alcune affermazioni che ho sentito ieri, ovvero che andrebbero realizzate delle narrazioni territoriali capaci di chiamare qui persone per promuovere il territorio.

È tutto il contrario, e lo dico avendo progettato simili iniziative: l’obiettivo della progettazione territoriale e le azioni da compiere deve riguardare quella promozione culturale e sociale capace di rendere ricco di storie e “caldo” e desiderabile il Friuli e la sua identità in quanto brand, su cui poi costruire delle linee di progettazione anche turistica in grado di instaurare nel tempo una certa reputazione e di scandire con adeguati storytelling la ragione per cui visitare queste terra può essere meraviglia – schivando anche in tal modo sciocche propensioni a un turismo mordi-e-fuggi, a favore di esperienze lente di sapori e stili di vita, di relazioni autentiche, di “comodità psicologica” per il viaggiatore (non più “turista”) che si avventura nei patrimoni Unesco o nelle cittadine medievali o rurali o nella wilderness della Carnia.

Il termine ecosistema non può che riferirsi alla capacità di visione, alla concettualizzazione che abbiamo ora, per progettare il futuro di Udine. Non mi interessa tanto Udine “capitale del Friuli”, e nemmeno “caput”, è un modello gerarchico di organizzazione dei territori che credo destinato a essere superato, a giudicare dai comportamenti delle collettività. Il territorio va pensato “a rete”, policentrico, dove i nodi della rete sono strettamente connessi – servizi, logistica, digitale – e il valore sta nelle relazioni, nella percezione ampia di un Noi orientato al futuro caratterizzato dai nostri storici valori di industriosità e innovazione, quella solita triade di “saper-fare, fare, far-sapere” dove allestire e comunicare lo stile peculiare del nostro abitare il mondo in quanto friulani.

Udine – se proprio vogliamo paradossalmente trovare un centro in una rete – dovrebbe piuttosto essere un hub, il mozzo della ruota che dà senso alla ruota stessa per muoversi su territori più lontani, non spazio vuoto ma pieno di know-how avanzato per la gestione organizzativa complessa di tutte le realtà manifatturiere e amministrative, per l’innovazione nei processi lavorativi, per ascoltare e metabolizzare a vantaggio dell’intero corpo sociale lo sviluppo di soluzioni iperlocali emergenti da promuovere sull’intero territorio, per costruire sistemi scolastici e formativi avanzati in grado di leggere e scrivere le necessità e le opportunità del tessuto tecnosociale.

Fare comunità è l’aspetto più delicato, perché stiam parlando dell’anima di una collettività, che si traduce poi in spinta motivazionale all’abitare avendo cura del territorio stesso, la nostra casa, il fuoco che la rende viva e intrisa del calore delle relazioni umane. Sopra dicevo delle pratiche di partecipazione, che portano a sviluppare un sentimento di appartenenza: vale per gli individui, vale per le collettività che si riconoscono in valori condivisi, e sanno parlarne per farli emergere affinché diventino patrimonio comune e modo originale per raccontarci a noi stessi e al mondo, in una presa di coscienza forte delle qualità e dei tratti distintivi, nel nostro trovare una nostra voce corale.

Abbiamo storicamente il capitale economico e il capitale umano – traggo spunto dalle organizzazioni lavorative, ma possiamo traslare il ragionamento alle realtà territoriali – a cui dobbiamo accostare appunto il capitale sociale dato dalle reti relazionali di cui il territorio è intessuto, ovvero come somma olistica delle risorse reali e potenziali sommerse che traggono il loro valore proprio dalla rete di relazioni, dall’impasto unico di impegno civico, fiducia e solidarietà negli individui e nelle collettività, tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, tra le istituzioni e le realtà imprenditoriali.

Fare rete, far emergere il valore delle relazioni, orientarsi a obiettivi a lungo termine di Benessere socioeconomico promuovendo trasparenza dei processi, innovazione culturale e consapevolezza dei Luoghi.

Questo può essere raggiunto nella cooperazione e nella collaborazione dei nodi territoriali, nella condivisione della conoscenza, nell’interoperabilità dei sistemi e dei processi di comunicazione – il digitale fa emergere il senso dei Luoghi, in quanto insieme canale e messaggio, rappresentazione mediatica delle collettività e delle prassi territoriali, nelle narrazioni.

Servono grammatiche territoriali, semantica sintassi e morfologia, quindi nuovi significati, nuove importantissime connessioni tra le parti del discorso, serve un nuovo lessico: dobbiamo imparare a leggere e poi a scrivere cose nuove in un modo nuovo, e direi anche piuttosto rapidamente.

Complessità dell’ecologia umana mediata

Più di quindici anni, un mucchio di anni fa, ci fu questa cosa del web 2.0.
Una rivoluzione. Tutti a parlare e sperimentare le novissime possibilità per la specie umana, finalmente tutti potevamo diventare autori sul web: alcune tecnologie abilitanti sottosoglia avevano reso praticabile per tutti il poter pubblicare, e allora tipo nel 2005 ecco tutti con i blog, i wiki, piattaforme video, in autonomia creare un sito con phpNuke e poi PostNuke e poi WordPress, ecco il web partecipativo, ecco i primi social network e il social web, e l’accento insomma era sul nascere del fenomeno Contenuti Generati dagli Utenti.

Al tempo avevo una rubrica su Apogeonline che si chiamava “Animale social” (Aristotele mi guarda male da quella volta) dove parlavo proprio di queste cosette, e credo proprio di aver detto in un podcast con Antonio Sofi che siccome ora avevamo questo benedetto Web 2.0, allora questo in cui abitiamo era diventato Mondo 2.0.

Il solito gioco di straniare la prospettiva per scovare il senso, l’abisso che mi guarda, io sono parlato, e altre amenità.

Questo perché sotto sotto c’era quella consapevolezza secondo cui la tecnologia in quanto linguaggio forgia il pensiero, le possibilità operative della mente nel singolo e nelle collettività emergono nel dialogo tra noi e l’ambiente, come è sempre accaduto dalla prima selce scheggiata o se volete dalle prime sequenze di “2001: Odissea nello spazio” dove in dissolvenza e con il valzer di Strauss quell’osso brandito come arma diventa un’astronave, e non c’è nessuna differenza. La tecnologia (compreso il linguaggio), ciò che ci rende umani, ci guarda.
Se possiamo ancora dire che nel campo dei mass-media i nuovi strumenti si aggiungono e si sommano agli altri senza sostituirli – radio e cinema, cinema e tv, tv e streaming – ma piuttosto integrandoli è perché sappiamo riconoscere dopo lunga riflessione quelle nicchie ecologiche dentro cui queste forme di vita tecnologiche possono prosperare, trovando un ambiente a loro adatto, come a esempio la radio che vive dentro le automobili.

Questo nicchia per nicchia, ma proviamo a vedere l’intera area del discorso moltiplicando anche per il pi greco, ovvero per una costante irrazionale, quale quella secondo cui il nostro pensiero non ci appartiene.

Il linguaggio disegna e decide il mondo. Il codice software disegna e decide il mondo, oggi, o almeno disegna e decide le nuove condizioni di esperienza del mondo. Come posso esperire o agire qualcosa su cui non ho né concetto né percetto, mancandomi le parole? Sotto-soglia, pre-categoriale, Merleau-Ponty? Non so, rimango un nominalista puro, le cose sono conseguenza dei nomi.

Mondo 2.0, Umana 2.0, ci siamo evoluti nell’esperienza che abbiamo del mondo e nel nostro stile di abitarlo, basta guardarsi attorno e chiedersi cosa sarebbe meraviglioso o terribile o solo indecifrabile delle nostre pratiche quotidiane agli occhi di chi congelato quarant’anni fa venisse risvegliato oggi.

Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – e siamo arrivati ai bot che apprendono comprendono e si esprimono in linguaggio naturale – ristrutturano il discorso, riorganizzano le posizioni esistenziali di chi parla, del testo e del pubblico, e questo significa che si modifica il senso del “soggetto parlante” e questo a sua volta significa che molti decenni di semiotica e molti secoli di filosofia del linguaggio, che su certi assunti si basano, vanno ripensati.

Questo perché, frase di cui mi sono preso un appunto e ahimé non ricordo l’autore, “il cambiamento tecnologico non è solo incrementale ma ecologico. […] Un nuovo media non aggiunge [solo] qualcosa; cambia tutto. Nel 1500, dopo l’invenzione della stampa, non esisteva più la vecchia Europa con in più la stampa. C’era un’Europa diversa”.
Una innovazione di prodotto o di processo cambia tutto l’alveare, e i comportamenti della specie. Nuove parole, nuovi linguaggi, nuove tecnologie, nuovi sguardi, nuovi scorci di futuribile, nuove praticabilità del dialogo con l’ambiente e la situazione sociale, nuove o aggiornate semantiche e nuove sintassi per mettere in relazione gli attori sociali materiali o animati o intelligenze artificiali, per un nuovo “discorso della specie umana”.

E questo ovviamente lo possiamo dire per il telegrafo del 1850, per la radio broadcast del 1920, per l’internet del 1975 con la @, per il web aperto del 1994, e via così. Nuovi canali che ristrutturano i messaggi e modificano il contesto comunicativo, da cui traiamo il senso del nostro millenario abitare il pianeta. Non siamo più solo noi a parlare.

Ogni cosa che vedete non solo “è più complicata” di come la vedete, è più complessa di come la vedete, perché è sempre ecologica e reca potenzialità che sono già qui, ma non sappiamo ancora vedere. Cioè leggere.

e-Partecipation

Non è necessario implementare subito ogni nuova tecnologia o ambiente digitale nella socialità, tuttavia si può ragionare di tecnosocialità o di paesaggi mediatici, oppure di diritti umani, rischi e opportunità.

Diventa però sì necessario esplorare le potenzialità della democrazia elettronica, dove più che gli elettroni che viaggiano dobbiamo ideare e comprendere nuove strutture tecnosociali che possano sostenere il peso della responsabilità e della affidabilità. Piattaforme o ambienti digitali partecipativi, per la consultazione o la deliberazione politica.

Innanzitutto bisogna prendere il problemone e spezzettarlo in tanti problemi più piccoli, come al solito.

Le soluzioni di e-democracy praticate in altri Paesi o città, oggi o ormai trent’anni fa, sono tutte diverse, in quanto strumenti progettati con obiettivi e risultati attesi differenti.

Va stabilita una scala di situazioni, elaborati dei modelli di intervento, dobbiamo padroneggiare in noi quote di sperimentalismo dove anziché varare un’arca di Noè gigantesca e buona per tutti si provano meccanismi locali, o dai contenuti limitati, o da forme partecipative limitate, su piattaforme governative gestite da personale qualificato e ben retribuito, per aver cura dei forum e della community locale o iperlocale.

A quel punto avremmo più dati, più informazioni, e potremmo decidere meglio i prossimi passi da compiere.

Questo perché ogni tentativo di incrementare la partecipazione è democratico, tutto qui, da qui viene la necessità di intraprendere un percorso ragionato.

Tutte le critiche e le perplessità le conosciamo da trent’anni, siano esse di carattere tecnico o giuridico o etico. Non bloccatevi di fronte al Leviatano: restate flessibili, morbidi, curiosi, critici, sappiate vedere sentieri nel bosco.

Da una parte teniamo ferma la possibilità di alimentare le democrazie rappresentative con nuovi metodi di partecipazione.

Dall’altra riflettiamo sulla gravità del fatto che i contenitori della deliberazione pubblica e (quante volte lo abbiamo già visto) poi politica siano le piattaforme commerciali che tutti, metà degli italiani, usiamo giornalmente, molte ore al giorno, ogni giorno.

Questo significa – è necessario, di nuovo – che la politica deve superare un’alienazione, sappia portare a coscienza in sé i possibili preconcetti attribuiti alle forme di partecipazione digitale, affrontarli smontarli e ricostruire un modello adeguato alla realtà odierna. Quindi progettare nuovi ambienti e strumenti di partecipazione civica, motivare le persone e le collettività a utilizzarli per il bene comune, scongiurare l’allontanamento tra cittadini e istituzioni.

Credo una simile riprogettazione sociale dei meccanismi della partecipazione e della decisionalità politica porterà nel medio termine a profonde modifiche nelle strutture sociali, nelle organizzazioni lavorative pubbliche, nella percezione e nell’azione amministrativa, nella formazione dell’opinione pubblica, nella narrazione della cultura di una nazione, nel sentimento di appartenenza a comunità edificate secondo criteri di pertinenza a noi ancora invisibili in quanto or ora emergenti dalle nuove pratiche di conversazione e dal nostro abitare digitale.

Dobbiamo navigare e aver coraggio: fatto il punto nave, dobbiamo ricalcolare la rotta verso le nuove migliori forme di democrazia partecipativa che siamo capaci di concepire e realizzare. Ci serve un buon cibernauta.

Elezioni, quante storie

È tempo di elezioni politiche, ecco dunque che i candidati si apprestano a illustrare al mondo chi sono, quali sono i valori in cui credono, quindi indicano le cose che non funzionano nell’organizzazione sociale complessiva e particolare, quali dovrebbero essere invece gli obiettivi a cui puntare, come intendono promuovere il cambiamento per migliorare la qualità dell’abitare della collettività sul territorio.

Conseguentemente i candidati alle elezioni in questo momento stanno consciamente o meno allestendo delle campagne di comunicazione, predisponendo strumenti retorici, studiando strategie narrative, individuando contesti interpersonali e massmediatici dove meglio possano brillare i contenuti del proprio discorso politico nonché lo stile del proprio personaggio pubblico.

L’intero discorso politico elettorale è qualcosa-che-sta-per-qualcos’altro, ovvero è un segno, e notoriamente un segno è ciò che può essere usato per mentire, ma qui non è rilevante.

In ogni caso vi sono delle scommesse forti – ripeto: consapevoli o meno – sulle aspettative degli ascoltatori poi votanti, sugli orientamenti politici e financo esistenziali, sulle interpretazioni condivise delle parole degli eventi e delle situazioni locali che poi danno forma al discorso complessivo, alle narrazioni.
È il momento delle storie, quelle che ci servono per dare senso alla realtà, da sempre.

Banalmente, c’è il momento della frattura narrativa – le cose sono cambiate, bisogna agire – dove emerge la necessità di un’azione di cambiamento, c’è un eroe, c’è la narrazione anticipatoria di un lieto fine a cui l’eroe grazie alle sue competenze cognitive e performative può condurci tutti, e salvarci.

Indubbiamente, le promesse dei politici acquistano senso quando possono essere inquadrate e incorniciate (framing) come parte di una narrazione familiare per gli ascoltatori, con cui questi possono identificarsi e relazionarsi, già prevedendo in termini di aspettativa la trama del discorso, delle azioni e degli ostacoli, il significato del successo in termini politici.

Non solo. Queste strategie di framing si riferiscono a un processo di influenza selettiva sulla percezione dei significati veicolati dal discorso politico, quello che attribuiamo a parole o frasi. Stiamo definendo la “confezione” di alcune retoriche in modo da incoraggiare certe interpretazioni e scoraggiarne altre. 

Per esempio, i concetti di framing e di agenda setting sono legati: richiamando coerentemente un frame particolare, l’esecutore del framing esercita un efficace controllo sulla discussione e sulla percezione dell’argomento, può ricostruire la cornice del discorso ri-orientando cotesto e contesto comunicativo, e in questo modo stabilire e allestire nel discorso la propria visione, le proprie credenze, la propria persona, le propria parola.

Stabilire una cornice comunicativa investe sul piano dell’enunciazione, del discorso pronunciato, molti aspetti dell’immagine pubblica: dalla scelta del colore della cravatta o del foulard, alla postura della persona, all’uso accorto della prossemica e dello sguardo e del gesticolare nell’eloquio, ai risvolti affettivi e alle metafore, ai rallentamenti o alle accelerazioni o ai cambi nel timbro prosodico, fino alle scelte lessicali e sintattiche, dove ultimamente si prediligono costruzioni discorsive limitate alle famose 6.000 parole di De Mauro che garantiscono una comprensione ampia alla diverse fasce dei popolazione insieme a strutture sintattiche paratattiche, ovvero un periodare di frasi concise e coordinate piuttosto che ipotattiche appesantite da subordinate elaborate ed eleganti ma meno efficaci soprattutto nei contesti della comunicazione massmediatica.

Frasi brevi e ficcanti, dunque, magari colorate di affettività quotidianità ed esperienze personali, che insieme alla struttura narrativa delle “storie da raccontare” garantiscono meglio la ricezione del messaggio e si adeguano maggiormente al sentire e alle schematizzazioni già note degli ascoltatori, per essere depositate più efficacemente nella memoria e prontamente richiamate alla bisogna. Costruisco sul già-noto, e introduco piccole quote di innovazione, altrimenti risulterei incomprensibile.

Persuadere muovendo l’animo, non convincere argomentando in modo logico-razionale, nella migliore tradizione sofista.

La narrazione come forma di esposizione incoraggia la partecipazione, stabilisce un sentimento di appartenenza, contribuisce alla costruzione dell’identità individuale e corale come collettività nazione o popolo, edifica un Noi percepito e vissuto come veicolo di riconoscimento sociale, può essere strategicamente impiegata per rendere possibile lo sviluppo di una comunità o di un attore collettivo.

Le storie, esprimendo concetti astratti o eventi complessi in modo concreto, attuando una dinamica dialettica tra le strutture retorico-discorsive del testo e le strategie interpretative dei lettori-ascoltatori più o meno incanalate dal framing scelto per la loro enunciazione –  il testo è una macchina “vuota” che noi arrediamo e vivifichiamo con le nostre proiezioni di senso – saldano un patto profondo e una visione del mondo tra il narratore e l’ascoltatore, garantita dallo stesso principio di cooperazione interpretativa e identificativa dove ognuno di noi in qualche modo modifica e ri-orienta le proprie percezioni e le proprie credenze valoriali per accogliere nuove visioni del mondo.

Le storie hanno una trama. Gli eventi vengono organizzati nella narrazione in implicazioni logiche e temporali, vengono resi significativi nel loro susseguirsi e svilupparsi – altrimenti resterebbero fatti isolati – in direzione di una conclusione anche valutativa, perché tutte le storie hanno una fine e hanno un fine, spesso morale o educativo in senso ampio, capace di elevare le coscienze dei fruitori, di mostrare una realtà futura ma raggiungibile.

In realtà nelle storie delle campagne politiche se il fine è “promettere un mondo migliore” la fine della storia è demandata al momento del voto elettorale, o addirittura al termine del periodo di governo, fatte salve le ulteriori interpretazioni sulla bontà dell’operato dei decisori pubblici. Questo crea un’orizzonte di attese, altra caratteristica intrinseca dell’allestire narrazioni, capace di catturare e tenere avvinto il lettore nello sviluppo degli accadimenti.

Come dicevo, non bisogna porre l’attenzione solamente sul messaggio, anzi. I significati veicolati dalle strategie comunicative acquistano senso solamente in un contesto di enunciazione preciso e concreto, qui e ora.
In quell’incontro pubblico, in quella trasmissione radiotelevisiva, in quell’arredare i canali social del personaggio politico e del suo discorso, nella scelta di quella cravatta o nelle nuove parole necessarie a dipingere la nuova realtà che si vorrebbe instaurare nell’opinione pubblica. Diventa necessaria una migliore comprensione dei contesti in cui la narrazione è attesa, delle convenzioni che regolano quali storie siano considerate comprensibili ed efficaci e le modalità per cui un racconto raggiunge il pubblico con efficacia, appunto con effetto moltiplicato dalla convergenza di fenomeni di mediatizzazione, spettacolarizzazione, e il crescente sentimento antipolitico che si registra nella società italiana. In un simile contesto enunciativo, in relazione all’emergenza di fenomeni come la diminuzione dell’attenzione – overload tipico delle campagne elettorali – e dell’interesse per la politica mediata, le storie sempre più rappresentano la modalità organizzativa regina del discorso politico, al punto da poter permettere il fiorire di professioni legate al marketing politico.

Un ultimo accenno agli aspetti affettivi del linguaggio.

Nelle storie servono esempi e metafore di esperienza personale, per scaldare il discorso e catturare gli ascoltatori dentro un orizzonte immediatamente comprensibile perché empaticamente condiviso e condivisibile, per questo vediamo o auspichiamo di vedere (restando critici sulle manovre manipolatorie del consenso) mani che stringono mani, sguardi rassicuranti o fieramente grintosi, per questo ascoltiamo narrazioni affettive in prima persona da parte del candidato o provenienti da testimonial, sentimenti semioticamente eloquenti come speranza, fiducia, pietà, rassicurazioni ottimistiche, visione ecumenica, determinazione, responsabilità, cura.

Per questo bisogna porre attenzione all’espressione affettiva – spesso contenuta nelle prime frasi del discorso pubblico – in quanto sorta di marca strategica nell’organizzazione delle configurazioni discorsive.

Capite tutti che le cose non possono funzionare così, ma ho fiducia nelle vostre capacità di comprensione e vi prometto solennemente che tutti insieme potremo costruire un mondo migliore, caldo di relazioni umane autentiche e in grado di realizzare concretamente un futuro appagante per tutti.
O anche solo un Facebook migliore, se non proprio un mondo.

ChatGPT in campagna elettorale

Udine 2023

Ciao GPT, scrivimi per favore un dialogo tra due aspiranti sindaci di Udine, uno di sinistra e uno di destra, in un confronto televisivo sulla tematica dell’innovazione con almeno due domande del moderatore.

Moderatore

Buonasera e benvenuti al nostro confronto televisivo tra i due aspiranti sindaci di Udine. 

Signor Rossi, lei rappresenta il Partito Democratico e ha promesso di investire nell’innovazione per portare la città al livello dei principali centri europei. 

Signor Bianchi, lei rappresenta la Lega e ha promesso di concentrarsi sulla sicurezza e sulla tutela dei cittadini. Iniziamo con una domanda sull’innovazione, argomento di grande importanza per la crescita e lo sviluppo del nostro territorio. Come pensate di implementare nuove tecnologie e strategie per migliorare la vita dei cittadini di Udine? 

Signor Rossi, come pensa di attuare le sue promesse in questo ambito?

Aspirante sindaco Rossi

Buongiorno a tutti, sì, sono d’accordo con lei, l’innovazione è un tema fondamentale per il nostro Comune. Crediamo che per far crescere il nostro territorio dobbiamo puntare sull’innovazione tecnologica, sull’educazione e sulla cultura. Il nostro programma prevede la creazione di un centro di formazione per le professioni del futuro, la creazione di un fondo per la cultura e la promozione dell’innovazione nell’edilizia sostenibile. 

La mia idea è che l’innovazione debba essere promossa attraverso investimenti in infrastrutture tecnologiche e formazione delle risorse umane, creando un incubatore per le start-up, che possa offrire spazi e servizi per supportare l’avvio e lo sviluppo di nuove imprese innovative. Inoltre, vorrei investire in infrastrutture digitali, come la banda larga e il 5G, per garantire un’adeguata connettività e favorire la crescita delle attività digitali. Tuttavia, penso che sia importante non trascurare l’aspetto sociale e culturale. Ad esempio, vorrei creare un programma di educazione digitale per i giovani, per garantire loro le competenze necessarie per accedere alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Inoltre, vorrei promuovere l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili per ridurre l’impatto ambientale.

Moderatore

Signor Bianchi, come si pone rispetto alle proposte del signor Rossi?

Aspirante sindaco Bianchi

Buongiorno a tutti, anch’io sono d’accordo che l’innovazione sia un tema fondamentale per il nostro Comune. Tuttavia, credo che dobbiamo essere anche molto attenti a come e dove investiamo i nostri soldi. Non dobbiamo dimenticare che Udine è un comune piccolo e che abbiamo bisogno di investire in cose concrete e utili per i cittadini. Il nostro programma prevede l’investimento in infrastrutture per la mobilità sostenibile, la creazione di un centro di innovazione per le PMI locali e la promozione di progetti di agricoltura innovativa per supportare i nostri contadini. Per promuovere l’innovazione nella città di Udine, propongo di attrarre grandi aziende high-tech per creare opportunità di lavoro e investimenti. Inoltre, vorrei creare un programma di incentivi per le piccole e medie imprese che investono in innovazione e tecnologia. Sono d’accordo sull’importanza dell’innovazione, ma penso che la sicurezza dei cittadini debba venire prima di tutto. Per questo, vorrei investire in tecnologie per la videosorveglianza e in sistemi di allarme per garantire maggiore sicurezza alle persone. Inoltre, vorrei promuovere l’occupazione attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro nell’ambito della sicurezza e della tutela dei cittadini. La mia proposta è quella di creare un programma di smart city, che prevede l’utilizzo di tecnologie avanzate per migliorare la qualità della vita dei cittadini. Ad esempio, l’installazione di sensori per il controllo del traffico, l’implementazione di un sistema di videosorveglianza intelligente e la creazione di una piattaforma digitale per la gestione dei servizi comunali.

Moderatore

Molto interessante, passiamo alla seconda domanda. Come pensate di coinvolgere i cittadini nella progettazione e nella gestione delle iniziative di innovazione?

Signor Rossi

Ritengo che la partecipazione attiva dei cittadini sia fondamentale per garantire che le iniziative di innovazione siano in linea con le loro esigenze e desideri. Per questo motivo, vorrei creare un sistema di consultazione online che consenta ai cittadini di esprimere le loro opinioni e di partecipare alle decisioni. Inoltre, vorrei creare una task force composta da esperti e cittadini per valutare e selezionare le proposte di innovazione.

Signor Bianchi

La partecipazione dei cittadini è fondamentale. Vorrei creare un sistema di co-progettazione che coinvolga i cittadini nella progettazione e nella gestione delle iniziative di innovazione. Inoltre, vorrei organizzare incontri periodici con i cittadini per discutere le iniziative in corso e raccogliere i loro feedback. In questo modo, potremo garantire che le iniziative (qui si è bloccato)

Moderatore

Grazie, signori. E come pensate di finanziare questi progetti?

Aspirante sindaco Rossi

Il nostro programma prevede l’utilizzo di fondi europei e nazionali, oltre a una stretta collaborazione con le imprese locali e le università del territorio. Inoltre, crediamo che sia importante creare un ambiente favorevole per gli investimenti privati, in modo da attrarre nuove imprese e nuovi investitori, creando appunto partnership con il settore privato per l’area di incubazione per startup innovative.

Aspirante sindaco Bianchi

Anch’io credo che sia importante utilizzare fondi europei e nazionali per finanziare i nostri progetti. Tuttavia, dobbiamo essere molto attenti a come utilizziamo i soldi dei cittadini, per questo il nostro programma prevede una stretta collaborazione con i cittadini stessi, per capire quali sono le loro esigenze e investire di conseguenza. Inoltre, crediamo che sia importante promuovere l’economia locale, supportando le PMI locali e le attività commerciali del territorio.

Moderatore

Grazie signori per le vostre risposte. Siamo giunti alla fine del confronto televisivo sulla tematica dell’innovazione. Buona fortuna nella campagna elettorale.

Tra nodo e nodo

Un commento su Facebook.
La questione riguardava l’identità friulana, e le azioni politiche della classe dirigente, la loro visione.

Hai (avete) usato dati solidi su cui poggiare l’argomentazione: andamento demografico, politiche del lavoro, statistiche macroeconomiche.

Poi avete accennato – scientemente – alla questione della “identità” forse come un grimaldello, un espediente retorico per muovere le passioni e la conversazione, ma si tratta di una nebulosa di contenuto, stratificata e sedimentata negli ultimi cinquanta e più anni, dai mille aspetti e dalle mille concettualizzazioni, e come sottolinei proprio questa ha “bucato” lo schermo.

Tutti guardano lo specchietto, ci dici, tutti guardano il dito e non la Luna.

Allora qui giustamente ritorni sul nodo della questione, il capitale sociale.

Di una società profondamente cambiata nei suoi valori profondi, peraltro, nelle sue prassi socioeconomiche: non è il Friuli di Pasolini, non è il Friuli del terremoto, non è più nemmeno il gaudente Friuli degli anni Novanta.

“Chi siamo” è un costrutto post-hoc, viene dal guardare cosa abbiamo fatto e interpretarlo secondo codici culturali mutevoli, viene dal cosa facciamo. Emerge.

L’Io emerge dalle relazioni, viene dopo, non è un nodo ontologicamente fondato.

Relazioni interne con parti di me, concetti di me, ri-conoscimenti, interpretazioni, narrazioni di me a me stesso e agli altri.

Relazioni con gli altri, con la loro idea di me, con l’idea che ho di loro, con il loro sentire, rapporti, somiglianze, nella rete ogni giorno tessuta della socialità, nell’intersoggettivo delle relazioni di cui aver cura. E già stabilire un “dentro” e un “fuori” di me, un Io cartesiano, è obsoleto e non permette di cogliere la ricchezza dell’esistenza.

L’Io nasce dal Tu, il Noi si fonda sulla condivisione di un sentire e di un punto di vista, assolutamente senza ricorrere a un Voi che poi orribilmente diventa un Loro, un nemico contro cui contrapporsi (mossa classica per definirsi), e non invece scambio e confronto osmotico arricchente con culture altre.

Non amo l’identità, il nazionalismo, il patriottismo, notoriamente. Sono inganni e manipolazione, colonizzazione dell’immaginario.

Ma quel capitale sociale di cui parli va innervato con una visione del domani, valori etici transgenerazionali, quel senso di appartenenza o meglio ancora direi quel *sentimento di appartenenza* che scaturisce sempre dalle pratiche di partecipazione sociale – nella post-modernità sempre meno diffuse, sempre meno vissute da ognuno di noi – e che poi diventa un modo di essere noi stessi, un riconoscerci, pronunciare le nostre parole e il nostro discorso originale al mondo, un essere intellegibili agli altri come un nostro peculiare stile dell’abitare, dello stare al mondo, dell’aver cura del territorio su cui la collettività risiede, dell’aver cura appunto delle relazioni interumane che tante piccole comunità riescono ad intrecciare avendo a mente e a cuore delle finalità nuove, rinovellate nelle narrazioni corali e massmediatiche, autentiche.

Gli obiettivi li abbiamo: transizione ecologica (qui son tutti a suonare nell’orchestrina del Titanic), dignità del lavoro, progettazione sociale e territoriale coraggiosa, visione politica alta, lungimirante, da statisti capaci di interloquire con il futuro delle generazioni. Anche le azioni da intraprendere sono chiare, con queste premesse.

Sulla politica però mi fermo, siamo dentro il balletto dei programmi elettorali, figurati.

E nessuno ha voglia di essere impopolare.

Pignarul 2023

Pettinare i flussi cittadini

In una città completamente sensorizzata (intendo smart lato hardware) dove tutti i dati vengono pettinati raccolti e acconciati da algoritmi e intelligenze artificiali diventa piuttosto semplice stabilire dove sono i nodi dei flussi di materia, energia, informazioni ovvero di merci e rifiuti (input e output), luoghi di produzione e richiesta energetica, dati e persone che ricordiamoci sempre sono come la pila Duracell di Matrix.

Questa non è politica, è amministrazione.

Guardare i dati complessivi su una city dashboard in tempo reale dev’essere interessante, senza dubbio. Poi si dipingono tre o trecento scenari, e si prova a vedere come i colli di bottiglia gli ingorghi i pasticci amministrativi potrebbero essere risolti, intervenendo qui e là grazie alle indicazioni degli algoritmi mediate dalle considerazioni che emergono dai luoghi partecipativi territoriali su piattaforme comunali, come se fosse da temporizzare un semaforo o calibrare la frequenza di passaggio degli autobus su certe zone, quando in realtà si potrebbe intervenire su questioni molto più complesse, avendo ferma la risonanza ecosistemica di ogni possibile decisione nel suo propagarsi nel funzionamento complessivo – perché complesso – della macchina amministrativa e del territorio.

Vediamo, 2023 e oltre

Ovvio che mi affascina l’Intelligenza artificiale o i nuovi algoritmi di machine-learning e tutte le potenzialità e insomma fate riferimento a tutta la massa di speculazioni che leggiamo in giro in questo passaggio d’anno sulle implicazioni di chatGPT.

Due cose le ho pensate.

Ma la verità è che sono proprio curioso di vedere cosa succederà, tra non molto, alla loro “implementazione” nel sistema operativo sociale che è Internet.

Portone Jannis

De Jannis narratur

Portone Jannis

Mio padre ha un cognome diverso dal mio.

Qualcuno erudito quanto faceto penserà subito che “mater semper certa est, pater numquam”, ma vi garantisco che non è il caso.

Perché mio padre Italo è del 1935, va per gli 87 anni, sta benino e vi saluta. Quando nacque ci trovavamo in pieno periodo fascista, e forse ligio alle fascistissime leggi della normalizzazione alla lingua italiana era al tempo l’addetto all’anagrafe a Tricesimo – in Friuli abbiamo casi eclatanti e vergognosi di italianizzazione forzata di cognomi e toponimi. Quella J non andava proprio.

Nel corso degli ultimi trent’anni circa a mio padre è appunto venuta – e ora invecchiando viene anche a me – la curiosità di conoscere qualcosa della nostra genealogia, la storia del nostro cognome Jannis (sempre mio padre insistette all’anagrafe nel 1967 affinché con me tutto tornasse alla dicitura originaria, attestata).

Attenzione. Ci sono pochi Jannis in Italia.

A giudizio dell’una volta famoso sito Cognomix, che credo anni fa ricavasse le frequenze statistiche della diffusione dei cognomi in Italia dagli elenchi telefonici e ora non so, ci sono solo otto famiglie con questo cognome, di cui sei in Friuli e altre due in Lombardia; queste ultime sono formate da friulani emigrati dopo la seconda guerra mondiale, conosciamo i nomi e tutto può essere tracciato a partire da alcuni fratelli di mio nonno.

Curioso anche che sempre Cognomix dica che non ci sono in Italia famiglie che si chiamano Iannis (ma ce ne sono, e qui intorno siamo rami dello stesso albero).

Perché uno pensa che da Joannes latino o Jannis greco (Giovanni) sarebbero dovute giungere fino a noi molte famiglie con questo cognome, e invece niente. C’è qualche Janni, molti Ianni, questo sì.

Ma Jannis siamo solo noi.

C’era uno zio di mio padre che si dilettava di fantagenealogie: secondo lui la provenienza della nostra schiatta derivava o da un ambasciatore polacco giunto qui verso il Trecento per prestare servizio presso la Serenissima Venezia (ipotesi considerata minoritaria), oppure da un clan di allevatori di cavalli magiari, emigrati verso ovest dalla attuale puszta ungherese, sempre nei primi secoli dopo il Mille. Quest’ultima più romantica congettura ha sempre riscosso maggior credito in famiglia, anche perché corroborata dal fatto che gli Jannis hanno per secoli avuto a che fare con i cavalli, allevamento e commercio. Tradizione proseguita nel tempo fino a giungere a mio nonno Antonio detto Bepi e ai suoi fratelli, che avevano una macelleria di carne equina a Tricesimo: poi prima i fascisti e poi i partigiani gli hanno ripulito il negozio, costringendo tutti a dichiarare fallimento.

Peraltro nelle famose guerre e baruffe tra Zamberlani e Strumieri, ovvero nelle lotte di classe seguite all’occupazione del Friuli patriarcale e di Udine da parte di Venezia nel 1420 – resta famoso l’episodio della Crudêl Joibe Grasse del 1511 – gli Jannis sono annoverati ovviamente a fianco dei Savorgnan, quindi zamberlani in quanto commercianti e borghesi filo-veneziani, contrapposti alla nobiltà castellana di estrazione feudale.

Il nucleo abitativo storico degli Jannis pare fosse Adorgnano di Tricesimo: nella foto potete vedere il tuttora colà esistente portone in ferro battuto di fine Ottocento, dove la Pace e la Giustizia si baciano.

Oltre alle molte iscrizioni presenti nella tomba di famiglia a Tricesimo dove troviamo molti Nicolò e Francesco e Luigi e Teresa e Lucia e Giacomo e Vincenzo e Giovan Battista a partire da fine Settecento, queste sono le informazioni raccolte da mio padre nel corso degli anni.

1426 – “recevei da Colau Iani di Adorgnan per l lira di vueli, sol. V” (registro in friulano della Confratemita di S. Maria di Tricesimo).

1467 – “Janis de Adorgnan per fit de l’anno presente e del prossimo passato, paga star l de forment alla confraternita dei Santi Fabiano e Sebastiano di Tricesimo.

1534, 28 aprile – divisione dei beni tra Giovanni, Leonardo, e Andrea fratelli e figli del qm. Giacomo Ianis di Adorgnano.

1559 — Leonardo Ianis, di Adorgnano, abitante in Tricesimo.

1670 — pre’ Domenico Janis di Adorgnano

1681, 1 febbraio — muore nel paese di Aiello, a 30 anni di età, Paolo Janis di Adorgnano che viveva in quel villaggio facendo i mestieri di marangone e vassellaro (dal friulano antico “vassielâr” ovvero costruttore di botti per vino). A Paderno, vicino Udine, si era sposato con Menica Occhiali

1685 – Valentino Jannis, notaio in Tricesimo.

1750 — il sacerdote “pre’ Nicolaus Jannis de Adorgnano”.

Per la spiegazione si dovrebbe partire da Ian, forse abbreviazione di Gianni/Giovanni (che in friulano però era ed è Zuan) oppure di Cancian, nome molto usato in Friuli.Tuttavia Ian era anche antico nome femminile {forse in questo caso abbreviazione dell’antica forma obliqua friulana in -an del nome Lucia e cioè Luciàn), come testimoniato nel “Catapàn” di Pagnacco (obituario e registro catastale medievale)

1320 — obiit in Christo Georgius filius Georgii de Coll Grion et Ian mater eius”.

Ian era anche madre di Domenico che nel Catapan viene sempre denominato “Domeni Ian”.

Nel detto registro, che riporta anche parti scritte in friulano medioevale, si ricordano ad esempio Leonarda fila Domeni Iani, Chatarina e Zorzo fradis e fiis de Domeni Ian, Zulian figl de Domeni Ian de Pagnà, Nicolao e Catarùs nevodi de Domeni Iani, Zorzo fiol de Zuan .. e nevot de Domeni Ian”.

Quindi, in questo caso, Domeni ha assunto (oppure ha ricevuto come soprannome) il nome di sua madre Ian, per essere chiaramente identificato tra i vari Domeni del paese. In seguito, nel corso dei secoli, è diventato cognome trasmettendosi a figli e nipoti.

Il suffisso finale in -is (nel medioevo usato per i nomi maschili: es. Menis, Petris, Jacomis, ma anche nei nomi di persona femminili: Margaris, da Margherita, Vignudìs, da Vignuda, ecc.) indica una forma diminutiva ma anche, secondo autorevoli studiosi, un rapporto di parentela.

Per Adorgnano, sulla base delle attestazioni conosciute, il suffisso -is risulterebbe aggiunto tra glianni 1426 e 1467

Bibliografia

Giovanni Fantini, ricerche di Archivio sui cognomi del Friuli (ancora in corso)

Carla Marcato, “Profilo di antroponimia frulana”. ediz, 2010

Maruela Betramini, Flavia De Vitt, “I Catapan di Pagnacco. 1318 — 1589”, ediz. 2012

We are here

Non è necessario implementare subito ogni nuova tecnologia o ambiente digitale nella socialità, però si può ragionare di tecnosocialità o di paesaggi mediatici, oppure di diritti umani, rischi e opportunità.
Diventa però sì necessario esplorare le potenzialità della democrazia elettronica, dove più che gli elettroni che viaggiano dobbiamo ideare e comprendere nuove strutture tecnosociali che possano sostenere il peso della responsabilità e della affidabilità. Piattaforme o ambienti digitali partecipativi, per la consultazione o la deliberazione politica.
Innanzitutto bisogna prendere il problemone e spezzettarlo in tanti problemi più piccoli, come al solito.
Le soluzioni di e-democracy praticate in altri Paesi o città, oggi o ormai trent’anni fa, sono tutte diverse, in quanto strumenti progettati con obiettivi e risultati attesi differenti.
Va stabilita una scala di situazioni, elaborati dei modelli di intervento, padroneggiare in noi quote di sperimentalismo dove anziché varare un’arca di Noè gigantesca e buona per tutti si provano meccanismi locali, o dai contenuti limitati, o da forme partecipative limitate – mi è sempre piaciuta l’idea che si possano commentare le iniziative cittadine a esempio urbanistiche con testi lunghi 300 caratteri, su piattaforme governative gestite da personale qualificato e ben retribuito, per aver cura dei forum e della community locale o iperlocale.
A quel punto avremo più dati, più informazioni, e potremo decidere meglio i prossimi passi da compiere.
Perché ogni tentativo di incrementare la partecipazione è democratico, tutto qui, da qui viene la necessità di intraprendere un percorso ragionato.
Tutte le critiche e le perplessità le conosciamo da trent’anni, siano esse di carattere tecnico o giuridico o etico. Non bloccatevi di fronte al Leviatano: restate flessibili, morbidi, curiosi, critici, sappiate vedere sentieri nel bosco.
Da una parte teniamo ferma la possibilità di alimentare le democrazie rappresentative con nuovi metodi di partecipazione.
Dall’altra riflettiamo sulla gravità del fatto che i contenitori della deliberazione pubblica e (quante volte lo abbiamo già visto) poi politica siano le piattaforme commerciali che tutti, metà degli italiani, usiamo giornalmente, molte ore al giorno, ogni giorno.
Questo significa – è necessario, di nuovo – che la politica deve superare un’alienazione, sappia portare a coscienza in sé i possibili preconcetti attribuiti alle forme di partecipazione digitale, affrontarli smontarli e ricostruire un modello adeguato alla realtà odierna. Quindi progettare nuovi ambienti e strumenti di partecipazione civica, motivare le persone e le collettività a utilizzarli per il bene comune, scongiurare l’allontanamento tra cittadini e istituzioni.
Credo una simile riprogettazione sociale dei meccanismi della partecipazione e della decisionalità politica porterà nel medio termine a profonde modifiche nelle strutture sociali, nelle organizzazioni lavorative pubbliche, nella percezione e nell’azione amministrativa, nella formazione dell’opinione pubblica, nella narrazione della cultura di una nazione, nel sentimento di appartenenza a comunità edificate secondo criteri di pertinenza a noi ancora invisibili, in quanto or ora emergenti dalle nuove pratiche di conversazione e dal nostro abitare digitale.
Dobbiamo navigare e aver coraggio: fatto il punto nave, dobbiamo ricalcolare la rotta verso le nuove migliori forme di democrazia partecipativa che siamo capaci di concepire e realizzare. Ci serve un buon cibernauta.

Comunità autonome – Bifo

Abbiamo quest’etichetta un po’ stantìa, quella di “lucido visionario”, che si adatta perfettamente a Bifo.

Non perché Franco Berardi viva in stati di allucinazione, ma per la sua capacità, da moderno “filosofo del sospetto” e critico, di saper leggere dietro la realtà dei fatti, o meglio dietro lo schermo di quella che ci viene presentata come realtà, trattandosi sempre di manipolazioni della percezione e dell’opinione comune, di quelle rappresentazioni o messe-in-scena che poi costituiscono il vero inganno rispetto alla situazione concreta dei fatti.
Bifo qui dice – più che altro, prendo appunti e parafraso quello da lui scritto – che la crisi economica attuale non assomiglia a quelle novecentesche: non abbiamo oggi una crisi finanziaria che investe l’economia reale. Anzi, i mercati finanziari godono di ottima salute, in questa fase post-Covid che tanto post ancora non è.

Proprio il Covid, come leva biologica e informazionale, ha reso manifesto uno scollamento tra, diciamo così, realtà e narrazione della realtà: l’astrazione finanziaria, gli stessi meccanismi economici del funzionamento del mondo come ciclo di produzione e distribuzione delle merci, nulla hanno potuto contro il virus né contro lo “psico-virus” della paura dell’epidemia, i suoi effetti psicologici nell’immaginario collettivo.

La globalizzazione oggi patisce molti sgambetti, perché non è più possibile garantire la catena integrata della distribuzione dei beni – great supply chain disruption – eppure il sistema borsistico è al rialzo, le grandi compagnie del ciclo digitale vedono moltiplicarsi i profitti: “Poiché l’astrazione – cioè il sistema interconnesso degli automatismi tecno-finanziari e dei flussi di informazione – diviene sempre più incapace di interagire con il collasso della materia organica, psichica e sociale possiamo aspettarci che a un certo punto l’intera macchina globale collassi”, dice Bifo, e in questo scollamento si disgregano le giunture della vita civile.

Le merci non sono disponibili, le materie prime latitano, la produzione diminuisce, la disoccupazione cresce, la società si impoverisce, il lavoro si precarizza, i salari scendono. Muta la psicologia, mutano i comportamenti: il consumismo non può più contare sul mercato della paccottiglia o drogare gli acquisti con beni voluttuari, quando c’è di mezzo la questione degli approvvigionamenti sostanziali delle industrie. Il capitalismo entra in una fase caotica, non più controllabile con strumenti della finanza e stimolo monetario, perché questo caos riguarda la sfera del concreto, dei corpi che si ammalano, delle menti che impazziscono, delle appartenenze sociali che si svincolano dal globale. Il denaro sta perdendo il suo fascino e la sua efficacia.

Se la misura dell’economia diventa l’utilità, è assai più facile prevedere per il futuro “la formazione e la secessione concreta di comunità autonome” che garantiscano alimentazione, cura, educazione… comunità fondate sul principio di uguaglianza e della frugalità, sul primato dell’utile rispetto al denaro. Questo può accadere a patto che la soggettività sociale sia in grado di esprimere autonomia, mentre oggi il sentimento prevalente è quello della depressione da parte di una generazione precaria incapace di solidarietà, e il panico di una popolazione sull’orlo di una crisi di nervi, sradicata e ora consapevole del proprio vivere dentro una illusoria bolla narrativa, una fiction non più capace di tenere salda e coerente la trama nel racconto sul funzionamento del mondo.

http://effimera.org/the-great-disruption-fine-o-trionfo-dellastrazione-di-franco-bifo-berardi/

Democrazia diretta

Ragionando.

Questa nuova cosa della “firma digitale” per i referendum – eutanasia, obiettivo raggiunto; cannabis, 100k firme in 24ore, obiettivo 500k per il 30 settembre – potrebbe cambiare parecchio i giochi degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione, incidendo significativamente sul sistema normativo.

In Italia ci sono oltre 35 milioni di persone su Facebook, ma consideriamo e teniamo fermo il dato dei 15 milioni di accessi giornalieri (stima al ribasso) soprattutto via mobile.

In Italia ci sono 24 milioni di SPID. Si può firmare anche con SmartCard o chiavette USB o altri modi autenticandosi, ma la vedo più farraginosa.

Incrociando i dati con approccio spannometrico, direi che dieci milioni di persone almeno vedranno la promozione del referendum online, per i prossimi venti giorni. Se una persona ogni venti firmasse l’obiettivo verrebbe raggiunto.

Magari adesso, all’apparir della novità, la curva della partecipazione mostra un picco statistico. Tra due anni, con in mezzo le proposte di altri venticinque referendum, ci saremo annoiati.

Dipenderà quindi dall’argomento del contendere, da quanto sarà sentito il problema dalla popolazione, e questo ci conduce agli strumenti di promozione, ovvero persuasione, ovvero manipolazione dell’opinione pubblica, ovvero soldi per le sponsorizzate, campagne di crowdfunding, ricerca di testimonial e influencer.

I soldi servono anche agli enti proponenti dei referendum, in quando la validazione dell’espressione popolare costa circa un euro per ogni firma, e così siamo già a mezzo milione di euro più le promozioni di cui sopra. Non si tratta solo di mettere online un dispositivo per la raccolta firme (costoso anch’esso), la macchina è un po’ più complessa (certo, anche predisporre banchetti nelle piazze costa), e forse con simili soglie di accesso economiche non si tratta proprio di una libera e gratuita partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.

Insomma, potremmo vederne delle belle.