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Eco-sistema unopuntozero

Io gli voglio bene, a Umberto Eco.
Mi diede dei bei voti all’università, ci chiacchierai affabilmente un paio di volte passeggiando sotto i portici di Bologna. A imbatterti nei suoi libri di semiotica al momento giusto, quando un amatissimo corso di studi già orienta il tuo sguardo sulle problematiche della significazione e della comunicazione, potrebbero accaderti degli sconvolgimenti radicali, sconquassi cognitivi, e da quel momento in poi ti trovi costretto a leggere il mondo in un certo modo, perché l’eleganza e la potenza di quei metalinguaggi rivelano i meccanismi profondi del nostro dare senso agli eventi, con le parole e con i segni. La semiotica è un punto di vista. Una disciplina, non una scienza. E poi Eco scrive bene, poco da fare, ti fa ridere anche quando ti racconta la filosofia medievale.
Inoltre, non gli si può nemmeno rimproverare di non conoscere i computer, perché saranno almeno quarant’anni che si occupa di logica computazionale e negli anni Sessanta la cibernetica che si intrecciava con la linguistica era dignitosissimo campo di interessi accademici.
Tant’è che da lì sarebbero giunte numerose suggestioni per i linguaggi informatici di programmazione, di cui sicuramente Eco si occupava attivamente tra fine anni ’70 e primi ’80, tra i suoi studi sulle teorie sociologiche della ricezione dell’opera e il successivo interesse per la “lingua perfetta”, naturale o artificiale che fosse, e tutti gli esempi storici che possono venire in mente a essa collegata, da Adamo (in che lingua parlò, quando Dio gli chiese di nominare il Creato?) a Raimondo Lullo a Athanasius Kircher all’esperanto ai linguaggi formalizzati.
Ma di web a quanto pare Eco non ci capisce. 
Noi tutti qui ormai traguardiamo i computer e i dispositivi, e puntiamo l’attenzione sulla digital life, sulla socialità in Rete, parliamo di Cultura digitale e non di Cultura informatica. Nel solito parallelo con le strade e le automobili, ci interessiamo dei comportamenti umani negli spazi sociali digitali, non di tecnologia del motore a scoppio (il pc) e della tecnologia della carreggiata autostradale (le reti).
Abbiamo in quindici anni di frequentazione di mondi digitali compreso quanto l’hardware influenzi il software, sappiam fare la tara e applicare le giuste categorie di giudizio valutando a esempio le diverse nicchie ecologiche in cui abitano un blog e un quotidiano online o l’enciclopedia cartacea e wikipedia, conosciamo per esperienza concreta di vita la portata “epistemologica” dei singoli strumenti e ambienti, e soprattutto confidiamo nella conversazione continua e incessante che agisce il web, dove le cose importanti sono i valori in circolazione, la reputazione, la fiducia, il pluralismo delle voci.
Ma di queste cose Eco non sembra accorgersi. Dice che manca il “filtro sociale”, ma la Rete tutta è filtro sociale. Credo per lui il web sia ancora una sorta di biblioteca giusto al di là dello schermo, quella finestra di pixel che io non vedo più.
Lui cerca parole ferme, testi come libri, io guardo i flussi di conversazione e la costruzione sociale della conoscenza e quindi della realtà, cose che peraltro Eco conosce bene, essendo coetaneo di Searle e Fodor, avendo con essi spesso dialogato tramite carteggi e botta-e-risposta nei convegni o nelle prefazioni dei libri, vero Luogo conversazionale dell’epoca dei supporti cartacei, e per aver lui stesso promosso teorizzazioni basate sulla condivisione del valore semiotico dei segni nell’universo dei parlanti (la nozione echiana di “enciclopedia”).
Se Eco vede i blog come libri, forse gli viene in mente una collana, una progressione, una serialità, una linea. E ogni testo è una perla di cui conoscere autore, paratesto, storia editoriale. Ma sono sempre perle in fila.
Per me un blog è un nodo nella Rete, è una parola in un discorso collettivo. Ne valuto la fondatezza e la novità in sé, per quanto posso fare con le mie conoscenze, e poi possiedo strumenti, appresi in anni di frequentazione e di relazioni interpersonali, per misurare nella Rete dei mille intrecci e delle mille voci il valore di quella parola, di quell’articolo giornalistico, di quel post su blog, di quell’affermazione in una chat o su un social network, per come rimbalza, per come viene ripreso e da molti commentato, per le discussioni che riesce a generare nell’ecosistema digitale e poi magari esondare sui media tradizionali, dove spesso viene frainteso in quanto non compreso nel giusto contesto. E il contesto è la chiave interpretativa, sempre. 
Dei molti significati di una parola, il contesto seleziona quello pertinente, e la parola assume senso. Qui e ora, storicamente, necessariamente.
Consideriamo dato il valore di uno scritto. Il suo significato storico, contingente, viene da noi misurato secondo relazioni sfondo-figura. La figura, l’elemento figurativo, il segno, trae il suo senso dallo sfondo su cui si staglia. E oggi lo sfondo è cambiato, e non è più fatto di collane secolari di libri che richiamano altri libri, di biblioteche borgesiane o come quelle de “Il Nome della Rosa”, ma è uno spazio vivo, di vive conversazioni.
E la stessa idea di “enciclopedia” di Eco, come cultura che vive nella mente di una comunità di parlanti (e che garantisce il reciproco comprendersi) ha forse cambiato forma, proprio nel senso di “forma del contenuto” su cui Eco rifletteva filosoficamente a fine anni Sessanta, quando stava ancora maturando quelle posizioni che lo avrebbero portato a definire il segno come “funzione segnica” che correla piano dell’espressione e piano del contenuto. E’ cambiata la forma dello sfondo, e dobbiamo modificare il modo in cui attribuiamo senso agli elementi significativi. Oggi la forma dell’enciclopedia è la Rete, non la biblioteca. Già in Eco abbiamo il rizoma quale riferimento figurativo, ma oggi noi tutti abitiamo nello scibile, non solo le opere chiuse (per quanto sempre aperte). Le persone abitano direttamente i Luoghi della conoscenza, e le relazioni tra di loro sono elementi sintattici imprescindibili per la comprensione del testo, della sua semantica misurata nella conversazione.
Con il solito parallelo, potrei anche dire che Eco vede gli alberi, ma non vede il bosco, dove gli alberi vivono come entità collettiva ecosistemica, in dialogo perenne.
E quindi una volta di più, come dice Mantellini riportando una sua intervista a un giornale spagnolo, quando parla di web Eco dice baggianate (vedi anche Downloadblog). 
Cose magari giuste, ma di quando il web appunto era pensato e vissuto ancora come una biblioteca, fatta di editori/blogger senza alcuna autorevolezza (ma l’autorevolezza se la sarebbero conquistata con le migliaia di interazioni direttamente intrattenute con migliaia o milioni di utenti). 
Cose magari giuste, se prese in modo isolato, ma giudicate in un modo terribilmente inadeguato rispetto all’attuale funzionamento dell’ecosistema della conoscenza.
Ragionamenti magari giusti, se intrapresi in solitudine da chi usa il web solo per leggere, senza coinvolgersi personalmente nelle conversazioni su un social network, nei commenti di un blog, in quelle palestre di socialità dentro cui noi ci siamo fatti le ossa, maturando nuove posizioni interpretative e financo etiche sulla portata comunicativa di quanto viene affermato nelle vocianti piazze della Rete, e non solo nei silenti saloni dei conventi del Sapere.
Ahimè, Eco è un tipo unopuntozero.
Poco male, ci penseremo noi a traghettare rispettosamente e creativamente le sue squisite intuizioni sul funzionamento concreto della comunicazione umana nel mondo della Cultura digitale. Un po’ per ciascuno, tutti insieme.

Update: Mantellini approfondisce sul Post

Google situazionale

Suzuki Maruti aka Enrico Sola forse per primo ha istituzionalizzato il giochino, giustamente nominandolo Anafore, per le sue qualità retoriche. Anafora, come ripetizione, ma soprattutto anafora come un richiamo a risalire il testo, verso qualcosa di precedentemente espresso.
Perché da una ricerca su Google si risale a tutto quello che è stato webpubblicato, e che contiene quelle parole.
Ma l’anafora, a esempio nello studio dei pronomi in quanto forme grammaticali, in quanto funzioni linguistiche, per le loro peculiari implicazioni nella filosofia del linguaggio, richiama spesso la deissi.
Belli, i pronomi. Sono la cerniera tra l’Io e il mondo, quell’interfaccia che si fa carico di rappresentare l’identità del parlante dentro il linguaggio, la voce presenza del corpo che situa il mio stare nella situazione enunciativa o comunque narrativa, quell’essere che è un dire di essere, quel dire che è stabilire “io sono”.
Come i pronomi, la funzione deittica del linguaggio questo fa, lega il testo al contesto, lo situa nel tempo e nello spazio, lo immerge e lo incarna nelle concrete relazioni interpersonali, negli universi del discorso.
E questo a me viene in mente quando vedo i suggerimenti che Google stesso, soglia significante di squisito valore gangherologico, fornisce all’immissione delle parole di ricerca, o di alcune lettere.
Trattandosi presumibilmente delle parole chiave maggiormente digitate in ciascuna lingua, quelle tracce d’aiuto che compaiono d’improvviso non solamente rimandano ai pertinenti contenuti testuali alloggiati in Rete, ma ci permettono uno sguardo quanto alla rilevanza che assumono per le persone che li cercano, per l’istantanea sull’immaginario collettivo, per il risvolto antropologico immediato: i suggerimenti di Google sono una sonda gettata sulla realtà, e l’aleatorietà della contestualizzazione innesca innumerevoli fughe narrative nel lasciarci immaginare deitticamente gli scenari di vita, i drammi e gli affetti di milioni di persone.
Non disdegnerei neanche il valore cogente dei suggerimenti offerti: per essere presenti in seguito all’immissione dei termini di ricerca, quei completamenti sono senza dubbio statisticamente significativi, rappresentando sicuramente ciascuno il risultato di milioni di ricerche già effettuate. Siamo sempre in pars pro toto, metonimia dove la parte sta per il tutto e ci permette di trarre inferenze, ma i numeri in gioco situano il giochino ben al di là del campione rappresentativo: a meno che Google non intevenga nella modalità di presentazione, credo si tratti veramente di una fotografia fedele dei pensieri e degli interessi di metà degli italiani (il che permette anche di comparare nazioni tra loro, e vergognarsi di quello che mediamente gli italiani cercano in Rete, ovvero puttanate televisive).

Qui ho messo un po’ di esempi.

Comunicazione, informazione e nuove tecnologie

Giovedì 18 marzo alle 20.45, presso il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone avrà luogo un incontro pubblico di assoluto rilievo dal titolo “Comunicazione, informazione e nuove tecnologie”, nell’àmbito del festival Dedica 2010 quest’anno centrato sulla Metamorfosi del mondo della conoscenza e sulla figura di Hans Magnus Enzensberger.
La conversazione pubblica, presente lo stesso Enzensberger, prevede la partecipazione di Derrick de Kerckhove, Luca De Biase, Mario Perniola
Imperdibile.

Ulteriori informazioni qui.


Società della conoscenza a Pordenone

Giovedì 18 marzo alle 20.45, presso il Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Pordenone avrà luogo un incontro pubblico di assoluto rilievo dal titolo “Comunicazione, informazione e nuove tecnologie”, nell’àmbito del festival Dedica 2010 quest’anno centrato sulla Metamorfosi del mondo della conoscenza e sulla figura di Hans Magnus Enzensberger.
La conversazione pubblica, presente lo stesso Enzensberger, prevede la partecipazione di Derrick de Kerckhove, Luca De Biase, Mario Perniola
Imperdibile.

Ulteriori informazioni qui.

Internet è libertà, perchè dobbiamo difendere la rete

Giovedì 11 alle 15 alla Sala della Regina, Montecitorio.
Lectio magistralis di Lessig.
Diretta in streaming sulla webtv diMontecitorio.Giovedì 11 marzo alle 15, presso la Sala della Regina di Palazzo Montecitorio, si terrà il convegno “Internet è libertà, perchè dobbiamo difendere la rete”. I lavori saranno aperti da un intervento del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Seguirà la Lectio magistralis su “Il web e la trasparenza tra ideali e realtà” di Lawrence Lessig dell’Università di Harvard.

Successivamente, interverranno Franco Bernabè, Amministratore delegato di Telecom Italia, Umberto Croppi, Assessore alle Politiche culturali e della comunicazione del Comune di Roma, Fiorello Cortiana, Responsabile Innovazione della Provincia di Milano, Juan Carlos De Martin, Responsabile Creative Commons Italia, Paolo Gentiloni, Deputato del Partito Democratico, Stefano Quintarelli, Presidente di Reeplay, Paolo Romani, Viceministro allo Sviluppo economico.

Moderatore sarà Riccardo Luna, Direttore di Wired. Il convegno sarà trasmesso in diretta sulla webtv di Montecitorio http://webtv.camera.it/.

Pubbliche Amministrazioni reticenti, ovvero “I furbetti della trasparenza”

Non intendo indignarmi, né rincorrere scandalismi.
Ma alla base c’è un fatto: i siti istituzionali governativi nascondono informazioni ai motori di ricerca. Ah, italietta.
PA – Certo che abbiamo pubblicato i dati!
GJ – Ma con Google non trovo niente!
PA – Certo, li abbiamo resi difficilissimi da trovare!!
GJ – …
E tenete presente che proprio l’Operazione Trasparenza promossa da Brunetta prescrive che certi dati debbano essere pubblicati sui siti delle Pubbliche Amministrazioni:
La legge n. 69 del 18 giugno 2009 (“Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”) impone, all’art. 21, comma 1, che tutte le pubbliche amministrazioni debbano rendere note, attraverso i propri siti internet, alcune informazioni relative ai dirigenti (curriculum vitae, retribuzione, recapiti istituzionali) e i tassi di assenza e di presenza del personale, aggregati per ciascun ufficio dirigenziale.

Pubblicati sì, ma non rintracciabili. Se seguite il link sopra per l’Operazione Trasparenza, trovate che nella stessa pagina del sito innovazione.gov vi è un collegamento per un file in .pdf intitolato “Accorgimenti tecnici per impedire l’indicizzazione nei motori di ricerca”.

E’ sufficiente modificare il file robots.txt del sito, e tutto diventa impermeabile. Che ridere.

Trovate la notizia da Vittorio Pasteris, da .mau., su Noisefromamerika, leggete anche i commenti.
I furbetti della trasparenza, sì, abbiamo.
Chiramente, ho provato subito a vedere quanto dell’attuale sito della Regione Friuli Venezia Giulia sia “oscurato” all’indicizzazione da parte dei motori di ricerca.
Beh, praticamente tutto. http://www.regione.fvg.it/robots.txt
Metto anche uno screenshot, ‘spetta.
UPDATE: smanettando un po’ con le opzioni di ricerca di Google, sono infine riuscito a trovare le retribuzioni dei dirigenti regionali FVG. Evidentemente la directory “amministrazione” non è tra quelle inibite all’indicizzazione. Beh, meno male.
Resterebbe da sapere il motivo di quel file robots.txt che vedete qui sopra, ma posso capire che ci possano essere motivi di privacy, di qua o di là.

UPDATE 2 – 19 marzo
Il sito governativo mostra modifiche nell’architettura, gli indirizzi url sono cambiati. Leggete i commenti.

Zambardino: la narrazione del cambiamento

Lo scorso 15 febbraio si è tenuto a Milano un incontro pubblico con Vittorio Zambardino, Massimo Russo e Marco Pratellesi, nell’ambito di Meet the Media Guru.
I temi affrontati – la crisi del giornalismo tradizionale, i molti pericoli che corre il web, il contrasto tra apologeti della rete e neo-luddisti – hanno contribuito a fare emergere alcune delle aree grigie disseminate all’interno della rete e a evidenziare i dogmi e gli stereotipi per combattere i quali Zambardino e Russo pensano siano necessarie le nuove eresie raccontate nel progetto Eretici Digitali: un manifesto, un blog e un libro edito da Apogeo. (da MeettheMediaGuru)
Era possibile inviare delle brevi domande da porre ai relatori, in formato video, cosa che ho prontamente fatto. Non penserete mica che un cellulare serva solo per telefonare, oggidì.
Comprensibilmente, per chi legge questo blog, il focus del mio intervento riguardava la narrazione del cambiamento, quindi le possibili strategie comunicative (le retoriche, le argomentazioni, lo stile) da adottare per veicolare una promozione della Cultura digitale nella società italiana, al di là di quelle solite banalizzazioni e dei soliti toni scandalistici o terroristici utilizzati nel passato e ancor oggi dai media tradizionali che di fatto impediscono la diffusione nell’opinione pubblica di una serena presa di coscienza rispetto alle potenzialità offerte da questa nostra Era digitale.
E Vittorio Zambardino mi ha anche rapidamente risposto, qui trovate i video, proprio sottolineando come questo sia il momento di tener duro, per evitare che vecchie logiche di potere, vecchie narrazioni molto interessate tentino di mettere un loro sigillo, soffocante e normativo e paralizzante, al rapido fluire delle nuove forme di Cittadinanza digitale.
Dopo aver visto i video, date con calma un’occhiata a Eretici digitali: credo veramente si tratti di uno dei luoghi eccellenti italiani nell’elaborazione di una consapevolezza riguardo alla Transizione digitale.

Cittadino digitale naturalizzato

Io abito in rete, questo voglio dire. E anche se non sono un nativo, ma un cosiddetto immigrato, ormai sono un cittadino naturalizzato delle lande digitali, le ho costruite un po’ anch’io, ho fatto le battaglie per la Cultura digitale, eccetera.

Tutto questo perché ogni tot di tempo riemergono le discussioni sul significato e sulla portata dell’espressione “nativi digitali”, a partire dalla definizione iniziale di Prensky del 2001.
Anche se ho già fatto notare che l’espressione “immigranti” (e quindi “nativi”, per correlazione immediata) sia presente nella Dichiarazione d’indipendenza del Cyberspazio di Barlow, del 1996.

Cercate nativi digitali su Google, io ne ho parlato qui e qui, per non dire di tutte le volte che ho lasciato interventi kilometrici sui blog altrui, soprattutto quelli che trattano di formazione scolastica o in generale di educazione alle nuove generazioni.

La mia idea era che sì, siamo immigrati, i nostri schemi mentali non si sono sviluppati a contatto con gli ipertesti, siamo fatti di libri che ci agitano dentro, siamo meno multitasking, attribuiamo intelligenza e profondità a argomentazioni ipotattiche e diffidiamo un po’ di chi ragiona per paratattiche e costruzioni grammaticali fatte di coordinate, anche se qualche filosofo ha detto che “la verità è in superficie” rimaniamo dubbiosi, l’idea che le cose importanti siano ben nascoste (una cosa rinascimentale-neoplatonica-alchemica, in fondo, come ripresa dei Misteri e della Gnosi) è sempre lì che orienta il nostro sguardo, in fondo non capiremo mai veramente la Cultura digitale, i nativi digitali sviluppano modalità cognitive che non ci apparterranno mai, nessuno abita territori e tutti abitiamo linguaggi (vero) e loro abitano appunto altri linguaggi, lo scarto generazionale è incolmabile, i barbari ci seppelliranno, noi siamo tardivi digitali, siamo traghettatori della Cultura umana nei nuovi Luoghi di Abitanza digitale, siamo esploratori e forse abitanti nomadi ma non siamo i primi coloni stanziali dei nuovi Territori immateriali ecosistemici della Conoscenza, come formatori dobbiamo mediare in noi stessi la nostra inadeguatezza rispetto ai giovani e accordarci ai nuovi contesti educativi, e via andare.
Tutto vero, ma sono pensieri, guarda un po’, binari. O così o cosà, bianco e nero. Le semplificazioni dei pionieri, che han bisogno di capire rapidamente il mondo sennò vanno in confusione, quindi tranciano giudizi frettolosi, e per giunta sulla base di una cultura inadatta a comprendere i nuovi fenomeni.

Ora, io sono nato nel 1967. Al momento, e spero per molto tempo ancora ma dubito, ho 42 anni.
Da bambino vedevo arrivare la tv a colori e la radio FM, avevo una macchina fotografica e una cinepresa in super8 per le mani, mi spiegavano il telex, giocavo a videogames nei bar con Asteroid e PacMan, smontavo oggetti tecnologici fatti di cose elettrotecniche o elettroniche, compravo riviste di elettronica con il kit faidate per costruire allarmi sonori, ragazzino rubavo manciate di led rossi nelle fiere dell’elettronica per costruire impianti di “luci psichedeliche” fatti stagnando condensatori a un filo elettrico collegato all’altoparlante della radiolina, i miei amici avevano lo ZX Spectrum o l’Amiga nei primi Ottanta con cui programmavamo in Basic un gioco della bottiglia che assomigliava tantissimo alla schermata dell’ora esatta in TV, il manuale delle GiovaniMarmotte mi insegnava a scrivere in codice Morse o a costruire una antenna, usavo registratori a quattro piste e facevo i radiogiornali con le colonne sonore, a quattordici anni insieme al rock settantone mi son beccato tutto il synthpop dritto nei neuroni, a diciassette anni smanettavo gli oscillatori del mio defunto synth Poly800 e batterie elettroniche, per ballare da 25 anni preferisco la musica elettronica, ho fatto cose su un palco usando campionatori, sono cresciuto con narrativa o telefilm di fantascienza dove dispositivi elettronici da SHADO a Neuromancer a Avatar sono ubiqui, chattavo con il Videotel nei primi Novanta e guardavo le BBS degli amici informatici, ho imparato a usare il PC per scrivere e giocare, ho un cellulare dal 1998, eccetera eccetera.
Ho 42 anni, credo di essere la “soglia alta”, tutti i miei coetanei e tutti quelli più giovani sono come me cresciuti immersi in un ambiente elettronico, poco da fare. Ci siamo cresciuti dentro.

Non è che per capire la Cultura digitale devo cadere per forza nelle categorie di nativo o di immigrato, che sia chiaro sono uno spartiacque temporale, fondato sull’essere nati prima o dopo il 1990, ma poi perdono significato se indagate secondo le competenze digitali individualmente possedute, nel nostro essere cognitivamente o antropologicamente orientati all’abitare qui dentro.
Internet l’han fatto dei vecchiacci come noi, i giovani ci abitano con modalità loro, i loro figli muteranno ancora il senso dell’abitare indifferentemente in Luoghi biodigitali.

Lo scopo finale dell’educazione è formare cittadini, proattivi attenti critici e consapevoli. E chiaramente penso anche alla Cittadinanza digitale. E i nativi digitali devono essere formati da persone che devono avere anche competenze di cittadinanza digitale nel loro bagaglio culturale, altrimenti non funziona. Non possono insegnare a sé stessi da soli, i ragazzi, come comportarsi nel mondo. Né è ammissibile che gli insegnanti tralascino questo aspetto, molte volte ne ho parlato, perché non si possono tralasciare nell’educazione quegli aspetti di orientamento al mondo concreto dove le giovani generazioni si trovano già a vivere, un mondo fatto di comunicazione istantanea come mai si è visto prima.

E in ogni caso per noi tardivi digitali le cose non vanno viste come se ci fosse stato un BigBang, un evento che pone il prima e il dopo, i nativi e gli immigrati. Io sono cresciuto dentro un mondo elettronico, non ho avuto nessuna difficoltà da bambino a capire il telecomando della televisione o il telex, ragionare con un computer o un videogioco non mi ha creato nessun problema, ero pronto a farlo, mi è venuto naturale, perché evidentemente già abitavo dentro quel linguaggio fatto di display e di sensori e di interfacce e di joystick.

Siamo Cittadini Digitali naturalizzati. E come formatore non è che mi sveglio una mattina e vado nel panico, perché d’un tratto ho compreso una mia ontologica inadeguatezza a insegnare la vita a persone che sono nate con il mouse in mano e l’occhio su YouTube. Sono pronto.
Il compito rimane comunque quello di educare i giovani, educare i nativi digitali alla Cittadinanza digitale, che non è certo in loro nativa. E’ sufficiente ragionare sulle differenze tra alfabetizzazione informatica e competenza digitale, per comprendere l’intero discorso. E’ sufficiente muovere da basi di competenza digitale (privacy, reputazione, rispetto, ascolto, consapevolezza) per arrivare alla Cittadinanza digitale correttamente intesa. Come dico sempre, un conto è il carburatore, un conto è il Codice della Strada.
Io conosco la tecnologia molto meglio degli studenti. Ci sono cresciuto dentro, ho frequentato le tecnologie vivendoci assieme tutta la mia vita, ci ho riflettuto sopra, ho compreso le dimensioni tecnosociali, ho costruito il web, come il solito nano sulle spalle degli altri ho contribuito a delineare alcune norme di buon comportamento civico, continuo a imparare, so insegnare Cultura digitale, so raccontare il mondo, vivo la modernità e la mia performance.
Non sono un immigrato, sono un cittadino digitale, e abito molti linguaggi.

Dameleneide atto terzo (o quarto, boh)

Che poi dici: perché non posso stare tranquillo, anziché vedermi passare davanti parole insulse? Oppure: la gente ti giudica dai nemici che hai. O anche: non ti curar di loro, ma guarda e passa (non ci riesco, c’è un limite). E poi: occhio a non metterla sul personale (certo che no, qui si è educati alla dialettica onorevole, si attaccano gli argomenti e non la persona. Ma se ti incaponisci, cosa devo pensare di te?)

Insomma, mi tocca riprendere in mano la Dameleneide e seguitare a raccontare senz’indugio delle gloriose gesta del personaggio pubblico Daniele Damele (già Presidente del Corecom regionale FVG, dirigente funzionario alla Provincia di Udine, docente universitario, giornalista e anchor-man televisivo sulla tv locale) di cui purtroppo già fui costretto a commentare in passato le miopi o disinformate proposte per una legiferazione alquanto censoria sulle cose di Internet, oppure le sue indicazioni fumose sulla sicurezza in rete per i minori da ottenere con filtri software alla navigazione, promossi questi ultimi da un prete piuttosto ambiguo. Vi rimando a questo mio post e a questo articolo pubblicato su Bora.la, per le puntate recenti della Dameleneide.
Io passerei volentieri i miei sabati pomeriggio a leggere qualcosuccia sulle correnti filosofiche neoplatoniche cabalistiche e alchemiche di Pico, Francesco Giorgi da Venezia e di Cornelio Agrippa, e del loro influsso sulla letteratura inglese pre e post scespiriana, ma poi càpitano cose a cui non so resistere, come un’amatriciana ben fatta.

Cos’avrà combinato questa volta, il nostro eroe, che ormai nei miei pensieri pongo narrativamente tra DonChisciotte e Bertoldo? Come al solito, coglie una notizia di cronaca e ci ricama su i suoi ragionamenti riguardo l’assoluta impellente necessità di normare i comportamenti digitali di metà degli italiani con delle nuove leggi, tagliate specificatamente per questi nuovi ambienti online dove ci sono le bande sovversive e il Male alligna nell’ombra.
Ecco qui il collegamento per il suo articolo “Occorre legiferare sul web” (qui lo screenshot, per sicurezza), e stavolta mi tocca proprio linkarlo. Leggetelo.
A molti di voi potrebbe in seguito venire in mente un ragionamento, e qui non c’entra molto avere competenza personale sugli ambienti digitali, è sufficiente avere del buon senso.
Infatti, perché mai dopo un articolo che mi racconta di come magistrati e polizia sono riusciti a ottenere una “vittoria” per alcune inchieste e denunce (i fatti Youtube-Mediaset e il caso PirateBay sono l’oggetto del contendere) Damele propugna nuove leggi?
Il suo articolo stesso dimostra che le leggi e le indicazioni del codice civile e penale per questi reati già ci sono, funzionano perfettamente, e le parti offese dei processi ottengono risultati a proprio favore.

Quindi Damele parla a vànvera, quello che gli preme è semplicemente sostenere le sue personalissime tesi al di là dell’evidenza (e si tratta di un giornalista che all’Università di Udine insegna Etica e Comunicazione, eh), foss’anche portando a loro sostegno argomentazioni e fatti che di per sé dicono proprio il contrario di ciò che lui vorrebbe farci credere.

Ma non è mica finita, cosa credete.
L’articolo che Damele ha firmato sul suo blog, non è farina del suo sacco.
Vedete, Internet è nata e cresciuta anche copiaincollando informazioni e opinioni, e non vi è niente di male in questo, purché secondo prassi scientifica o semplicemente per dignità venga riportato anche il nome dell’autore, e un link per poter accedere ai documenti originari.
Ma Damele firma come suo un articolo del Sole24ore di Giovanni Negri, dopo averlo copiato per il 95%. Non linka, non cita la fonte (e si tratta di un giornalista che all’Università di Udine insegna Etica e Comunicazione, eh).
Per aiutarvi nella spassosa analisi, vi ho preparato l‘articolo del nostro eroe paragonato con il testo originale a fronte, cliccate sull’immagine. In rosso, tutti i paragrafi uguali.

E pazienza, se nelle prime righe l’articolo originale dice “Una nuova legislazione del web per ora manca. E forse (…) non se ne sente neppure il bisogno perché la magistratura sta dimostrando di essere in grado di utilizzare le norme attuali per rispondere alle diverse sollecitazioni della cronaca”, Damele prende il tutto e senza avvedersi dello strafalcione trasforma i contenuti del pezzo di cronaca del Sole24ore in argomenti buoni per una delle sue malfondate perorazioni, concludendo come al solito che adesso tocca al Parlamento fare la sua parte.
E giù a lamentarsi dei reati di internet, tipo la diffamazione, quando in questo stesso momento non so se tutta questa sua manovra sia da considerarsi plagio o falso letterario o cos’altro.

Ultima annotazione di colore, prima di lasciarvi ridere liberamente.
Guardate come nelle prime righe dell’articolo originale la frase “[la sentenza] ammette che il sito “incriminato” possa essere sequestrato” diventi ora “ammette che il sito “incriminato” debba essere sequestrato“.
C’è tutto un mondo in questa trasformazione del verbo modale, c’è tutto un richiamo a un differente universo valoriale all’interno del racconto.
Tra il potere e il dovere, c’è di mezzo il volere di Damele, a quanto pare.

La Carta dei Cento per il libero wi-fi

update ore 16.00
Molti in Rete ne hanno parlato, e ancora di più se ne parlerà domani, quando uscirà sul cartaceo.
Però Gilioli nel dare la notizia, lui personalmente coinvolto nell’iniziativa, ha aggiunto delle informazioni sulla presentazione di una proposta bipartisan, Cassinelli-Concia, dove sostanzialmente si prevede di alleggerire il decreto Pisanu permettendo l’accesso tramite riconoscimento via sms, come in italia avviene ad esempio da McDonald o negli aeroporti.
Mi sembra tanto la solita soluzione all’italiana, terra di pateracchi e “ma anche”, visto che comunque il decreto rimane lì a limitare pesantemente la diffusione del wifi libero, per chi (biliotecari, librai, luoghi pubblici, operatori culturali, esercizi commerciali) voglia offrire un banalissimo (nel resto del mondo) servizio ai propri fruitori/clienti.
Leggete in giro: Gilioli, Mantellini, Apogeonline, BlogBabel, Maistrello giustamente scocciato che spiega per bene, Cassinelli stesso, a cui tributo onore per l’impegno ma a cui forse manca ancora l’orizzonte culturale necessario a comprendere fino in fondo la proposta della Carta dei Cento.

LA CARTA DEI CENTO PER IL LIBERO WI-FI
Anteprima: l’appello sarà pubblicato da L’Espresso venerdì 27 novembre 2009

Il 31 dicembre 2009 sono in scadenza alcune disposizioni del cosiddetto Decreto Pisanu (”Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale”) che assoggettano la concessione dell’accesso a Internet nei pubblici esercizi a una serie di obblighi quali la richiesta di una speciale licenza al questore.
Lo stesso Decreto, inoltre, obbliga i gestori di tutti gli esercizi pubblici che offrono accesso a Internet all’identificazione degli utenti tramite documento d’identità .

Queste norme furono introdotte per decreto pochi giorni dopo gli attentati terroristici di Londra del luglio 2005, senza alcuna analisi d’impatto economico-sociale e senza discussione pubblica. Doveva essere provvisoria, ed è infatti già scaduta due volte (fine 2007 e fine 2008) ma è stata due volte prorogata.
Si tratta di norme che non hanno alcun corrispettivo in nessun Paese democratico; nemmeno il Patriot Act USA, approvato dopo l’11 settembre 2001, prevede l’identificazione di chi si connette a Internet da una postazione pubblica.
Tra gli effetti di queste norme, ce n’è uno in particolare: il freno alla diffusione di Internet via Wi-Fi, cioè senza fili. Gli oneri causati dall’obbligo di identificare i fruitori del servizio sono infatti un gigantesco disincentivo a creare reti wireless aperte.
Non a caso l’Italia ha 4,806 accessi WiFi mentre in Francia ce ne sono cinque volte di più.

Questa legge ha assestato un colpo durissimo alle potenzialità di crescita tecnologica e culturale di un paese già in ritardo su tutti gli indici internazionali della connettività a Internet.
Nel mondo la Rete si apre sempre di più, grazie alle tecnologie wireless e ai tanti punti di accesso condivisi liberamente da privati, da istituzioni e da locali pubblici: in Italia invece abbiamo imposto lucchetti e procedure artificiali, contrarie alla sua immediatezza ed efficacia e onerose anche da un punto di vista economico.
Questa politica rappresenta una limitazione nei fatti al diritto dei cittadini all’accesso alla Rete e un ostacolo per la crescita civile, democratica, scientifica ed economica del nostro Paese.

Per questo, in vista della nuova scadenza del 31 dicembre, chiediamo al governo e al parlamento di non prorogare l’efficacia delle disposizioni del Decreto Pisanu in scadenza e di abrogare la previsione relativa all’obbligo di identificazione degli utenti contribuendo così a promuovere la diffusione della Rete senza fili per tutti.

FIRMATARI
Alberto Abruzzese, docente universitario
Paolo Ainio, ceo Banzai
Paolo Basilico, ceo Kairos
Paolo Barberis, presidente Dada
Elvira Berlingieri, giurista
Giovanni Boccia Artieri, docente universitario
Raffaele Bianco, consigliere comunale e blogger
Antonio Boccuzzi, parlamentare
Stefano Bonaga, docente universitario
Roberto Bonzio, giornalista e blogger
Dino Bortolotto, Assoprovider
Mercedes Bresso, presidente Regione Piemonte
Giulia Caira, artista
Giovanni Calia, docente universitario, Supervisor New Media
Alessandro Campi, docente universitario
Luisa Capelli, editrice
Marco Cappato, presidente Agorà Digitale
Roberto Casati, filosofo e docente CNRS Parigi
Marco Cavina, docente universitario
Giuseppe Civati, consigliere regionale e blogger
Gianluca Comin, presidente Federazione Relazioni Pubbliche italiana
Luca Conti, consulente e giornalista
Davide Corritore, vicepresidente Consiglio Comunale di Milano
Carlo Felice Dalla Pasqua, giornalista e blogger
Mafe De Baggis, consulente Web
Derrick De Kerkhove, docente universitario
Juan Carlos De Martin, docente universitario
Gianluca Dettori, imprenditore Web
Lorenzo Diana, Fondazione Caponnetto
Arturo Di Corinto, saggista e ricercatore
Alberto D’Ottavi, docente e blogger
Stefano Esposito, parlamentare
Alberto Fedel, ceo Newton Management Innovation
Mario Fezzi, avvocato
Franco Fileni, docente universitario
Ricky Filosa, direttore Italiachiamaitalia.net
Paolo Gentiloni, parlamentare
Marco Ghezzi, editore
Alessandro Gilioli, giornalista e blogger
Giorgio Gori, imprenditore
Giuseppe Granieri, saggista
Matteo Ulrico Hoepli, editore
Alessio Jacona, giornalista e blogger
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Francesco Loriga, Responsabile provincia WiFi – Provincia di Roma
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Sergio Maistrello, giornalista e blogger
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Carlo Massarini, conduttore radiotelevisivo
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Maria Grazia Mattei, MGM Digital Communication
Giampiero Meani, St Microelectronics
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Antonio Misiani, parlamentare e blogger
Marco Montemagno, imprenditore Web e conduttore Sky
Andrea Nativi, giornalista esperto di questioni militari
Riccardo Neri, produttore cinematografico
Luca Nicotra, Segretario Agorà Digitale
Gloria Origgi, docente CNRS Parigi
Marco Pancini, Google Italia
Lorenza Parisi, ricercatrice universitaria e blogger
Vittorio Pasteris, Giornalista
Piergiorgio Paterlini, scrittore
Matteo Penzo, cofounder Frontiers of Interaction
Gian Paolo Piazza, presidente Sunrise Advertising, responsabile settore informazione Legacoop Piemonte
Marco Pierani, Altroconsumo
Roberto Placido, vicepresidente del consiglio regionale del piemonte e blogger
Marco Revelli, storico e politologo
Stefano Rocco, Wired.it
Stefano Rodotà, giurista
Andrea Romano, direttore Fondazione Italia Futura
Gino Roncaglia, docente universitario
Massimo Russo, direttore di Kataweb
Claudio Sabelli Fioretti, giornalista e blogger
Francesco Sacco, docente universitario
Marcello Saponaro, consigliere regionale e blogger
Ivan Scalfarotto, vicepresidente del Pd e blogger
Sergio Scalpelli, dirigente d’azienda
Tiziano Scarpa, scrittore
Guido Scorza, docente universitario, presidente Istituto politiche dell’innovazione
Antonio Sofi, giornalista e blogger
Luca Sofri, giornalista e blogger
Elena Stancanelli, scrittrice
Tommaso Tessarolo, direttore Current tv
Eva Teruzzi, direttore innovazione Fiera Milano
Irene Tinagli, docente universitaria
Antonio Tombolini, imprenditore
Andrea Toso, newmedia project manager
Antonio Tursi, saggista e docente universitario
Paolo Valdemarin, imprenditore
Gianni Vattimo, docente universitario
Andrea Verde, collaboratore fondazione Farefuturo
Giancarlo Vergori, manager
Michele Vianello, direttore del Parco Scientifico e Tecnologico di Venezia
Luigi Vimercati, parlamentare
Vincenzo Vita, parlamentare
Vittorio Zambardino, giornalista e blogger
Giovanni Zanolin, assessore Pordenone
Marcella Zappaterra, presidente della Provincia di Ferrara
Giovanna Zucconi, giornalista e autrice

Gruppologia sui socialcosi

Chi è il campione dei gruppi? Su, fuori le statistiche. Chi è quel tipo che ha più successo nell’aprire dei gruppi su Facebook o in giro in altri socialcosi?
C’è da fare la tara: il successo può dipendere da una certa abilità come titolista – W la patata dovrebbe funzionare meglio di Umili adoratori dell’Origine del Mondo, ma chi può dirlo; bisogna poi valutare diversamente instant-group nati sulla scia di una notizia di cronaca e destinati a morte rapida, e direi di analizzare anche quelli il cui argomento oltre a far cliccare la gente sul bottonétto “Become a Fan” riesce a generare un certo numero di commenti in calce.
Un gruppo formato da quelli che si fanno tatuare da qualche parte un Gesù Cristo con le tette, per capirci, difficilmente diventerà mainstream: troppo di nicchia. Nemmeno il valore connotativo della cornice ovale è da trascurare, peraltro.

Numeri. A esempio salti fuori il nome di quello che è riuscito a inventarsi almeno tre gruppi da almeno mille persone ciascuno. E anche diecimila, così superiamo i gradi di separazione uno e due e cominciamo a ravanare nei cerchi ampi, lontano da riflessi personali di fama e notorietà.

Potrebbe essere considerata come una forma di intelligenza sociale eh, solo che prima mancava la tecnologia (l’agenda di Marta Marzotto in quanto organizzatrice di salotti e di conversazioni potrebbe essere il riferimento culturale di derivazione) capace di portare potenzialmente ognuno di noi a incidere direttamente sull’opinione pubblica secondo configurazioni discorsive di superficie ben delineate. Dove per opinione pubblica qui intendo “l’insieme statisticamente rilevante dei principali memi diffusi in un momento dato in una data popolazione di riferimento”. Dove la configurazione discorsiva di superficie è proprio la storia di cui tutti parlano oggi, oppure quella depositata nell’enciclopedia personale di una certa collettività, alla voce “credenze e chiacchiere da antibagno” – tipo: le donne al volante sono un pericolo costante.

E quindi dobbiam cercare chi ha saputo o saprà dar vita per primo a molti gruppi capaci ciascuno di cogliere lapidariamente un fatto e insieme un giudizio sul fatto, nonché in grado con una azione perlocutiva di far compiere una azione al destinatario del messaggio, portandolo ad affiliarsi al gruppo in questione.

E già si può intravvedere qualcosa di come ragiona la testa di un pubblicitario del futuro, o comunque di qualcuno che per lavoro deve modificare credenze diffuse o promuovere flussi di pensiero, in ambiti social-propelled.

Nella sintesi lapidaria, l’umanità perde (come dai libri alla tv) articolazione e profondità: l’importante è che la democraticità e l’orizzontalità della Rete faccia nascere, quale contrappeso in grado di mitigare quell’impauperimento, pluralismo vero e polivocalità.

Quindi: facciamo tutti tanti gruppi, ed emerga il migliore (anche i proverbi cambiano).

Leggere i tempi moderni

Svegliatevi, qui le cose stanno cambiando. A esempio i libri, il modo di veicolare contenuti, il supporto, la forma stessa dei contenuti, e tutto il mondo professionale che ai libri ruota intorno, dai distributori di carta agli autori ai librari alle e-dicole alle case editrici.
E temo che per qualche anno ancora gli astutissimi dirigenti di queste case produttrici di reader proveranno a difendere i loro prodotti con contenuti veicolati in formato chiuso e proprietario, poi il primo ragazzino che passa svilupperà un po’ di codice per poter leggere tutto dappertutto, e si arriverà all’interoperabilità. Almeno questa gente imparasse dagli errori del passato, macché.

Qui Tombolini di Simplicissimus racconta della guerra commerciale in atto sugli e-book reader, e ci regala un mucchio di belle idee sul futuro dell’industria culturale. Idee che evidentemente non vengono dal futuro, ma sono già qui ora, ben presenti, nella testa di chi sappia leggere con onestà intellettuale i cambiamenti tecnologici e quindi sociali dei comuni oggetti che arredano la nostra vita.

E al primo che dice “sì, ma vuoi mettere la carta, il profumo dell’inchiostro…”, calci in culo. Anzi no, il modo migliore per combattere il nemico è mettergli in mano un reader con dentro migliaia di libri, dallo schermo meraviglioso per la lettura, connesso magari wifi.
Se quel laudator temporis acti non diventa illico un sostenitore di questo nuovo supporto tecnologico, quella persona potrà leggere quanti libri vuole su carta, ma non capirà mai cos’è la cultura umana e come funziona.

Vogliamo il wifi libero: no alla proroga del decreto Pisanu

Sergio Maistrello propone una riflessione collettiva riguardo quel famoso decreto Pisanu, ne parlavo en passant qui e qui, che in italia in pratica soltanto ostacola pesantemente la connettività dei cittadini negli spazi pubblici o semipubblici cagionando rallentamenti notevoli nella comunicazione tra le persone, proprio oggi che in epoca di cambiamento sociale abbiam più bisogno di far circolare le idee per scoprire come abitare dignitosamente questo Mondo 2.0.

Tornerò sicuramente sull’argomento in un prossimo futuro: si tratta di sostenere pacatamente ma in modo concreto e puntuale (proprio come Maistrello) una posizione di civiltà rispetto alla necessaria diffusione di una Cultura Digitale in italia.

Quest’anno no: lasciate scadere la legge Pisanu

[…] Mentre altrove internet si rafforza come diritto riconosciuto all’interazione con l’altro, un’infrastruttura per il progresso sociale ed economico da favorire e da proteggere, per le classi dirigenti italiane – complici leggi miopi o leggi d’emergenza protratte nel tempo, come la Pisanu – si è trasformato nel luogo comune dell’inutilità, della devianza e del reato diffuso. Non abbiamo sconfitto i nostri fantasmi, in compenso abbiamo perso tempo e opportunità, che oggi costerà molto più caro recuperare. Abbiamo perso anche diritti, lasciando che oggi in determinate circostanze gli estremi delle nostre navigazioni parlino per noi con un’intimità che mal si concilia con la legislazione sulla privacy di un paese civile. Questa legge ha contribuito a trasformare un paese spaventato dai mantra delle sue stesse leadership in un paese più arretrato, più rinchiuso in se stesso, più complicato, più pessimista di quanto il mondo d’oggi consentirebbe. La legge Pisanu non garantisce di fermare la pazzia di un estremista, in compenso sta contribuendo alla strage quotidiana delle aspettative e delle opportunità di una intera nazione.

Alzare la voce

L’eccezionalità delle richieste d’urgenza presentate nel 2005 dal ministro Beppe Pisanu si spiegano in virtù del loro carattere dichiaratamente provvisorio: sarebbero dovute scadere il 31 dicembre 2007. Se non fosse che prima il governo Prodi II (con il milleproroghe del 31 dicembre 2007) e poi il governo Berlusconi IV (col milleproroghe del 18 dicembre 2008) ne hanno garantito fino a oggi la piena efficacia. È inutile recriminare sulle scelte fatte, ma è nostro dovere influire come cittadini su quelle che possono ancora cambiare. La prossima scadenza utile, sulla quale sarebbe opportuno si aprisse questa volta in tempo utile un dibattito sereno e costruttivo, è il 31 dicembre 2009.

Fanno 85 giorni a partire da oggi. 85 giorni in cui chi ha a cuore il futuro della rete in Italia è chiamato a far sentire la propria voce.

Fonte: Apogeonline (leggete tutto l’articolo!)

Al barcamp di Venezia, 23-25 ottobre

Parliamo di Venezia.
Il convegnone su VeneziaDigitale (vedi qui il sito VeneziaCamp, oppure qui per il wiki dell’iniziativa) avrà luogo da venerdì 23 a domenica 25 ottobre, all’Arsenale.
L’isola del Lazzaretto, precedente location, andava già bene, ma considerata la prevista alta affluenza di persone (oltre mille) il trovarsi tutti all’Arsenale andrà ancora meglio, permettendo di recuperare anche la valenza simbolica del Luogo rispetto ai temi del convegno.
Cioè, l’Arsenale è dove i veneziani costruivano le navi, l’hardware su cui far girare quel software chiamato “commercio”, e i veneziani eccellevano nell’uno e nell’altro. E il commercio è una “tecnologia abilitante”, perché oltre alle merci fa viaggiare le idee, la cultura, modifica la visione del mondo, scommette sul futuro.
L’Arsenale è forse la prima “fabbrica” storicamente esistita, in un mondo ancora artigianale (l’energia veniva dal vento, dall’acqua, dalle braccia), che riesce a pensare se stessa in termini protoindustriali: qual posto migliore per incardinare la Cultura Digitale (abitare i mari della Rete) se non un vero tempio della Cultura Tecnologica, da risvolti territoriali così forti da riuscire a connotare di sé l’intero “fare” di Venezia, per secoli, e quindi la sua identità.

Questo convegno rappresenta la prima esplicita presa di coscienza vissuta da Venezia del proprio ruolo futuro, del proprio essere città digitale; qui ragioneremo, ancora brancolando ed esplorando, sui significati dell’abitare connesso, di Cittadinanza Digitale, delle conseguenze per le prossime generazioni del praticare socialità in rete, dell’evolversi dei sentimenti di appartenenza territoriale delle collettività per la prima volta slegate dalla fisicità dei corpi, dei campielli.
Un convegno che come mi dice Andrea Casadei (insieme a Gigi Cogo e Roberto Scano, promotore dell’evento) ormai assomiglia più a un rave dell’innnovazione che a un convegno vero e proprio, il che è abbastanza in sintonia con l’idea di creatività “Woodstock” che emergeva dai primi incontri organizzativi.
Anzi, se ci fossero strumenti musicali nelle stanze di decompressione, mi metterei volentieri alla batteria o al basso durante le blogger-jamsession, mentre su uno schermo vengono proiettati gli spartiti e le parole delle canzoni (da Orietta Berti “Fin che la barca va” ai Red Hot Chili Peppers “Under the bridge”, va bene tutto) in stile karaoke per chi volesse cimentarsi nel canto.

Dentro il convegno, nella giornata di sabato, avrà luogo un barcamp, ovvero una conferenza destrutturata. Detto en passant, visto che durante i barcamp gli spazi “slot” dei relatori vengono decisi il giorno stesso, nella mia testa ormai i barcamp si definiscono come “slot-machine”, e l’alone semantico di “alea” veicolato dal gioco d’azzardo riguarda l’efficacia stessa dello strumento barcamp. Rispetto alla sua capacità di veicolare idee e conoscenza, la formula della de-conferenza può funzionare molto bene oppure molto male. Spesso funziona male perché, tradendo la sua impostazione storica, si tratta in realtà di una conferenza classica (“lezione frontale”, palchetto ergo relazione comunicativa asimmetrica, nessuno risvolto conversazionale) camuffata da barcamp.

Ecco, a Venezia mi sono proposto per due interventi nel barcamp del sabato, oltre a partecipare domenica all’incontro dedicato alla Cittadinanza digitale.

Il primo intervento riguarderà le “Narrazioni mediatiche per una identità territoriale“, il secondo tratterà di “Didattica aumentata: competenze digitali a scuola

Nel primo caso proverò ad esporre rapidamente tutte quelle idee che da un po’ mi girano in testa e che provo a scrivere qui su questo blog, ovvero di come siano necessari strumenti concettuali e operativi nuovi per cogliere il farsi ormai quotidiano delle pratiche di partecipazione e relativa emersione dei sentimenti di appartenenza territoriale (territorio 2.0, però) nei processi autopoietici delle collettività umane. Il raccontare se stessi da parte degli attori sociali, dagli individui ai gruppi informali alle istituzioni, dentro i media moderni edifica complessivamente l’immagine, intenziona la rappresentazione che poi questa collettività (in questo caso, Venezia) offre al mondo, la quale riflessa e negoziata negli scambi conversazionali del web sociale va poi a costituire l’identità con cui quel territorio fisico, umano e simbolico viene percepito dal mondo intero.
In particolare, tenendo in considerazione l’imprevedibilità di questi fenomeni emergenti dalla complessità del calderone conversazionale (immaginate tutti i Luoghi massmediatici e della rete dove si parla di Venezia in tutti i suoi aspetti, siano essi blog personali o geoblog o urban blog o community o i siti delle PA o quelli della Biennale o del Festival del Cinema o di Ca’Foscari o delle imprese commerciali o il tg regionale o i canali youtube dedicati) e la necessità conseguente di provvedere in questo momento storico della nascita del web sociale forse non tanto i contenuti quanto i contenitori dove la socialità possa trovare spazi di scambio e confronto, pubblicazione e visibilità (da qui vengono poi i contenuti, “dal basso” e mashuppati e socialmente negoziati), mi piacerebbe poter scambiare delle idee con i partecipanti all’intervento su come possono essere impostati dei ragionamenti e degli strumenti capaci di cogliere appunto l’identità di una collettività, la qualità unica del suo abitare la Rete allo stesso modo in cui è unico e originale è il dialogo che quella intrattiene con il territorio che storicamente la ospita, e che oggi è anche territorio digitale.
Insomma, io parlerò dieci minuti, poi i restanti venti potrebbero giocarsi come gruppo di brainstorming: l’importante sarà uscire da lì con dei contenitori di idee (approcci, prospettive, fughe immaginifiche, squarci di futuro, scintille di netizenship), semi di progettazione sociale che poi germoglieranno quando troveranno un ambiente favorevole per diventare idee di marketing territoriale, di educazione civica, di abitanza concreta.

L’altro intervento in cui intendo spendermi riguarda il mondo della scuola.
Riguarda la necessità di superare rapidamente delle impostazioni vecchio stampo relative all’introduzione delle nuove tecnologie TIC in classe, per puntare risolutamente verso una Educazione alla Cittadinanza digitale.
Riguarda la necessità di passare dal ragionare di abilità informatiche alle competenze digitali (sul blog dei NuoviAbitanti trovi alcune riflessioni: qui, qui, qui, qui e qui, giusto per aver qualcosa da leggere), perché tra il sapere cosa sono la RAM e il discofisso e ragionare di reputazione online o di fiducia o di identità digitale sui socialnetwork o di diritti di cittadinanza nell’e-democracy vi è una certa differenza, e ogni volta che qui in Rete si parla di didattica sembra quasi obbligatorio dover ripartire da Adamo ed Eva (o Charles Babbage e Ada Byron Lovelace, se volete), senza tenere in considerazione almeno quindici anni di discussioni nazionali (Maragliano, Rotta, Calvani, Rivoltella, to name just a few), sulle tematiche dell’apprendimento mediato dalle nuove tecnologie, e sulle indicazioni di una corretta Media Education.
Mi piacerebbe fossero presenti all’incontro degli insegnanti capaci di tra-guardare lo strumento (lavagna interattiva o e-book, netbook per ogni studente o wifi in classe) per giungere a parlare, sempre in modalità conversazionale allargata e con approccio problem-posing, prima ancora che solving, di come il concreto fare in classe potrebbe essere potenziato da un uso intelligente dei dispositivi elettronici da intendere quali porte per portare la didattica e il gruppo classe ad abitare sul web (e quindi il web dentro la scuola) dentro gli ambienti di apprendimento online già ora disponibili.
Google Earth, perché fare geografia oggi senza mappe satellitari ha poco senso, come pure un blog di classe, dove rendere sociali e condivisi i processi dell’apprendimento.
Un wiki per la scrittura collaborativa e la creazione di nodi di Conoscenza, come un canale youtube di classe per ragionare di grammatica visiva, di learning-by-doing, di capacità critica di decodifica di linguaggi complessi.
Ragionare di Educazione alla Cittadinanza digitale, appunto, come parte di una Educazione civica in grado di rendere i giovanissimi attori protagonisti della società futura, consapevoli dei propri diritti e doveri rispetto all’accesso e alla pubblicazione di informazioni, dei problemi sulla proprietà intellettuale delle opere, dei risvolti della democrazia elettronica, delle battaglie in rete per la libertà di opinione, della tutela della propria identità e reputazione online, della natura intimamente conversazionale dell’ecosistema della Conoscenza, della propria partecipazione al dibattito pubblico mediante i Luoghi istituzionali di consultazione e di decisionalità nell’e-government, nonché di espressione personale sulla gestione della cosapubblica in quelli di e-democracy.
Insomma, vorrei mettere da parte quello che già tutti sappiamo per provare a parlare di quello che continuiamo a dire “è dietro l’angolo, sta per arrivare” e invece è già qui, nel linguaggio e nei comportamenti dei tredicenni, nei loro connessi telefonini/videocamera e nei loro profili sui socialnetwork.

Questo post, linkato dentro il wiki del convegno di VeneziaCamp, va considerato come luogo di propulsione rispetto alle tematiche da affrontare in presenza, all’Arsenale: usate pure i commenti per suggerire o discutere di approcci e contenuti, poi provvederò a distillare il meglio (sì, ci penso io) da portare sui tavoli del barcamp.

Cittadinanzadigitale, il libro

Lo scorso estate* partecipai a un convegno/workshop intensivo in quel di Dobbiaco, vi ricorderete sicuramente, dove per tre giorni provammo a ragionare di Cittadinanza Digitale, di nuove narrazioni, di approcci didattici in grado di tenere in considerazione le novità sociali e culturali del mondo attuale.

Al termine degli incontri la generalessa Luisanna “Fiordiferro” Fiorini, organizzatrice dell’evento per conto dell’Istituto Pedagogico di Bolzano, chiese a noi partecipanti di produrre una relazione scritta di una certa consistenza sugli argomenti trattati, in previsione di una futura pubblicazione cartacea.
Ebbene, dopo un anno quel libro è ora disponibile: si intitola Cittadinanzadigitale, Edizioni Junior, 2009 ISBN 9788884344786. La prefazione è di Antonio Sofi, e oltre ai miei contributi vi sono quelli di Marco Caresia, Isabel De Maurissens, Andreas Robert Formiconi, Maria Maddalena Mapelli, Edoardo Poeta, Mario Rotta.

Qui su Ibridamenti trovate la presentazione del libro da parte di Luisanna.

Dentro c’è un mio ragionamento intitolato Cultura TecnoTerritoriale e Abitanza biodigitale, dove partendo da considerazioni sui risvolti sociali delle TIC, passando per alcune riflessioni sull’allestimento di moderni ambienti di apprendimento e sulla necessità di una moderna Media Education, arrivo a parlare di Territorio, di “borghi digitali”, di democrazia elettronica e di partecipazione delle collettività alla formazione delle identità mediatiche quali originali rappresentazioni emergenti delle peculiarità proprie di ambienti umani oggi indifferentemente corporei o meno. Insomma, se trovo il testo lo pubblico qui.

Insieme a Isabel de Maurissens (qui trovate un suo interessante reportage sul digital storytelling) ho scritto a quattro mani Nomadismo e nuovi abitanti in rete, e anche questo piccolo saggio sui nuovi comportamenti umani nell’Epoca Digitale (spunti da Attali, Levy, Appadurai, Geertz, per ragionare di antropologia e di etnologia dentro l’online) lo trovate nel libro.

_________

Prefazione a Cittadinanzadigitale
di Antonio Sofi

Per molto tempo sono andato alla ricerca della giusta metafora, che riuscisse a rendere una onorevole percentuale delle molteplici sfaccettature del cittadino nell’era digitale e iperconnessa – che prima se ne stava tranquillo (per modo di dire) dietro le sue cattedre, scrivanie, scranni, divani televisivi, ruoli millenari.
Non l’ho ancora trovata, la metafora.
Perché il “cittadino digitale” (mettiamo le virgolette) non è un esploratore avventuroso, come spesso ama immaginarsi. Non è nemmeno un indagatore del soprannaturale alle prese con mondi pericolosi ed esoterici. Né tantomeno un arbiter elegantiarum che decide ciò che bene e ciò che è male – quale nuova moda o nuovo media indossare. Il cittadino digitale non è un vigile, un direttore d’orchestra, un robot multitasking, e così via.
Forse non esiste una metafora giusta, normalizzante e auto-esplicativa. E questo è un buon segno. Perché vuol dire che tutto è complicatissimo e irriducibile a sintesi. Oppure che, forse per estrema conseguenza della stessa complicatezza, non c’è niente di così complicato.
Le tecnologie connettive, in questo caso, stanno diventando come l’aria che respiriamo: il cittadino digitale è connesso perché vive, e viceversa.
Quale che sia la risposta giusta, questa pubblicazione ottimamente curata da Luisanna Fiorini, attraverso interventi preziosi e multidisciplinari di molti esperti, fa l’unica cosa possibile e utile: tracciare strade di pratiche che colleghino esperimenti ad esperimenti, rifl essioni a rifl essioni, idee ad idee.
La semplice presenza di questi collegamenti produce valore aggiunto – porta soluzioni (contenuti, persone) da una parte all’altra. Crea link che come nelle pagine wiki a loro volta creano magicamente nuove pagine: nuovi progetti, nuovi frame cognitivi. Addirittura inaspettate quadrature del cerchio.
Una cosa ho imparato dopo anni di intensa frequentazione della parte abitata della Rete: ciò che condividi ti ritorna indietro, prima o poi – e con un sovrappiù di qualità e ricchezza di solito imprevedibile e originale. L’interazione tra le informazioni e la conoscenza condivisa tra più persone produce di solito soluzioni più sagge di quelle pensabili da una sola persona: è un elogio (del tutto pragmatico) alla condivisione, all’apertura costi quel che costi – contraltare e insieme sottolineatura dell’individualismo rifl essivo che secondo molti è caratteristico della post-modernità.
Questo giochino virtuoso funziona a patto che ci sia diversità di opinioni, indipendenza e capacità di aggregazione di questi punti di vista indipendenti e originali: è l’intelligenza emergente, insieme ricchissima e disordinata, dei sistemi complessi e connessi di cui parla Steven Johnson. Forse ecco la metafora giusta: il cittadino digitale è un dj che remixa sui piatti suoni di diversa provenienza, campionando e fi ltrando quelli migliori, creando la musica giusta per il momento giusto. Mica facile: perché serve anche saper ascoltare. I suoni che servono sono anche nelle pagine che seguono. Buona lettura!

* per me l’estate è maschile, è così. Un estate fa, lo estate, un brutto estate, lo scorso estate. Mi scherzano tutti (parlo come Miss Italia), ma mi suona meglio.

NuoviAbitanti a Venezia

Sapete, in italia c’è il decreto Pisanu. Nei primi anni di questo secolo, come risposta ai terrorismi mondiali, in italia si è pensato bene di impedire la libera navigazione pubblica sulla rete internet, e così gli internet point per farvi controllare la mail mentre siete in giro per lavoro o per svago devono chiedervi la carta d’identità e ottemperare a precise direttive burocratiche e legislative, le biblioteche idem devono tracciare tutto, e insomma qui da noi nessuno può installare una rete wifi e offrire libera connettività, perché deve tenere un registro e registrare gli utenti e conservare i log per tot mesi. Nessuno, né una biblioteca o un bar o voi a casa vostra. Se lasciate il wifi aperto, e magari sotto casa vostra passa Bin Laden che manda un video minacciando di morte Obama oppure più facilmente aggiorna il suo status su Facebook, siete colpevoli anche voi, perché non gli avete chiesto la carta d’identità.
Poi un giorno camminate per strada praticamente ovunque nel mondo, Oslo o Parigi o Buenos Aires, e il vostro cellulare trova decine di reti aperte per navigare su web. Nelle scuole e nelle biblioteche, nei bar e nei cinema la presenza di connettività è ormai quasi data per scontata.
Ma in italia, solo in italia, questo non succede.
Un semplice ragionamento sulla civiltà potrebbe far comprendere l’assurdità di questa posizione governativa, mostrare l’arretratezza culturale di una scelta che ci condanna a ulteriore arretratezza, visto che qui stiamo parlando proprio di impedimenti all’accesso agli strumenti di comunicazione. Scelte oscurantiste, contrarie alla libera circolazione delle idee e delle informazioni.

I progetti italiani di offerta di connettività gratuita alla cittadinanza da parte delle città italiane devono conseguentemente fare i conti con complicate procedure di autenticazione del fruitore, proprio per evitare di essere fuori legge. Ops, ho già detto che è una legge solo italiana, sciocca e miope? Questo fa sì che in italia le città che garantiscono navigazione mobile su web, in modo gratuito per un banale motivo di civiltà moderna, praticamente si contino con le dita delle mani.

Venerdì 3 luglio Venezia inaugura il proprio wifi cittadino.
Le idee e le parole di questo think tank che è NuoviAbitanti vivono anche sul Canal Grande, facendo io personalmente parte di un tavolo di lavoro (ne parlo qui e qui, su Semioblog) dedicato alla progettazione di nuove forme di abitanza digitale e di nuovi modi di narrare l’esperienza sociale del vivere connessi.
Come far emergere la partecipazione dei cittadini, dei turisti, dei lavoratori e delle imprese nei Luoghi digitali? Quale posizione comunicativa è consigliabile assuma la Pubblica Amministrazione veneziana? E-government, e-democracy? Come impostare i contenitori d’umanità, la socialità in rete, per dare visibiltà alla nuova identità cittadina? Quali ragionamenti si possono affrontare per tracciare approcci di urbanistica digitale, riflessioni sugli spazi e sulle dinamiche dell’abitare connessi, valorizzazioni culturali ed economiche?

Attraverso la segnalazione di Sergio Maistrello su Apogeonline, vediamo cosa succederà a Venezia il 3 luglio, e quale cultura digitale sostiene i prossimi imminenti piani d’intervento.

Venezia, laboratorio digitale d’Italia

di Sergio Maistrello

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29Giu2009

Il 3 luglio in laguna si inaugura il WiFi cittadino, prima tranche di un importante progetto di digitalizzazione delle comunicazioni e delle conoscenze. Un esempio di innovazione di sistema che potrebbe far del bene all’intero paese

Venerdì prossimo Venezia illuminerà ufficialmente col WiFi tutto il Canal Grande e molti altri luoghi strategici per la vita cittadina, comprese alcune zone di Mestre e parte del Lido. È lo snodo fondamentale del progetto di innovazione e digitalizzazione da 10 milioni di euro fortemente voluto dal vice di Massimo Cacciari, Michele Vianello. Da febbraio è attiva la piattaforma Venice Connected per i trasporti e i servizi turistici, mentre in questi giorni prende vita il portale Cittadinanza digitale. Il 3 luglio si festeggerà l’inaugurazione della rete wireless con un barcamp itinerante in battello e con una caccia al tesoro digitale che si snoderà per le calli. «Dedicheremo il 3 luglio alla Corte costituzionale francese, che ha bocciato la legislazione Hadopi perché colpisce i diritti universali dell’uomo alla comunicazione e all’espressione. Internet non è un lusso, è un nuovo grande diritto. Chi avrebbe messo in discussione in passato la costruzione di un asilo o di una scuola elementare? Bene, oggi la rete ha lo stesso valore», spiega Vianello, che che assicura di essere solo all’inizio di un importante ciclo di innovazione e di voler «alzare ancora l’asticella, proponendo la sperimentazione concreta di alcune soluzioni al piano Caio del Governo».

La rete come strategia

Partiamo dalla rete: 10.000 chilometri di fibra ottica già posati tra terraferma, laguna e isole. Non servono soltanto a illuminare la città con l’accesso a internet, sono un patrimonio strategico. «L’asset non è il WiFi, è la fibra ottica. In città arrivano soltanto due cavidotti: uno è di Telecom Italia, l’altro è della Città di Venezia. Questo ci rende molto competitivi sul mercato, possiamo dettare le regole del gioco. E la prima regola che imporremo è la garanzia della neutralità della rete», dice Michele Vianello. L’obiettivo prossimo venturo è ambizioso: non meno di 20 Megabit di banda (ma se possibile anche 100) in tutte le case, per «rimaterializzare tutto ciò che è stato smaterializzato, ma a casa di tutti i cittadini». È il benservito al digitale terrestre: con questa banda la tv passa per il cavo e dal romantico panorama lagunare potranno un giorno sparire le antenne. Il modello di business insegue la sinergia pubblico-privato: l’amministrazione comunale mette la rete e l’appetibilità dei suoi progetti di digitalizzazione di sistema, ai privati spetta il compito di cavalcare l’onda e ripartire i profitti. Porte aperte a tutte le idee, ma non potranno mai venir meno la gratuità dell’accesso in rete o nei servizi di social networking.

La rete WiFi copre le zone più vissute della città, di Mestre e del Lido, ma la rete di hotspot è in espansione. La loro disposizione in alcuni casi è stata concordata coi giovani, affinché coincidesse coi luoghi di ritrovo. Tutti i cittadini veneziani possono connettersi di diritto: è sufficiente registrarsi una volta per tutte sul portale civico. Sono assimilate ai cittadini anche le persone che frequentano con regolarità la città per ragioni di lavoro e studio. La rete sarà aperta anche ai turisti, ma in questo caso a pagamento: non è ancora disponibile un’offerta puntuale, ma i costi sono annunciati di gran lunga inferiori alle pretese fuori mercato tipiche di hotel e locali pubblici. Quanto alla certificazione dell’identità, Venezia si pone tra le più aperte città italiane: una volta soddisfatte le prescrizioni della legge Pisanu (tramite autenticazione su Sim mobile o registrazione con carta d’identità), non impone indirizzi di posta elettronica diversi da quello personale e quanto a identificazione del cittadino in alcuni casi – per esempio le petizioni online, che il Comune promuoverà tramite piattaforma dedicata – si accontenterà addirittura del nickname. «L’esperienza ci insegna che è sufficiente, non mi interessa sapere il nome. L’importante è poter interagire con le persone», spiega il vicesindaco.

Migrazione delle conoscenze

Dal punto di vista della macchina amministrativa, l’amministrazione mette sul piatto un progetto triennale di migrazione in rete delle conoscenze comunali. «Non è un problema di tecnologia, quanto semmai di procedure, di modi di lavorare, di cultura dell’innovazione», dice Vianello, che punzecchia anche il ministro Brunetta per i suoi tentativi di rilegificazione del pubblico impiego: «Io non ho bisogno di regole diverse, ho bisogno di meno regole. Devo poter incentivare l’amministrazione sulla base delle necessità del mio territorio. Io oggi mi trovo nella condizione di incentivare i disubbidienti, quelli che a volte fanno di testa loro con l’obiettivo di far funzionare meglio il sistema». La rete farà da leva anche in questo senso: grazie a postazioni di telepresenza nelle principali sedi comunali, verrà favorito da subito il lavoro nomadico dei dirigenti. «Non è necessario spostarsi ogni volta da Mestre a Venezia solo per una riunione, così come è possibile lavorare anche se non ci si trova fisicamente nel proprio ufficio».

Per Venezia questa è un’opportunità vitale. Venuto meno il traino dell’età industriale, la città cerca una dimensione nella società dei servizi che finora non ha ancora reso quanto sperato. Del resto, «una città che produce servizi ma non ha la rete è destinata a girare la testa all’indietro. Ora che abbiamo la rete, vogliamo creare un sistema in grado di attirare idee, talenti e attività. L’innovazione è cambiare la vita minuta di ogni giorno», dice Vianello. Primo tassello del sistema reticolare di Venezia è naturalmente la cultura: «Stiamo chiudendo un accordo di interconnessione tra la rete del Comune e le reti Garr della ricerca. Stiamo dialogando con tutte le istituzioni culturali pubbliche e private della città, a cui proponiamo di allacciarsi alla nostra rete in fibra ottica. A loro sottoporremo un grande progetto di digitalizzazione del patrimonio culturale veneziano, non tanto per la conservazione quanto per la fruizione delle opere. La cultura deve tornare a essere produzione culturale».

Idee e persone

Infine i cittadini. Il progetto di Venezia si gioca molto sulla capacità di spiegare a chi vive in città che cosa può fare per loro internet. La digitalizzazione dei servizi diventerà nel tempo un richiamo importante, ma l’opportunità che si presenta ai veneziani va molto oltre l’accesso da casa all’anagrafe comunale. Si tratta potenzialmente di reinventare la cittadinanza, di ripensare il rapporto tra le persone e il territorio, di annusare le tendenze che stanno mettendo in discussione le istituzioni culturali, economiche e politiche delle nazioni più reattive. In questo Venezia si fa laboratorio d’Italia, chiamando fin d’ora a raccolta idee e persone. Il primo appuntamento è fissato per ottobre, un grande incontro tra Venezia e il mondo della rete per far conoscere ai cittadini e alle aziende locali le esperienze che fanno sognare il mondo digitale.

Digitale terrestre: una tecnologia cretina

Certo, non è il dispositivo in sé a essere cretino. Semplicemente tutto quello che promette nel frattempo è stato superato dalla rete Internet.
Se dieci anni fa si fosse puntato sulla banda larga (davvero “larga”, fibre ottiche e 100Mb di connessione) invece che sul digitale terrestre, oggi non ci troveremmo nella situazione di spendere soldi per un oggetto morto. Perché la televisione e ogni media non potrà che abitare la Rete, come già sta facendo e come sempre più accadrà nell’immediato futuro.
Un messaggio trae senso dal contesto di enunciazione: il contesto è mutato (e si poteva prevedere) e il “messaggio” del digitale terrestre non significa più molto.

Incollo qui un’analisi di Giglioli, via L’Espresso

Dopo aver usato come cavie viventi i sardi e i valdostani, gli alchimisti del digitale terrestre stanno infierendo sui romani e i loro vicini, con il risultato che – ad ascoltare quello che si dice nei bar o negli autobus – viene da pensare che da queste parti il mitico gradimento del Grande Leader sia destinato a scendere parecchio se non si sbrigano a sistemare i ripetitori, altro che Mills e Noemigate.

Ma aldilà dei disagi e delle incazzature – migliaia di nonnette attaccate al numero verde dall’alba al tramonto – agli alchimisti di cui sopra andrebbero forse poste in questi giorni di caos tre domandine facili facili che meriterebbero risposte altrettanto dirette.

1. non è che per caso questo passaggio coattivo al Dtt è costato un po’ troppo ai contribuenti italiani?Voglio dire: se mettiamo insieme quasi un decennio di agevolazioni statali per i decoder, le mostruose campagne informative e pubblicitarie, gli ulteriori contributi per gli over 65 a basso reddito, i pingui stanziamenti delle regioni, i 700 milioni che la Rai prenderà dal nostro canone, i costi dei vari centralini dei numeri verdi, eccetera eccetera, beh c’è qualcuno che ha fatto un calcolo anche approssimativo di quanto abbiamo speso – in piena recessione – per il switch over in corso? (E per curiosità, a quanti italiani – privati e aziende – si sarebbe potuta fornire banda larga Internet a vita con la medesima cifra?).

2. non è che per caso questo digitale terrestre le cui radiose sorti sono magnificate con migliaia di spot e opuscoli è una tecnologia un filo cretina, visto che permette un’interazione minima, un on demand praticamente nullo e se prova a trasportare immagini in Hd occupa così tanto spazio che diversi altri canali Dtt devono essere sospesi? Ora, se siamo tutti d’accordo che la comunicazione (anche audiovisiva) del futuro sarà interattiva, on demand e ad alta definizione, che ce ne facciamo di una tecnologia che fa malissimo (o non fa) tutte e tre ’ste cose? Non è un po’ come costruire un’autostrada in cui non potranno mai viaggiare auto ecologiche ma solo vecchie macchine a benzina?

3. non è che per caso questo passaggio al Dtt è stato un po’ spinto dall’alto per il fatto che il presidente del consiglio è anche il proprietario del broadcaster che più di tutti gli altri ha puntato sul Dtt, visto che la Rai è parecchio più indietro e (soprattutto) il vero concorente (Sky) va sul satellite? E non è che per caso la tassa italiana sull’Iptv (già del 10 per cento, portata al 20 per cento a gennaio) è una grandissima fesseria in termini di innovazione, raddoppiata proprio in coincidenza con il switch over mentre in Francia l’hanno appena dimezzata al 5 per cento? E non è che tutto questo – insieme alla minacciata fuoriuscita della Rai dal pacchetto Sky e alla costituzione della piattaforma Tivusat in cui Rai e Mediaset vanno a braccetto contro il resto del mondo – è un’incarnazione molto visibile del conflitto d’interessi?