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Andiamo avanti

Trent’anni almeno di televisione “selvaggia”, da altrettanto si parla di educazione ai media, intendo proprio da fare a scuola, con approcci centrati sulla consapevolezza della fruizione, sulla grammatica del flusso televisivo, sulla promozione di competenze di lettura critica dei messaggi. Eppure non si è concretamente mai visto nulla di tutto ciò, fatti salvi i soliti quattro gatti di docenti eccentrici.
Forse il Potere non aveva intenzione di fare “alfabetizzazione televisiva”, cosa dite? Chi mai ha parlato di vietare la tv? Magari gli faceva comodo tramite lo strumento indottrinare e persuadere, come esplicitamente sappiamo dagli anni ’50, se non prima (le riflessioni sulle teorie della propaganda mediatica).
Però adesso è giunta l’ora di una alfabetizzazione digitale, sissignori. Sulla cui necessità peraltro io sbraito da vent’anni, professionalmente remunerato per farlo, ve lo dico subito.
Perché qui in Rete ora parlano tutti e l’autorità è saltata e non è cosa, eh, non va bene. Bisogna nor-ma-re.
E siamo qui a discutere di censura, pro o contro, guelfi e ghibellini come sempre, invece di chiederci il solito “cui prodest?”, invece di interrogarci sui motivi (convenienza? populismo? senso civico? sincera preoccupazione?) che portano i pubblici decisori a decretare la necessità di un controllo, di un giro di vite, di una censura preventiva.
Cosa vorrebbero, lor signori, il patentino per accedere al web? Patente A solo per leggere, quella B per commentare, quella C per i carichi pesanti, ovvero ardire addirittura ad avere un sito o un blog e produrre contenuti, pubblicarli senza chiedere permesso a nessuno?
Ho sempre visto la paura – dinanzi a ciò che non si conosce e non si può controllare – irrigidire la mente delle persone e paralizzare le loro azioni, dirigenti scolastici o sindaci o imprenditori, quando si trattava di comprendere e sperimentare minimamente le nuove forme di socialità e di arricchimento culturale che la Rete può offire.
Siamo dentro questo gigantesco mutamento del modo di darsi al mondo della specie umana, nelle relazioni interpersonali e nella comunicazione, ogni giorno vediamo nascere situazioni di cui prima non potevamo nemmeno concepire l’esistenza, mancavano i contenitori e i linguaggi delle nuove forme di realtà.
Se metto in atto dei “piani ministeriali per la formazione all’abitanza digitale”, chi li redige? Persone novecentesche, lente e sconnesse? E il sistema giuridico, pachidermico, come può rapidamente sentenziare su quello che quotidianamente si manifesta nelle società moderne, azioni per cui non esistono nemmeno parole per definirle? E le Pubbliche Amministrazioni, e la Politica, come può compiutamente dirsi “trasparente” senza giocare proprio sulla ambiguità di questa parola (se è trasparente, non si vede: ma io vorrei invece vedere tutto), e furbescamente sancire la propria ragion d’essere nella manipolazione del “sembrare trasparente”, visto che in fin dei conti vuole stabilire cosa possiamo o non possiamo vedere?
Sì, ci aspettano molti anni di “barbarie”, di sgretolamenti dei macro-paradigmi su cui l’intera civiltà umana si è costruita negli ultimi cinquecento anni, di negoziazioni e ripatteggiamenti delle identità individuali ormai prepotentemente connesse alla Rete e grazie alla Rete sviluppatesi e interconnesse agli altri, delle identità – in quanto essere e fare – di enti governativi e soggetti collettivi minate alle fondamenta dai nuovi modi di intendere e vivere la socialità, il desiderio, l’affettività, la maturazione di una visione del mondo, l’immaginario tutto.
E in una dimensione organicista, credo che la mutazione – progettata o casuale, educazione formale o autoapprendimento – e non l’irrigidimento sia la soluzione: dinanzi a nuove condizioni ambientali ovvero socioculturali su scala planetaria andrebbero favorite promosse sollecitate nuove sperimentazioni locali di sistemi sociali (giuridici, legislativi, formativi, nonché sul piano relazionale interpersonale), e queste sperimentazioni dovrebbero essere molte e di tipo diverso, per vedere quali maggiormente si adattano ai nuovi contesti di vita degli umani, per poterne poi trarre insegnamento.
Ci vuole coraggio, e fiducia.
Le nuove generazioni si muoveranno tra le macerie di questo terremoto culturale, eppure stiamo insegnando loro a camminare schivando i pericoli che conosciamo, auspicando sappiano domani distinguere i pericoli che ancora non conosciamo: eppure devono andare, senza proibizioni e senza divieti.

Udine, un convegno sulla Media Education

Si terrà il 15 ottobre presso l’Università di Udine il convegno L’urgenza della Media Education in collaborazione col MED Friuli [Facoltà di Scienze della Formazione, via Margreth 3].
Il programma prevede gli interventi di Maria Bortoluzzi (Università di Udine), Serena Zanolla (Università di Udine), Alberto Parola (Università di Torino), Angela Bonomi Castelli (MED). Nel pomeriggio workshop su Fotografia, Videogame, Dispositivi tecnologici mobili, Informazione, Tecnologie e progetti educativi nel territorio.

Il convegno è aperto a tutti, in particolare a insegnanti, educatori, operatori dei media, studenti, genitori.

Per scaricare il programma: http://www.mediaeducationmed.it/component/docman/doc_download/69-brochure-med-udine.html

Fonte: Altrascuola

I media non sono più intelligenti delle persone che li abitano

Ieri ho partecipato telefonicamente a una trasmissione di Radio1 che riguardava i social network.
Mi ha chiamato una tipa il giorno prima, mi ha chiesto cosa facevo, mi ha chiesto qualcosa sui soliti argomenti.
La trasmissione era una pagliacciata. Il filo del discorso era già stabilito, era un discorso “a tesi” dal profilo basso, molto basso. Ragionamenti obsoleti, disinformazione, scandalismo spicciolo.
Solite sciocchezze: rischi e pericoli della Rete, la diffamazione online, i giovani che signora mia passano le ore davanti al computer e poi vivono del delirio. Sarebbe stata imbarazzante nel 2002.
Anzi, nel 2000/2001/2002 ho organizzato convegni che erano già in grado di porre concretamente il problema educativo rispetto ai minori e alla loro frequentazioni web, senza fermarsi alle chiacchiere da mercato e agli aspetti eclatanti.
Prima di me hanno intervistato Sergio Maistrello e Enrico Maria Milic, e su loro metterei la mano sul fuoco: siamo tutta gente che abita qui dentro da almeno una dozzina d’anni, e che professionalmente prova a riflettere su queste cosucce da molto tempo… sarebbe sufficiente leggere quello che abbiamo scritto in giro, con rapida ricerca. 
Non ho sentito tutta la trasmissione. Io ho provato a demolire l’uso continuato della parola “virtuale”, connotandola come obsoleta e inadeguata, nonché a accennare qualcosa di educazione alla cittadinanza digitale. Prima di me parlava un avvocato che sottolineava gli aspetti legati alla diffamazione online, dopo una domanda dai toni preoccupati. Dopo di me sono stati chiesti dei pareri a un medico, che si è subito prodigato  nel renderci edotti delle “patologie di Internet”, gli stati di allucinazione (sic) in cui cade chi sta troppe ore davanti al computer e poi a cena coi genitori non è ben sintonizzato col mondo, e addirittura udite udite si è dilungato nello spiegarci che online, signora mia, può capitare che qualcuno assuma una finta identità, e poi sotto quelle mentite spoglie vada sui socialnetwork a tacchinare il proprio partner, per vedere come quest’ultimo reagisce. 
Robe da matti, eh, questa strana internet.
Magari Simona Regina, che conduceva il programma qui su RadioRai da Trieste, potrebbe contattare me o Sergio o Enrico, la prossima volta: una bella consulenza non si nega a nessuno, e si potrebbe cercare di imbastire una trasmissione radiofonica che perlomeno abiti nel 2010, e sappia centrare le tematiche di cui oggi val la pena trattare (e magari non utilizzi gli ospiti come puntello per il proprio discorso, dal filo già stabilito).
Simona, se ti fai domande vecchie non capirai mai cosa fanno diciassette milioni di italiani su facebook, credimi. 

Zambardino: la narrazione del cambiamento

Lo scorso 15 febbraio si è tenuto a Milano un incontro pubblico con Vittorio Zambardino, Massimo Russo e Marco Pratellesi, nell’ambito di Meet the Media Guru.
I temi affrontati – la crisi del giornalismo tradizionale, i molti pericoli che corre il web, il contrasto tra apologeti della rete e neo-luddisti – hanno contribuito a fare emergere alcune delle aree grigie disseminate all’interno della rete e a evidenziare i dogmi e gli stereotipi per combattere i quali Zambardino e Russo pensano siano necessarie le nuove eresie raccontate nel progetto Eretici Digitali: un manifesto, un blog e un libro edito da Apogeo. (da MeettheMediaGuru)
Era possibile inviare delle brevi domande da porre ai relatori, in formato video, cosa che ho prontamente fatto. Non penserete mica che un cellulare serva solo per telefonare, oggidì.
Comprensibilmente, per chi legge questo blog, il focus del mio intervento riguardava la narrazione del cambiamento, quindi le possibili strategie comunicative (le retoriche, le argomentazioni, lo stile) da adottare per veicolare una promozione della Cultura digitale nella società italiana, al di là di quelle solite banalizzazioni e dei soliti toni scandalistici o terroristici utilizzati nel passato e ancor oggi dai media tradizionali che di fatto impediscono la diffusione nell’opinione pubblica di una serena presa di coscienza rispetto alle potenzialità offerte da questa nostra Era digitale.
E Vittorio Zambardino mi ha anche rapidamente risposto, qui trovate i video, proprio sottolineando come questo sia il momento di tener duro, per evitare che vecchie logiche di potere, vecchie narrazioni molto interessate tentino di mettere un loro sigillo, soffocante e normativo e paralizzante, al rapido fluire delle nuove forme di Cittadinanza digitale.
Dopo aver visto i video, date con calma un’occhiata a Eretici digitali: credo veramente si tratti di uno dei luoghi eccellenti italiani nell’elaborazione di una consapevolezza riguardo alla Transizione digitale.

Buzz, privacy, ecologia relazionale

Oggi ne parla anche DeBiase: “La dimensione pubblica è il grande territorio nel quale emergono i materiali di idee e informazioni con i quali si formano le decisioni collettive ed è bellissimo che si allarghi – con i media sociali – al contributo attivo di molte più persone. Ma quelle persone devono poter scegliere che cosa delle loro idee e personalità è pubblico e che cosa è privato. E questo avviene soltanto grazie alla loro consapevolezza.”

Questo perché Buzz ha osato molto. Rende visibili le cerchie sociali basandosi sui contatti frequenti della Gmail, dimodoché tutti possono a partire dal mio profilo venire a conoscenza di chi frequento, e la gente ti giudica a seconda di chi frequenti. Metti che scambi mail con uno zoppo, molti penseranno che il tuo vero nome sia Claudio.

Ma il pensiero della privacy non mi preoccupa, di certo già ora non può più essere normato dall’alto stabilendo la legittimità di utilizzare immagine pubbliche di cose e persone, proprio perché il concetto di pubblico (una piazza, un social network) è radicalmente cambiato. Giustamente, serve consapevolezza. So di essere in pubblico, e agisco di conseguenza: il mio fare e il mio dire sono pubblici, se compiuti in pubblico, e non mi appartengono più.

Quindi Buzz rendendo percepibili le reti relazionali, innazitutto a me stesso, le ha fatte emergere dal calderone ambiguo su cui pensavo di avere magari un certo controllo, e ci obbliga lateralmente a diventare consapevoli. Induce segmentazione nell’indifferenziato. A me spetta decidere quanto voglio far trapelare di me in pubblico. Buzz ci costringe a esplicitare a noi stessi le nicchie ecologiche mentali e operative dentro cui posizioniamo i contatti amicali o professionali, quindi sta svolgendo una funzione educativa, poco da fare, come già Facebook e relativi scandaletti di pubblicazione di materiale inopportuno ci insegnano, e tutti ci siamo affrettati a comprendere le opzioni di privacy permesse dall’ambiente social specifico, dove i progettisti del software lasciano tutto aperto (in fondo, son luoghi pubblici, no?) e a noi spetta decidere quanto chiudere.
Per una volta, un’Etica della responsabilità di stampo nordico, che significa avere consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni, piuttosto che un’Etica mammona molto latina, dove tutto è strettamente regolato e agli utenti visti come adolescenti ribelli non resta che infrangere limiti per divenir soggetti adulti.
Qui non c’entra il senso di Colpa, roba da confessionale cattolico, privato, qui siamo in ambienti sociali, qui quello che funziona è la Vergogna, da espiare in pubblico.

Identità digitale, socialità in rete, progettazione di ambienti

L’aula scolastica è l’ambiente dove ha luogo la situazione sociale di apprendimento, e non è un luogo neutro. L’arredamento, la disponibilità di supporti alla didattica, perfino il colore diverso della tinteggiatura delle pareti potrebbe modificare nei partecipanti la percezione dei flussi comunicativi gruppali tramite cui avviene apprendimento. Facebook non è uno strumento, è un ambiente. Non è certamente neutro, non è trasparente, e non è il più indicato per attività didattiche. Non è nemmeno un luogo democratico. Quale messaggio di educazione alla cittadinanza digitale ‘passerebbe’ agli allievi? Dov’è la capacità critica degli insegnanti, nel valutare innanzitutto gli stessi (oggetti, parole, libri, strumenti, situazioni, ambienti) supporti alla conoscenza?

Ok, dopo aver reiterato i miei dubbi per le attività didattiche che certi insegnanti (persone che sono arrivate in Rete ieri, evidentemente, e si comportano come bambini in un negozio di giocattoli) svolgono dentro Facebook, procedo con una di quelle liste di segnalazioni che talvolta metto giù per prendermi degli appunti.

Avete presente quando si dice che il web è un posto caldo, fatto di relazioni? Ne parlava il buon Livraghi anni e anni fa. Beh, siccome il web moderno è definito social web, ecco che un tot di sociologi e antropologi e social designer e media strategist e narratologi specializzati nelle dinamiche affettive delle conversazioni e delle strategie identitarie dei gruppi (ehm) stanno provando a individuare le peculiarità delle nuove forme di socialità su web.
Ad esempio, visto che il passaparola è fondamentale per l’evoluzione della specie umana, quando mi serve qualcosa a chi posso chiedere? Ecco uno schemino per una esplicitazione delle competenze digitali secondo una sorta di prossemica sociale.

L’altro giorno dovevo augurare buon compleanno a un tipo. La domanda era: dove? Si tratta di una mia conoscenza di tipo professionale, ma abbiamo condiviso anche momenti informali con buon feeling interpersonale. Telefonargli a casa, telefonargli al cellulare, sms, facebook, altri social network, strumenti di lifestreaming tipo Friendfeed, mail? In occasione dei rituali più strutturati, la competenza sulla scelta del mezzo e sul tono da tenere risulta decisiva, perché in quei casi la situazione comunicativa dice ben più del messaggio stesso. Non è importante cosa si dice agli sposi o a un funerale, le frasi sono sempre quelle, assai più importante è compredere la grammatica dei tempi e dei modi, per evitare gaffe. Codici, sissignori. Possedere i codici interpretativi della circostanza e delle aspettative altrui, secondo cultura di appartenenza.
Nel caso di ambienti online, queste diventano appunto competenze digitali, che non c’entrano nulla con l’alfabetizzazione informatica, tanto quanto – vecchio parallelo – saper come funziona un motore quattrotempi o come si cambiano le marce (cultura tecnologica, consapevolezza dell’interfaccia) in un’automobile ha poco a che fare con il sapersi comportare in autostrada.
Nel mio caso personale, dovendo anche per lavoro portare in superficie queste grammatiche di socialità digitale inespresse che molti di noi dopo molti anni in rete possiedono senza saperlo, sono riuscito ad appoggiarmi a dei ragionamenti per stabilire quale fosse il giusto media da utilizzare.
Per rifarmi al caso degli insegnanti sopraespresso, non sono sicuro della loro capacità di far chiarezza in se stessi rispetto all’adeguatezza degli ambienti di socialnetworking, soprattutto in relazione alla specificità della didattica e dell’organizzazione scolastica.

Piercesare Rivoltella offre sempre riflessioni interessanti: qui su Medialog ragiona su autonomia e narrazione, in occasione di un seminario dedicato a “Media, storia, cittadinanza”. In particolare, Rivoltella organizza il suo pensiero sulle forme della socialità digitale intorno a tre coppie di termini: sfera pubblica / sfera privata, apprendimento insegnato / apprendimento non insegnato, autonomia / eteronomia.
Sempre su Medialog, in aprile, un bel post provava a “riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l’uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l’economia dell’attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti”. Interrogandosi sul rapporto esistente nuovi media, educazione e cittadinanza, Rivoltella descrive tre cornici: il frame alfabetico; il frame critico; il frame autoriale. Tre approcci differenti (ma da intendersi forse come sfaccettature della stessa realtà) da tenere in considerazione per una scuola che intenda far ragionare le nuove generazioni sulla partecipazione alle forme di cittadinanza digitale, che va da sé non può essere disgiunta da una seria Media Education.

Ragionando di identità personale, ecco un articolo di Luciano Floridi da “Philosophy of information”

“Who are you online?” is a question with enormous practical implications, and yet, crucially, individuals as well as groups seem to lack a clear, conceptual understanding of who they are in the infosphere and what it means to be an ethically responsible informational agent online.

Qui trovate invece qualcosa per ragionare di integrazione tra network di sensori e network sociali, per meglio provvedere informazioni di contesto. Stiamo già parlando di socialità dentro la Internet delle cose (vedi anche qui e qui per argomenti attinenti).

La Microsoft ci racconta dell’utilizzo di tecnologia per i mercati emergenti: “The research in this group consists of both technical and social-science research. We do work in the areas of ethnography, sociology, political science, and economics, all of which help understand the social context of technology, and we also do technical research in hardware and software to devise solutions that are designed for emerging and underserved markets, both in rural and urban environments.”
Ad esempio, coinvolgere agricoltori in progetti di educazione informale alle tecniche di coltivazione mediante l’utilizzo di video digitale; usare interfacce utente di tipo non testuale, per popolazioni non alfabetizzate, elaborando con supporto di studi etnografici alcuni principi per il design; studiare pc multi-utente; creare reti sociali tra microimprese; avviare interventi di miglioramento in campo sanitario, supportati da utilizzi avanzati di tecnologia a basso costo.

Molte delle riflessioni riguardano la centralità di una progettazione (delle reti informatiche, delle interfacce, dei luoghi di comunicazione pubblica per imprese o pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni lavorative, delle architetture di informazioni) che sia in grado di porre l’utente al centro dell’approccio speculativo. Anzi, qui non si tratta più di progettare l’interazione con l’utente, ma proprio di ragionare sulla progettazione dell’esperienza dell’utente, quella che in gergo viene detta UX, ovvero User Experience, l’nsieme dato dalle componenti cognitive e patemiche nella “convergenza tra design digitale e industrial design, tra hardware e software, tra applicazioni e servizi, che a volte sfocia perfino nella progettazione degli spazi (interni ed esterni) in cui l’esperienza avviene. In questo caso la sfida più grossa è quella della multicanalità e della multidimensionalità dell’esperienza, e di quelle che Joel Grossman chiama “esperienze ponte”. Tutto questo lo trovate su questa pagina di UXmagazine.

Cosa vuol dire progettare l’esperienza utente? Ci sono tante risposte. Storicamente è un’attività strettamente connessa allo User Centered Design, da cui ha tratto filosofia di base, metodi e strumenti. Qualcuno la definisce mettendo insieme le competenze o gli ambiti disciplinari che concorrono al progetto (Steve Psomas), oppure elencando cosa non è. Qualche anno fa Peter Morville propose un modello con sette facce che descrivono le qualità dell’esperienza utente . Più recentemente Nathan Shredroff ha proposto un modello simile basato su sei dimensioni.

In realtà, in tempo di socialnetwork, qualcuno sta giustamente pensando di passare da un “user-centered experience design” a un “group-centered experience design”, proprio perché appare sempre più chiaro (per via dell’emergere alla visibilità di questi processi finora immersi nella complessità, grazie ai socialcosi) che le linee dei comportamenti sociali digitali – il marketing virale, la diffusione dei memi, i meccanismi del passaparola, la status-sfera, la folksonomia degli oggetti culturali di qualità, le reti relazionali umane – dipendono dalle dinamiche dei gruppi online, dalla loro capacità di essere organizzatori di senso, o banalmente trend-setter, in grado poi di connotare con la loro sanzione esplicita, positiva o negativa, una configurazione riconoscibile delle conversazioni online con una veste di “accettabilità” o di “novità” o di “sei out se non sai/fai questo o quello”. Per dire, il meccanismo in Facebook è riconoscibilissimo, nella circolazione delle appartenenze ai gruppi e nei dispositivi di condivisione delle informazioni, anche se viene persa la significatività specifica a causa del calderone in cui tutto viene riversato, della cornice onnivora che vampirizza il senso delle singole discussioni, livellandole verso il basso (il famoso cazzeggio).

Qui su Ibridazioni (ne parla anche con buoni esempi Alberto Mucignat) c’è una proposta di riflessione (un bel documento da scaricare) sulla progettazione basata sull’esperienza gruppale, a partire da un design di tipo motivazionale, fondato quindi sugli utenti e non sulle piattaforme, ad esempio per avviare ambienti sociali per le organizzazioni lavorative:

La nostra proposta metodologica si fonda su quattro concetti chiave:
1. Bisogni Funzionali: gli obiettivi di progettazione rivisti in chiave di necessità.
2. Usabilità Sociale: l’usabilità rivista in dinamica sociale (partendo dalla definizione di Nielsen).
3. Motivazioni Relazionali: il concetto di motivazione rivisto in chiave relazionale (one-to-one e sociale).
4. Flusso di Attività Circadiano: ovvero le attività abituali delle persone durante la giornata.

Fra queste, le componenti caratterizzanti sono, come intuibile, Usabilità Sociale e ancora più Motivazioni Relazionali. La prima definisce quattro proprietà RICE: Relazioni interpersonali, Identità, Comunicazione ed Emergenza dei gruppi, mentre la seconda quattro motivazioni CECA: Competizione, Eccellenza, Curiosità, Appartenenza.

Il Design Motivazionale si applica sia ai Sistemi a Social Newtwork presenti nel Web che alle Intranet e Community Aziendali che vogliono sfruttare le nuove prassi collaborative che si sono evolute nel Web 2.0 (l’ormai nota Enterprise 2.0).

I ragionamenti sulla condivisione della conoscenza nelle organizzazioni aziendali (Enterprise 2.0) sono certo fondamentali, ne parla anche RobinGood qui, dove la Torre (gerarchia e verticalità) incontra la Nuvola del bottom up e delle relazioni orizzontali.

Putting People First riporta l’attenzione sul service design, grazie alla segnalazione di un articolo scientifico di Daniela Sangiorgi, dove si prova a ristabilire una prospettiva basata sulla considerazione dell’interfaccia (da intendere come l’intera situazione dove l’esperienza ha luogo), rispetto ai “prodotti” di un’attività di design, nella definizione di servizi, dove soggetti azioni norme ruoli e artefatti vanno tutti considerati senza troppo spezzettare lo sguardo, per una comprensione più ampia dei fenomeni, e soprattutto in ottica groupware.

Alla base di molti approcci scientifici recenti allo studio delle socialità in Rete e della human-computer interaction (qui il link per il blog di Luca Chittaro – direttore dell’HCI Lab dell’Università di Udine – su Nova100 ilSole24ore, vi è indubbiamente quella che viene definita “Activity theory” (vedi Wikipedia)

Activity theory is a psychological meta-theory, paradigm, or framework, with its roots in the Soviet psychologist Vygotsky’s cultural-historical psychology. Its founders were Alexei N. Leont’ev (1903-1979), and Sergei Rubinshtein (1889-1960) who sought to understand human activities as complex, socially situated phenomena and go beyond paradigms of psychoanalysis and behaviorism. It became one of the major psychological approaches in the former USSR, being widely used in both theoretical and applied psychology, in areas such as education, training, ergonomics, and work psychology [1]. Activity theory theorizes that when individuals engage and interact with their environment, production of tools results. These tools are “exteriorized” forms of mental processes, and as these mental processes are manifested in tools, they become more readily accessible and communicable to other people, thereafter becoming useful for social interaction.

Ora metto un paio di fotografie. Si tratta di anziani in casa di riposo che usano la Wii Nintendo.
Ne trovate altre qui: occhio che è un sito che contiene anche robe pornelle :)

SchoolbookCamp, e-book a scuola

Il 22 e il 23 maggio si è svolto a Fosdinovo (MS) un convegno barcamp dedicato al libro di testo scolastico nel suo formato elettronico, ovvero come e-book che da circolare ministeriale di quest’anno è previsto a breve entri stabilmente nella pratica scolastica quotidiana.

Dello SchoolbookCamp ho già parlato diffusamente qui e qui.

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L’altra settimana al convegno di Fosdinovo, usando il cellulare come videocamera, ho fatto delle rapide interviste ad alcuni partecipanti ponendo tre domande tre.

Si trattava di indagare quali cambiamenti tecnologici e socioculturali abbiano reso significativa la proposizione di un evento barcamp dedicato all’e-book e all’editoria scolastica, quali posizioni fossero emerse dagli incontri, quali indicazioni il convegno stesso poteva dare per suggerire le azioni da intraprendere nel futuro, per un utilizzo adeguato dei testi digitali su supporto elettronico negli àmbiti della scuola e della formazione alla persona, per una riflessione tematiche inerenti i modelli economici dell’editoria elettronica, l’introduzione dell’e-book a scuola, le comunità professionali online.

Ho posto queste domande a Noa Carpignano della BBN Edizioni, ad Agostino Quadrino della Garamond, a Mario Guaraldi per la omonima casa editrice, a Marco Guastavigna insegnante e autore di testi sull’apprendimento, a Gianni Marconato quale operatore nel settore della formazione; ne esce certamente un quadro interessante e variopinto.

Il video è lunghetto, 25minuti, però ha un andamento abbastanza rapido.

SchoolbookCamp a Fosdinovo. Videointerviste from Giorgio Jannis on Vimeo.

Brunetta, il JumPC e la scuola in rete

Ieri sera ero già sulla poltrona, mi stavo gustando la prima mezz’ora di Indipendence Day, da lì in poi è tutto tramaticamente scontatissimo e infatti siamo dentro una parodia americanona, ma mi preme sottolineare che io vivo fondamentalmente per veder arrivare gli alieni, ché veder spuntare quelle astronavi grandi come province tra le nuvole mi scancella la mente di ogni punto di riferimento come lo scancellino scancella la lavagna, e a quel punto facciano pure quel che vogliono, compreso spazzar via la Terra perché di qua deve passare un’autostrada galattica da lungo tempo progettata (cit.).

Ma il cellulare fringa, perché se sono sulla poltrona non posso mica alzarmi e fare tre metri per andare alla scrivania, e in chat mi arriva da due diversi contatti la segnalazione di una dichiarazione del Ministro Brunetta (quello zippato) relativa alla prossima futura distribuzione di netbook personali a tutta la popolazione scolastica, e la cosa va da sé mi incuriosice alquanto.

Io non penso che quegli esseri abbiano fatto migliaia e migliaia di anni luce solo per venire qui e iniziare una guerra… Non sono mica degli attacca brighe! (citazione dal film di cui sopra, fonte wikipedia, non sto parlando del governo, neh)

Ci penso su, mi faccio una mappa mentale – in senso letterale, dentro la mia testa – delle solite inventio, dispositio, elocutio (la prima talvolta offre nuovi spunti, le altre due seguono il solito metodo del “come viene, viene”), mi soffermo sulle possibili conclusioni da trarre, e ovviamente trattandosi di argomento già da me più volte affrontato nelle discussioni che trovate in giro riguardo le tecnologie didattiche e l’apprendimento e il senso del fare scuola oggi, decido che posso lasciar perdere e ricado mollemente sulla poltrona a valutare l’efficacia patemica dei doppiatori italiani.

Ma la pulce alligna (?), gli ingranaggi girano, continuo a visualizzare mentalmente scàmpoli di frasi da accostare come pezzi di domino. Alle 23.32 vado al computer e comincio a scrivere, alle 2.00 spedisco a Maistrello, oggi trovate l’articolo su Apogeonline.

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Brunetta, il JumPC e la scuola in rete

Dopo la positiva sperimentazione in Lazio, Piemonte e Sicilia, i ministri dell’innovazione e dell’istruzione intendono estendere la sperimentazione del computer in classe a «centinaia di migliaia di bambini», dalle elementari alle superiori.

Ecco una notizia che dovrebbe rallegrare chi, genitore o professionista della formazione, ha a cuore la modernità dell’insegnamento e la promozione di tecnologie educative aggiornate in àmbito scolastico. Mi riferisco alle dichiarazioni del ministro Renato Brunetta sulla futura diffusione di netbook ai giovanissimi studenti delle scuole primarie, dichiarazioni espresse in occasione della conferenza stampa tenutasi a Roma presso il circolo didattico Walt Disney per illustrare gli esiti di una sperimentazione condotta in questi mesi dalla Fondazione Mondo Digitale (presieduta da Tullio De Mauro), insieme a Intel e Olidata, in diverse regioni italiane, riguardante la distribuzione gratuita a circa 150 bambini e a 15 docenti di un computer personale denominato JumPC.

Si tratta in ogni caso di prendere atto dei risultati concreti di un cambiamento strategico peraltro lungamente atteso da chi si occupa del “fare scuola” odierno, in linea con l’espressa volontà ministeriale di svecchiare la Scuola italiana grazie a dotazioni tecnologiche quali la presenza di connettività veloce e di lavagne interattive multimediali.

Le domande certo sarebbero molte, a partire dalle implicazioni “etiche” del progetto nella scelta dei partner commerciali, alla preferenza per software proprietario, fino alle modalità di funzionamento dei filtri alla navigazione installati da Olidata sul JumPC mediante l’applicativo Magic Desktop, ma le informazioni sono ancora troppo lapidarie per poter comprendere i piani di utilizzo e i risvolti sociali dell’introduzione dei pc in classe, ovvero le modificazioni effettive della pratica d’insegnamento nel contesto di attuazione del progetto. Perché un insegnante che vede dinanzi a sé quindici o venti “coperchi” alzati a nascondere il viso degli studenti, che convive cinque ore con il ronzìo soffuso ma penetrante delle ventole, che abita con gli allievi dentro reti relazionali sostenute da collegamenti wifi e ha sotto la freccina del mouse tutto lo scibile umano non può continuare a concepire i processi dell’apprendimento come prima che tutto questo accadesse, come se nulla fosse successo.

Mi rallegro dell’introduzione capillare del pc a scuola, perché modificherà l’ambiente cognitivo ed emozionale dentro cui avviene oggi l’apprendimento formale; forzerà positivamente la mano a quelli che lodano i bei tempi andati perché non capiscono la Società della Conoscenza attuale, costringendoli almeno a mantenere una dignità nel loro sproloquiare; riuscirà col tempo a promuovere pratiche significative di utilizzo didattico adeguate alle nuove potenzialità offerte dallo strumento tecnologico, magari evitando che venti computer vengano contemporaneamente accesi dentro la stessa stanza per fare il dettato su un programma di videoscrittura – altrimenti la dotazione di pannelli fotovoltaici sul tetto delle scuole diventa oltremodo impellente, moltiplicando anche solo poche decine di watt per il milione di netbook che i ministri Brunetta e Gelmini intendono introdurre nelle scuole.

Ma esperienza e pragmaticità già mi dicono che inesorabilmente i primi anni di questa Scuola 2.0 saranno connotati da utilizzi bassamente strumentali delle ex-nuove tecnologie – come già abbiamo visto, tranne poche coraggiose iniziative, accadere ieri con la famigerata aula multimediale e oggi con le lavagne interattive, utilizzate appunto quali mere succedanee dell’ardesia senza prendere in considerazione le innovazioni didattiche che questi ritrovati tecnologici potrebbero apportare all’insegnamento in quanto supporti interattivi e connessi, in grado di lasciar emergere quelle dimensioni gruppali di condivisione di informazioni e scambio dialogico importantissime in una concezione sociale e socializzata dell’apprendimento.

Non si tratta qui di fare facili previsioni su un iniziale “fallimento” dei pc in classe, anzi sono consapevole del fatto che storicamente sia necessaria in ogni piccola o grande rivoluzione di certe pratiche sociali – per giunta in grado di coinvolgere le istituzioni stesse, come in questo caso – una certa “rottura” rispetto a pensieri linguaggi e prassi sedimentati nella mente dei docenti e nella struttura stessa dell’organizzazione scolastica ormai non più adeguati alla modernità. Proprio questa potrebbe essere la strada per innescare fattivamente cambiamenti nel fare scuola.

Si tratta di qualcosa che doveva succedere, e che stavamo aspettando. Qui in Occidente molti di noi utilizzano i computer per lavoro, per produrre quel bene economico intangibile che è informazione e distribuzione delle conoscenze, mentre i ragazzini a scuola, knowledge worker per eccellenza, sono ancora lì a ricopiare il problema di matematica dalla lavagna sul quaderno.

Molti insegnanti rimarranno favorevolmente sorpresi dai concreti risultati scolastici che otterranno dalle pratiche didattiche “aumentate”, rese più potenti dai pc personali e dalla spinta motivazionale e dal “peer-to-peer” delle conoscenze nel gruppo-classe.
Questo non si può certo chiamare fallimento, né dal loro punto di vista (seppur ancora legato alla percezione di risultati valutati secondo ottiche da mondo analogico) né dal mio, che in questo rito di passaggio epocale noto comunque una opportunità per una educazione informale della classe insegnante nazionale, che si troverà di qui a qualche anno a riconoscersi cambiata senza accorgersene, e in molti casi senza neppure volerlo.

In ogni caso punto fermo e finalità del fare scuola deve essere l’apprendimento, e sulla scorta di questa considerazione è bene non confondere l’hardware della Scuola con il relativo software, la disponibiltà fisica dei computer e di altre nuove tecnologie in classe con l’automatico miglioramento della qualità dell’offerta formativa, misurata nella sua capacità di promuovere competenze personali (non solo abilità) e di suscitare nei giovanissimi consapevolezza e senso critico rispetto al proprio essere futuri cittadini connessi e interconnessi (su Il blog nella didattica potete trovare tracce di alcune recentissime discussioni su questi argomenti riguardanti le tecnologie didattiche in classe, tra lavagne Lim e stili di apprendimento dei nativi digitali).

Per questo confido e auspico che qualche milione di euro venga nell’immediato futuro destinato alla promozione ministeriale di corsi intelligenti di aggiornamento per gli insegnanti e per i dirigenti scolastici: usando la metafora dell’automobile, ora che le macchine quattoruote vengono distribuite a tutti sarebbe il caso di provvedere una seria educazione al comportamento su strada, magari concentrandosi un po’ meno sulla tecnica del carburatore e della frizione e un po’ di più sul rispetto della segnaletica (guidare l’auto è azione sociale) e sulla scelta qualitativa degli itinerari da percorrere.

La pensabilità delle nuove potenzialità didattiche offerte dalle tecnologie prima di diventare prassi quotidiana strutturata è qualcosa che vive dentro la testa degli insegnanti, e nuovi criteri per la progettazione e la valutazione della formazione possono e devono essere sapientemente comunicati dentro i programmi di aggiornamento professionale per i docenti, dove poter finalmente affrontare le tematiche dell’acquisizione di competenze di abitanza digitale specifiche. Competenze non limitate a infarinature sull’utilizzo di applicativi tipo ufficio, non affogate dentro denominazioni tecniche che con l’informatica come scienza nulla hanno a che fare, ma schiettamente orientate a fornire degli orizzonti di operatività concreta, da subito sociale e glocale come può essere a esempio una mappa satellitare da noi stessi arricchita con segnalazioni multimediali originali, rispetto alle suggestioni di questa tutta nostra Cultura Digitale in cui viviamo, a cui noi stessi abbiamo faticosamente contribuito abitando in Rete senza declinare responsabilità, consapevoli della tecnosocialità quale ambiente di crescita e di vita delle nuove generazioni.

Diritto di privacy nell’Era digitale – Viviane Reding

Riscrivo sinteticamente uff questo post, dopo aver per la prima volta qui su Blogger perso la prima stesura nonostante presunto salvataggio in bozza.

Europeans must have the right to control how their personal information is used. European privacy rules are crystal clear: your information can only be used with your prior consent.

Lo spunto è dato dalla comunicazione settimanale della Signora Reding, a questo indirizzo presso la Commissione Europea “Information Society and Media” trovate il video e anche il pdf con il testo. L’argomento è costituito dall’esercizio individuale del diritto di privacy rispetto ai nuovi rilevanti fenomeni tecnosociali, con particolare riferimento ai social network, al behavioural advertisement (profilatura avanzata dei navigatori grazie alla informazioni raccolte dai loro comportamenti online, a fini commerciali) e agli àrfidi RFID, le etichette connesse da aggiungere a ogni prodotto per realizzare la cosiddetta “Internet delle cose”.

Viviane Reding nel suo discorso tiene centrale il valore per il soggetto di poter sempre controllare l’utilizzo che altri fanno delle sue informazioni personali online.

La Commissione Europea ha già invitato i responsabili delle piattaforme sociali a provvedere degli strumenti di tutela per i profili dei minori, mediante quindi auto-regolamentazione, e intende promuovere eventuali nuove regole solo come ultima scelta, se non vi saranno altre strade percorribili.
Per quanto riguarda il caso delle indebite profilature commerciali dei consumatori, viene sottolineato come le regole attuali europee sulla privacy siano di una chiarezza cristallina, dove indicano come le informazioni riguardo una persona possano essere utilizzate solo con suo previo consenso. Le istituzioni europee anzi sorveglieranno e agiranno concretamente verso quegli Stati europei che non riusciranno a rispettare questo proprio obbligo esplicito, di tutelare il diritto di privacy dei cittadini rispetto alle iniziative commerciali.
In relazione agli smart chips, di riconosciuta importanza per l’ottimizzazione dei sistemi distributivi commerciali, la Reding offre una visione ben delineata, dove nuovamente focale risulta la consapevolezza del cittadino europeo sul funzionamento specifico di questa recente tecnologia, sulle implicazioni rispetto alla propria persona, sulla possibilità tecnica di poter rimuovere l’etichetta RFID o spegnerla in ogni momento.
L’accento è sul lato sociale delle tecnologie, dove si dice che l’Internet delle cose funzionerà solo se accettata da tutti.

Verso la fine dell’intervento, viene ribadita la necessità di metter mano alle regole generali europee per la protezione dei dati personali, del 1995, alla luce dei recenti sviluppi delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Ma è positivo poter dire che le indicazioni sulla strategia istituzionale europea riguardo il diritto di privacy sanno eludere e anzi additare come controproducente un infuocato legiferare in termini proibizionistici – chiaro riferimento a ultimissimi fallimentari intenti politici di controllo della rete Internet, qui in italia e in altri Stati europei – sia in relazione alla promozione di responsabilità personale nell’essere informati e consapevoli di tutti noi fruitori della rete, sia riguardo alla stessa internet, che giungla ora certo non è, e tale diventerebbe solo se venisse tralasciata appunto la tutela dei diritti della persona.
E le regole che ci sono ora vanno già benissimo, vi è fiducia nel sistema libero attuale della rete, e piuttosto bisognerebbe puntare sull’educazione alla cittadinanza digitale, se proprio si intende fare una bella cosa.

Carlucci, Damele, Davide

Ma guardate questo articolo del Messaggero Veneto: cos’è, pensiero magico? Un esempio di post hoc ergo propter hoc? Siccome l’autista si è insospettito che il tipo non volesse scendere dall’autobus, allora gli agenti hanno accertato che era da rimpatriare?
Quale profonda visione metaforica della leggibilità del mondo può portare a raccontare così questo evento di cronaca, dove l’autobus corrisponde all’italia e il non-voler-scendere corrisponde al non-voler-essere-rimpatriati?
Ah, quando la grammatica sfugge e le parole parlano da sole – a parte il giornalista arruffone in buona o cattiva fede, intendo, che ci regala fughe interpretative decisamente poetiche.
Nel frattempo, Bora.la ha pubblicato una mia riflessione sulle famigerate “leggi di internet”, su Daniele Damele che fa copiaincolla e sull’utilizzo di inutili e anzi controproducenti filtri alla navigazione per la tutela dei minori.

Se volete, andate a leggere (e commentare) di là, l’articolo lo incollo qui tra qualche giorno.

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Daniele Damele ha il pallino del filtro

Appena la risacca delle news giornalistiche riporta ciclicamente verso riva qualche episodio recente sui rischi di internet, ecco che prontamente Daniele Damele erompe in sentitissime lamentazioni sul degrado morale e sociale del giorno d’oggi, e quale soluzione taumaturgica propone sempre quest’accrocchio tecnico del filtro a monte che protegge i minori durante la navigazione su web.

Un normalissimo filtro basato su blacklist, peraltro, dove un software confronta gli indirizzi di destinazione delle nostre ricerche su web con un elenco di siti segnalati come non appropriati ai minori, e nel caso inibisce la navigazione.

Quelli tra voi più addentro alle cose tecniche, staranno sorridendo, lo so.

Perché l’efficacia di un filtro basato su blacklist dipende appunto dalla completezza degli elenchi di confronto, i quali vengono a quanto pare aggiornati da centinaia di collaboratori volontari o dagli stessi genitori (gente che passa le giornate a guardare apposta siti pedopornografici e invocazioni al satanismo, immagino… qualcuno deve pur fare il lavoro sporco), ma di certo non può offrire nessuna fondata garanzia riguardo al fatto che sul vostro schermo non possa comparire qualche immagine sconveniente, al contrario di quanto millantato da Damele sul suo blog.

In queste settimane poi quelli della parte politica di Damele, a Roma e purtroppo al governo, stanno promuovendo squinternate proposte e disegni di legge (D’Alia, Carlucci, Barbareschi) da cui appunto si ricava come queste persone non conoscano né il funzionamento tecnico della Rete né abbiano chiarezza sulla portata dei propri effettivi poteri legislativi, ed è francamente spassoso (tristissimo, in realtà) vedere come vengano pubblicamente sbugiardati e ridicolizzati per la propria ignoranza e faciloneria anche dalla stampa internazionale e talvolta dagli stessi colleghi di corrente politica; vi rimando a Gilioli su L’Espresso per apprezzare l’ultimissima vis comica di Gabry Carlucci, mentre questo è il link dell’osservatorio giornalistico promosso da Apogeonline per tenere d’occhio gli sviluppi legislativi di queste cosiddette “leggi di internet”.

Da parte mia, sottoscrivo quanto scritto da Sergio Maistrello da Pordenone, sempre su Apogeonline: a parte l’insopportabile situazione di veder legiferare persone che non comprendono quello di cui stanno parlando né riescono a concepire le conseguenze deleterie di simili decisioni per lo sviluppo socioeconomico e culturale del Paese, la promulgazione di nuove leggi laddove sarebbero sufficienti quelle esistenti per perseguire penalmente qualsiasi tipo di reato venga compiuto a mezzo internet sembra proprio adombrare una volontà politica decisa a limitare pesantemente le nostre libertà individuali di accesso all’informazione e di libera espressione.

Ma torniamo agli accadimenti locali.

Prendendo la palla al balzo, Damele sul suo blog commenta la notizia del ddl Carlucci, dedicato peraltro all’anonimato e alla diffamazione in rete, e la utilizza come spunto narrativo per le sue personali perorazioni: innanzitutto, paladino della libertà, Damele sottolinea magnanimamente l’importanza di garantire l’accesso alla rete a tutti, poi con partecipazione tutta umana giunge al suo cavallo di battaglia, appunto il filtro alla navigazione per la tutela dei minori, da adottare da parte di famiglie e scuole.

Sulla tematica del filtro alla navigazione, non intendo dilungarmi: dal punto di vista tecnico come dicevo non offre nessuna garanzia di blocco di contenuti riprovevoli, ma soprattutto innesca alcuni comportamenti decisamente controproducenti; ad esempio, per i quindicenni aggirare le imposizioni genitoriali è uno scopo di vita, e saltare i proxy e disabilitare filtri è esattamente quello che già fanno quando devono usare i loro programmi peer-to-peer. Se imposti una battaglia con gli adolescenti a base di divieti e proibizioni, innanzitutto perdi gli scontri regolarmente, e inoltre contribuisci alla formazione di una mentalità nel minore decisamente orientata al “vaffa” e al cercare di fregare gli adulti, al segreto e alla menzogna (e han ragione i giovanissimi, sia chiaro: questione di sopravvivenza).

Per un genitore, sentirsi con la coscienza a posto perché “tanto ho installato un filtro sul pc di casa” potrebbe portare a evitare di controllare fattivamente cosa fa il figlio quando naviga, delegando a un dispositivo tecnologico alcune importanti funzioni genitoriali.

Un dirigente scolastico poi che utilizza dei denari pubblici per acquistare delle soluzioni informatiche che limitano la libertà di navigazione senza offrire alcuna sicurezza informatica come contropartita, magari facendo tutto di testa sua senza informarne il Consiglio d’Istituto, compie un atto sbagliato, in relazione al messaggio pedagogico di una scuola laica. Il singolo genitore può legittimamente dar fiducia al filtro Davide e acquistarlo, ma nel caso di istituzioni pubbliche il discorso cambia. E’ come se gli acquisti dei libri per la biblioteca di un Istituto scolastico statale avvenissero solamente da cataloghi o in negozi approvati dalla chiesa cattolica, e non è un esempio a caso.

Perché il filtro proposto da Damele, molte volte da quest’ultimo reclamizzato nel corso degli anni, è prodotto e promosso da un prete torinese che molti anni fa ha dato vita a una società commerciale di servizi internet, ovvero il provider di connettività Cometa Comunicazioni, la quale appunto vende il filtro Davide sostenendo al contempo l’eticità delle proprie iniziative tramite il sito dell’associazione onlus Davide.it, sempre presieduta dallo stesso prete. Qui trovate alcune informazioni aggiuntive, anche se non è ben chiaro se sia il provider Cometa o la onlus Davide a incassare i non pochi soldi che privati aziende scuole associazioni e biblioteche spendono per acquistare il filtro.

Il sito Davide inoltre comunica in modo piuttosto fumoso, soffermandosi parecchio su discorsoni di banale senso comune, ma senza portare delle prove concrete sull’efficacia delle proprie offerte informatiche: secondo voi la frase “la maggior parte dei filtri blocca al massimo il 65% dei siti non adatti ai minori. Davide.it ha un’efficacia fino al 95% con il più basso numero di errori” dice qualcosa di verificabile? Il 95% di cosa, di grazia?

Vi è poi un altro aspetto interessante: Damele si deve essere scocciato di ripetere sempre le stesse cose nel corso degli anni, quindi nel post in questione ritiene ormai superfluo citare la fonte delle sue affermazioni. Ma internet è simpatica, per queste cose. Così scopro che molte frasi del suo articolo sono letteralmente copiaincollate da Davide.it, ma nascondendo il furtarello. Giocate anche voi a smascherare l’inghippo, confrontando quanto espresso qui con quanto da Damele asserito sul suo blog (nel caso qualcosa cambiasse, ho gli screenshot delle pagine web in questione).

Nel caso concreto, mettiamo il caso che il figlio di Damele minorenne al parco pubblico scopra nell’erba una rivista pornografica oppure venga avvicinato da qualcuno con intenzioni losche: probabilmente avvertirà il genitore, il quale chiamerà giustamente la polizia, la quale a sua volta intraprenderà delle indagini su ordine di un magistrato e magari terrà sotto sorveglianza gli afflussi di persone, ma di certo non chiuderà l’intero parco alla cittadinanza, come si vorrebbe ora fare con le “leggi di internet” se qualcosa di simile capitasse nei territori digitali dove oggi noi abitiamo con dignità di cittadini. Tutti noterebbero l’incongruenza e lo sproposito della reazione, nel ledere il mio diritto di cittadino di usufruire del parco pubblico rispetto al perseguire penalmente chi si è macchiato di un singolo reato, che rimane grave ovunque venga commesso.

Nell’intervento sul suo blog dal titolo Ecco cosa bisogna bloccare, ma dove ohibò la censura non c’entra per niente, Damele enumera i contenuti da filtrare a monte: si tratta di “documenti appartenenti alle seguenti categorie: pedofilia e pornografia con partecipazione di minorenni, suggerimenti e inviti al suicidio, istigazione all’uso di stupefacenti, gioco d’azzardo, satanismo con sacrifici cruenti di animali o persone, materiale nocivo ai minorenni, pornografia esplicita, satanismo, violenza, istigazione all’odio e/o ad atti violenti, razzismo, turpiloquio”… tutte cose che esistono da ben prima di Internet, e per le quali esistono già precise indicazioni legislative per la loro repressione per via giudiziaria, senza alcun bisogno di nuove leggi specifiche.

Teniamo presente che Daniele Damele è giornalista, ed è perfettamente libero di credere e di promuovere quello in cui crede, foss’anche riducendo la sua professione a quella di tragicomico acritico tamburino locale delle scelte politiche targate PdL, nel momento stesso in cui vengono promulgate qui in Italia leggi liberticide promosse da personaggi di nessuna credibilità e di nessun competenza.

Però Damele è stato anche presidente del Comitato Regionale per le Comunicazioni CoReCom, sugli stessi argomenti ha collaborato a Roma con commissioni interministeriali e dentro comitati di garanzia Internet&Minori, ha ricoperto o ricopre incarichi ufficiali da dirigente presso la Provincia di Udine, è docente universitario di “Etica e comunicazione” a Udine, e spero citi le fonti bibliografiche nelle sue dispense d’aula.

Capite quindi come quella di Damele sia una voce autorevole in virtù delle cariche pubbliche da lui ricoperte, ovvero in grado di orientare le coscienze di molte persone nella considerazione di queste tematiche etiche legate alle libertà individuali di opinione e di pubblicazione, indici sicuri del livello di civiltà raggiunto da una data collettività; a maggior ragione potrete comprendere come sia molto grave, per questi stessi motivi, che dal suo alto pulpito Damele continui da anni a reclamizzare (spero per lui in modo dichiaratamente remunerato, almeno) una determinata soluzione tecnica, di per sé palliativa e censoria quindi non educativa, quale risposta adeguata alla pericolosità dell’ambiente Internet per le giovani generazioni.

In qualche modo, misurare le competenze per una cittadinanza digitale?

Da un bell’articolo su Apogeonline, dove Eleonora Pantò intervista Antonio Calvani, vengo a sapere di progetti anche piuttosto avanzati per la misurazione delle competenze digitali, dove queste ultime hanno poco a che vedere con lo smanettamento del pc e riguardano piuttosto il

saper esplorare e affrontare in modo flessibile situazioni tecnologiche nuove, saper analizzare selezionare e valutare criticamente dati e informazioni, sapersi avvalere del potenziale delle tecnologie per la rappresentazione e soluzione di problemi e per la costruzione condivisa e collaborativa della conoscenza, mantenendo la consapevolezza della responsabilità personali, del confine tra sé e gli altri e del rispetto dei diritti/doveri reciproci.

Chiaramente, l’argomento tratta di Cittadinanza digitale. Anzi, poiché lo Stato qui c’entra poco, parlo come al solito di Abitanza digitale, richiamando il Ben-Stare sul territorio indifferentemente biodigitale e la tessitura di relazioni interpersonali stabili nei nuovi Luoghi dell’Abitare, dove le nuove distinzioni di privato e pubblico, di diritti e doveri, di proprietà intellettuale e licenze di distribuzione, di organizzazione del tempo in modo decisamente non-lineare, postindustriale, ci mettono seriamente in crisi nel pensare cosa possa significare essere moderni.
Anzi, lo Stato potrebbe entrarci molto, se mosso da afflato illuministico intendesse seriamente prendere in considerazione una realtà scolastica in grado di formare Abitanti consapevoli della loro responsabilità e delle loro potenzialità dinanzi alla maggiore o minore qualità del vivere su un dato territorio.

Dunque: lo Stato si premura di stabilire quali siano le competenze digitali per una buona cittadinanza digitale, senza troppo incagliarsi su problemi tecnologici relativi alle TIC (eppur recependo fin dalla parola “digitale” la rivoluzione in atto), propone un gruppo di ricerca sulla Digital Competence Assessment nell’ambito del progetto PRIN del Ministero “Internet e scuola: problematiche di accessibilità, politica delle uguaglianze e gestione dell’informazione”, e chiaramente si trova nella necessità di elaborare un sistema di valutazione delle competenze digitali.
Conosciamo i rischi: lettera morta, burocratizzazione, inadeguatezza dei parametri valutativi, le odiose “patenti”. Si tratta di misurare cose sfuggenti, ancor oggi difficilmente percepibili per chi vive poco la rete. La frequentazione, la partecipazione, le reti amicali, la consapevolezza critica sull’uso degli strumenti TIC, la facilità alla collaborazione con altri in remoto, la capacità di reperire e produrre e distribuire informazioni.

Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?

La Scuola, in questo momento storico, è incompetente: le manca un saper-fare, per poter-fare.

Già da molti anni le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sono veicolo del nostro abitare il mondo, e la nostra partecipazione civica – fino a ieri passiva in quanto fruitori di massmedia tradizionali, oggi attiva in quanto produttori e distributori di contenuti nel web – alla Società (ecosistema) della Conoscenza passa attraverso la comprensione dei risvolti antropologici delle TIC, del loro essere ambiente sociale e non solo strumento di produzione documentale, del loro essere Luogo dialogico di crescita relazionale e non solo fonte informativa.

Ma la Scuola non riesce a concepire gli strumenti come ambienti formativi. Se mancasse la lavagna o il libro, il fare scuola avrebbe altre fisionomie. Senza il PC e il web la Scuola non può educare alla modernità intessuta di Cultura digitale le giovani generazioni permanentemente connesse, le quali trarranno il senso della propria identità anche dalla ricchezza degli scambi interpersonali e dalla consapevolezza critica con cui abiteranno i Luoghi online.

Il problema è che la Scuola difficilmente riuscirà a essere competente, e quindi a perseguire i propri obiettivi formativi, se prima non modifica la percezione che ha di sé e del proprio ruolo sociale, in relazione ai cambiamenti epocali veicolati dalla diffusione del web.

Tutto questo lo dico in modo ancor più farraginoso, involuto e prolisso su Apogeonline, che ringrazio per la pazienza con cui aspettano che io impari a scrivere. L’articolo lo metto anche qui sotto, ma cliccate e leggetelo di là, per dare a voi stessi l’opportunità di imbattervi in molte altre cose interessanti.

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Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?
di Giorgio Jannis

Secondo i programmi ministeriali, un quattordicenne dovrebbe essere in grado di usare le nuove tecnologie, padroneggiare i linguaggi multimediali, dominare la ricerca di informazioni. Nella pratica, accade di rado. Una storia di Re, Eroi, Draghi e Streghe per raccontare un pezzo di Paese alle prese con un mondo che cambia.

Ecco lo schema classico di una storia: un Re promette metà del regno a chi gli riporterà la figlia rapita da un Drago. L’Eroe parte, e probabilmente subirà una prima sconfitta; ritiratosi depresso nel bosco, incontrerà una Strega che inizialmente sembrerà nemica, ma una volta rotto un qualche incantesimo l’Eroe riceverà da quest’ultima putacaso tre pietre magiche che lo aiuteranno a superare la prova decisiva dello scontro con il Drago, e quindi diventerà Principe, con tanto di nozze regali e happy ending.

Ognuno di noi è un Eroe: onorando un contratto con la Società, uccidendo il drago dell’anarchia e dell’anomia, diventando cittadini con diritti&doveri, riceviamo in cambio uno status sociale riconosciuto, l’accesso legittimo a fonti economiche in cambio di prestazioni lavorative, la sicurezza di poter vivere e crescere dei figli in un ambiente ripulito da passatori e tagliagole. Ma come Cittadini, dobbiam venir educati a vivere in società, dobbiam superare dei riti di passaggio capaci di sancire la nostra competenza.

Gli stati nazionali, da Napoleone in poi, hanno compreso l’importanza dell’Educazione formale laica e hanno deputato la Scuola a essere il Luogo ufficiale dell’acculturazione dell’individuo, al fine di costruire funzionalisticamente un Cittadino adeguato: bisogna conseguentemente qui intendere la Scuola come l’Aiutante della nostra storia, colei che viene socialmente incaricata di fornire competenze (cognitive e performative, saper-fare e poter-fare) all’Eroe.

Ma nel particolare, qual è il programma narrativo della Scuola? Leggendo a sua volta l’Aiutante come un Eroe, vediamo come anch’essa abbia bisogno di acquisire competenze specifiche per portare a termine il proprio compito educativo, abbia la necessità per esempio di sorreggere le proprie scelte metodologiche e contenutistiche sulla base di teorie pedagogiche aggiornate, nonché di trovarsi nelle condizioni materiali (edifici scolastici adeguati, editoria specializzata, sussidi didattici, organizzazione del tempo, risorse umane) per poter svolgere la propria attività formativa in modo ottimale, al fine di ri-consegnare alla Società un quattordicenne dalla personalità armonica, in grado di comprendere sé stesso e di relazionarsi agli altri in modo eticamente responsabile, di rappresentare i fenomeni e capire i processi del mondo naturale e costruito in cui vive, capace di operare scelte autonome nel progettare il proprio futuro (obiettivi tratti dai testi ministeriali di una qualsiasi riforma scolastica degli ultimi quindici anni).

A sua volta (questa storia è piena di streghe), la Tecnologia in classe rappresenta uno degli Aiutanti di cui la Scuola si avvale per rendere più efficace l’acculturazione degli alunni, sostenendo l’apprendimento con sussidi didattici tecnologici quali innanzitutto la scrittura, e quindi i libri e le lavagne peraltro oggetti ora interattivi e connessi, le mappe geografiche oggidì satellitari, i videoregistratori e infine il computer connesso, quale strumento che racchiude in sé quasi tutte le potenzialità del produrre e distribuire informazione in modo multimediale.

L’introduzione innovativa di strumenti tecnologici in classe non è un atteggiamento tipico solo di questi ultimi anni: a partire dalla fine dell’Ottocento la pedagogia comprende infatti l’importanza (senza dubbio su impulso di necessità legate al mondo del lavoro) di provvedere ai discenti una formazione basata su attività manipolatorie concrete da svolgere dentro aule/laboratori allestiti come officine meccaniche oppure come atelier di tessitura, quale maggior garanzia per un apprendimento significativo (learning by doing) di competenze professionali; particolarmente interessante per i ragionamenti sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione risulta la posizione di Célestin Freinet, il quale nella prima metà del Novecento introduce le macchine tipografiche a scuola, insieme a precise indicazioni su come moltiplicare gli scambi a distanza con altre realtà scolastiche, in una concezione comunitaria e collaborativa degli ambienti formativi.

Grammatica dei media e strumenti critici
Tuttavia, anche se la Scuola ha portato in classe le novità tecnologiche che il Novecento ha via via sviluppato nel campo dei mass media, quali la stampa e la radio, il cinema e la televisione e infine il computer e Internet, in realtà non ha mai saputo seriamente sollevare a dignità educativa una riflessione sulle implicazioni psicologiche e sociologiche di questi strumenti di comunicazione, ponendo quindi una seria Media Education al centro delle proprie attività didattiche.

La consapevolezza che molti valori esistenziali, molti atteggiamenti cognitivi affettivi ed etici, la gran parte delle informazioni e delle opinioni pubbliche sul senso della realtà sociale vengano oggi percepiti e vissuti in modo mediato (il gioco di parole è notoriamente calzante), e che la nostra stessa identità personale e pubblica sia in qualche modo continuamente negoziata e narrata nello scambio relazionale che intratteniamo con gli altri, con gli oggetti culturali e con gli strumenti grazie a cui questi oggetti giungono a noi, risulta ormai diffusa seppur in modo “ingenuo” presso la maggior parte della popolazione; eppure la Scuola nulla fa per fornire grammatiche di lettura e strumenti critici in grado di mostrare la non-trasparenza dei media, il loro essere narrazioni potenzialmente manipolatorie, la falsità del loro pretendersi semplice “finestra sul mondo”.

La Tecnologia è un valore antropologico, e i valori vivono e si maneggiano da sempre attraverso le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione: da tutti questi ragionamenti sul carattere formativo degli strumenti di comunicazione di massa dovrebbero “naturalmente” discendere dei percorsi di innovazione didattica in grado di coinvolgere tanto il curricolo (quindi una riflessione sul ruolo odierno delle discipline tradizionali alla luce delle potenzialità trasversali offerte dalle TIC, nonché sulle nuove aree di sapere che costituiscono le “discipline di scopo”, dall’ecologia alle trasformazioni sociali, dall’intercultura alla cittadinanza anche digitale, dalla Cultura Tecnologica alla salute pubblica), quanto soprattutto la formazione dei docenti.

Se insegnante fa rima con abitante
Questi ultimi andrebbero rapidamente aggiornati dal punto di vista professionale innanzitutto secondo una considerazione attuale della Società della Conoscenza nel paradigma dell’Abitanza digitale e della Scuola Connessa; poi edotti sulle dimensioni comunicative e relazionali degli ambienti di apprendimento sia in presenza sia a distanza, visto che la sinonimia tra classe e aula comincia a perdere validità; e infine resi consapevoli dei meccanismi psicologici di sintesi tra esperienza del mondo e formazione dei concetti e delle idee, acquisendo stabilmente nella didattica – proprio per ottimizzare l’insegnamento – l’utilizzo di competenze e conoscenze apprese dagli allievi in ambiti extrascolastici, ponendo l’accento sulla transdisciplinarietà, comprendendo l’apprendimento significativo come massimamente garantito dalla narrazione (osservazione, analisi, manipolazione, problematizzazione, riprogettazione, allestimento discorsivo multimediale) che l’allievo compie a sé stesso e agli altri delle nozioni apprese, nel ri-giocare la realtà, ad esempio attraverso un uso intelligente dei blog scolastici.

Purché il blog di classe sia visto come pratica espressiva formativa relazionale e quindi identitaria, Luogo dell’Abitare della scuola sul web, e non solo come un sussidio didattico. Purché le TIC tutte e il web stesso siano percepiti e vissuti come ambienti formativi, e non solo come strumento informatico. L’utilizzo stesso della parola informatica, a meno che non si tratti effettivamente di scrivere codice in linguaggi di programmazione come negli istituti tecnici, pone l’oggetto computer e il web a scuola dentro una cornice interpretativa fuorviante. Nominare le attività con il computer come informatica ha portato per lunghi anni, e tuttora accade, a concepire l’informatica stessa come disciplina curricolare, cosicché oggi nelle scuole medie dopo l’ora di italiano c’è l’ora di “informatica”, che poi consiste nell’andare in laboratorio multimediale e usare programmi di videoscrittura o di presentazioni (quasi sempreprogrammi commerciali, nonostante precise indicazioni ministeriali per approcci open source nelle pubbliche amministrazioni) oppure navigare un po’ a caso sulla Rete, disattendendo completamente la funzione trasversale delle tecnologie TIC rispetto ai curricoli scolastici, nonché ignorando le tematiche etiche soggiacenti a una ormai impellente Educazione alla Cittadinanza digitale.

La Scuola sulla carta
Cosa dicono attualmente le indicazioni del Ministero dell’Istruzione riguardo le competenze sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione che gli allievi dovrebbero possedere al termine della scuola di base? Secondo i programmi d’aula, un quattordicenne «è in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per sviluppare il proprio lavoro in più discipline, per presentarne i risultati e anche per potenziare le proprie capacità comunicative. Utilizza strumenti informatici e di comunicazione in situazioni significative di gioco e di relazione con gli altri. È in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per supportare il proprio lavoro, avanzare ipotesi e validarle, per autovalutarsi e per presentare i risultati del lavoro. Ricerca informazioni e è in grado di selezionarle e di sintetizzarle, sviluppa le proprie idee utilizzando le TIC e è in grado di condividerle con gli altri. Conosce l’utilizzo della rete sia per la ricerca che per lo scambio delle informazioni». Come si può vedere, nel contratto che la collettività mediante le indicazioni ministeriali propone alla Scuola per educare le nuove generazioni, esistono chiari e condivisibili riferimenti a degli obiettivi di qualità e di modernità; la scuola però risulta inadeguata a portare a termine il proprio compito.

Vi è forse una mancanza di competenza performativa nella scuola, nel suo poter-fare? In Friuli Venezia Giulia, secondo statistiche disponibili sul sito dell’Ufficio Scolastico Regionale, escluse le Scuole dell’Infanzia (dove i ragionamenti sul computer in classe trovano altro significato) il 90% delle scuole è provvisto di un laboratorio multimediale, e il 40% delle Primarie sono connesse in ADSL, il 60% delle scuole medie, l’85% delle scuole superiori. Dal punto di vista della connettività, la situazione non è rosea, e probabilmente in altre regioni italiane le statistiche sono ancor meno confortanti, nonostante siano ormai passati dieci anni dai primi seri piani nazionali di informatizzazione scolastica, sia dal punto di vista della dotazione tecnologica sia da quello dell’aggiornamento professionale dei docenti.

Vi è forse una mancanza nel saper-fare? C’è forse in questa storia un problema di competenze, qualche incantesimo o qualche antagonista che impedisce all’Eroe-Scuola di comprendere la tecnologia TIC come Aiutante nel portare a compimento la propria missione formativa? Se l’obiettivo è preparare i giovani ad essere consapevolmente e responsabilmente Cittadini di un mondo tecnologico e mediatico, perché la Scuola si avvale poco delle tecnologie TIC per il proprio insegnamento, né pone riflessivamente attenzione a una lettura critica di quelle stesse tecnologie (educazione ai media, non solo educazione con i media) grazie a cui entriamo in contatto con il mondo, così determinanti nel forgiare la nostra identità?

L’autonomia in una società che cambia
L’ostacolo principale potrebbe essere costituito dalla stessa mentalità con cui storicamente la Scuola pensa sé stessa, dal proprio de-finirsi e voler trarre identità dall’essere autonoma, per non dire avulsa e anacronistica, rispetto alle novità della società attuale e alla modernità costituita dal sistema mediatico, sia dal punto di vista dei contenuti didattici e delle metodologie d’insegnamento, sia da quello della propria organizzazione interna in quanto “meccanismo” sociale deputato formalmente all’Educazione anche in termini di Cittadinanza delle nuove generazioni “digitali”.

Tutto questo riguarda senza dubbio il cambiamento che la società tutta sta intraprendendo, per tentativi ed errori, nell’adeguare le proprie strutture all’Epoca della Cultura Digitale, e sappiamo come il cambiamento tanto negli individui tanto nelle organizzazioni lavorative, percepito come minaccia, provochi ansia e conseguenti resistenze e difese, come irrigidimento delle “posture esistenziali” e delle identità storicamente consolidate.

Certo, sono le persone ad animare le istituzioni, e senza tema di smentita le innovazioni tecnologiche oggi a Scuola sono quasi ovunque promosse da singoli individui, “missionari” ed “evangelisti” (neanche le TIC fossero cosa spirituale o metafisica, e non concreto ambiente di crescita e di relazione interumana) che spesso lottano contro l’incomprensione e la sottovalutazione del loro lavoro da parte dei colleghi e dell’istituzione scolastica. Ma se il senso del discorso e della narrazione dell’attore Scuola rimane imprigionato dentro una falsa coscienza di sé e del proprio ruolo sociale, se le rivoluzioni tecnologiche come la nascita della rete Internet non vengono recepite e metabolizzate dalla Scuola con il giusto rilievo antropologico rispetto alla portata del cambiamento sociale di cui sono foriere, gli insegnanti e i dirigenti scolastici non troveranno certo fuori di sé le spinte al cambiamento, né troveranno dentro di sé motivazioni valide per innescare ammodernamenti nel fare scuola.

Come il posizionamento dentro l’adeguata cornice interpretativa – ambiente di apprendimento, nonsolo strumento didattico – conferisce senso formativo all’utilizzo di un laboratorio multimediale scolastico o al singolo computer nella pratiche di insegnamento, a sua volta una concezione ampia e innovativa della Scuola come Luogo educativo osmoticamente attraversato da flussi concreti di persone e idee provenienti dalla società “esterna” e dal territorio potrà donarle quelle competenze che le sono necessarie per onorare il contratto con la collettività, conferendole al contempo in tal modo un sentimento identitario rinnovato e commisurato al contesto della sua azione in quanto legittimo Attore sociale. Perché l’identità è sempre somma olistica dell’Io e della circostanza che lo contiene, e il mondo è cambiato.

Fahrenheit 451, Ray Bradbury

Pace, Montag. Offri al popolo gare che si possono vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, e il nome delle capitali dei vari Stati dell’Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l’anno passato. Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d’essere “veramente bene informati”. Dopodiché avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia onde possano pescar con questi ami fatti ch’è meglio che restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza. Chiunque possa far scomparire una parete TV e farla riapparire a volontà, sarà sempre più felice di chiunque cerchi di regolo-calcolare, misurare e chiudere in equazioni l’Universo, il quale del resto non può esserlo se non dando all’uomo la sensazione della sua piccolezza e della sua bestialità e un’immensa malinconia. Lo so, perché ho tentato anch’io; ma al diavolo cose del genere. Per cui, attàccati ai tuoi circoli sportivi e alle tue gite, ai tuoi acrobati e ai tuoi maghi, ai tuoi rompicolli, autoreattori, motoelicotteri, donne e eroina, e ad ogni altra cosa che abbia a che fare coi riflessi condizionati. Se la commedia non vale niente, se il film non sa di nulla, se la musica è sorda, punzecchiami col pianoforte elettronico, fragorosamente. Io crederò di rispondere alla musica, quando invece si tratta soltanto di una reazione facile alla vibrazione. Ma che importa? Tanto, a me piacciono i divertimenti solidi e compatti.

Netizen a scuola – Dobbiaco 2008

Sono stato a Dobbiaco, a raccontar qualcosa di Cultura TecnoTerritoriale al convegno dedicato alla Cittadinanza Digitale e alla Scuola3D promosso dall’Istituto Pedagogico di Bolzano. Bonaria Biancu (autrice anche della foto qui vicino) su Geeklibrarian e Maddalena Mapelli su Ibridamenti bloggavano in tempo reale, Mario Rotta e Gianni Marconato han pubblicato ciascuno un resoconto dell’intensa full-immersion dell’altra settimana.

Per i contenuti esposti, assai interessanti, vi rimando ai succitati articoli e al wiki ufficiale dell’iniziativa; da parte mia posso sottolineare l’ottimo clima amichevole che si è instaurato fin da subito tra i partecipanti, le preziose pause-sigaretta, le chiacchierate notturne presso improbabili bar dall’arredamento tipo far-wast lato pellerossa, con ritratti di fieri guerrieri Cheyenne (i quali guerrieri sono sempre fieri, come le BWV sono potenti e gli economisti sono distinti), selle polverose, un divano sgangherato con coperta lercia, legno dappertutto e ottimo rock-blues del ’73/’74, dentro. Una teoria diffusionista vuole che a Bolzano si ascolti ancora la musica degli anni ’90, poi risalendo la Val Pusteria si incontrano via via i DuranDuran e i Pet Shop Boys, segue Dobbiaco e i Settanta, verso il confine hanno scoperto i Beatles. Esagero; però credo che in ogni villaggio di ogni valle del mondo ci sia una birreria che mette su i Led Zeppelin, ogni tanto.

Sono stato educato, ho litigato solo un paio di volte, al convegno (al bar, evito da anni).
La prima è stata quando un’insegnante si lamentava del non veder riconosciuto il proprio lavoro online dall’istutuzione scolastica “di appartenenza”: le ho risposto dicendole che lei non appartiene alla scuola. Ovvero, proprio concepire il proprio lavoro secondo i criteri di giudizio scolastici, oggi che la scuola è orribilmente arretrata nel preparare i giovani a vivere con tranquillità e consapevolezza nella modernità anche digitale, diventa una richiesta a cui non si può rispondere. Io per lavoro formo le persone, non gli insegnanti. Poi questi insegnanti se sono persone a loro agio nell’uso dei nuovi media (se insomma hanno un blog, un aggregatore, e sanno usare tutto google, per dire) sapranno anche integrare seamlessly nel loro flusso narrativo didattico i modi e le risorse per reperire informazioni e trattarle, arricchendo il tutto con la loro professionalità. Se la Scuola non comprende il significato di una Educazione alla Cultura Digitale, l’errore è cercare riconoscimento e quindi identità dal Dirigente scolastico o dall’Istituzione scolastica stessa.
Ormai penso che gli insegnanti dovrebbero comunque avere una vita digitale autonoma, dove con le dovute cautele – privacy, responsabilità; e sono uno che cerca di far aprire alle scuole dei blog “centralizzati” per evitare quella esplosione di Luoghi web scolastici non coordinati che credo sia ormai in atto, da cui diventa difficile ricavare l’identità complessiva della scuola in questione – raccontare con regolarità anche eventi quotidiani oppure straordinari della vita in classe.
Acquisire visibilità verso altri colleghi, dentro le comunità online organizzate per campi d’interesse, come quelle scolastiche, indipendentemente dalla vicinanza geografica. Acquisire visibilità verso il territorio, rendendo i propri spazi di pubblicazione Luoghi di cittadinanza digitale attiva, dove portare le quinte classi delle primarie a comportarsi come reporter nel mostrare bellezze e bruttezze del circondario.
Banalmente, se come insegnante che usi il web per la didattica aspetti comprensione e finanziamenti da un dirigente che ha problemi a gestire un fax e si fa stampare le mail dalla segretaria morirai aspettando, e forse nemmeno mostrare il lustro mediatico che la scuola ne può ricavare ti può servire, perché per certi presidi meschini restare nell’ombra a rubar soldi allo Stato è molto più facile.

Nell’altro caso, ho contribuito personalmente ad alzare i toni della discussione per evitare che si ricadesse in tematiche che nella letteratura anche italiana riguardante “il ruolo dell’insegnante e l’introduzione delle TIC a scuola” (probabile titolo di dozzine di convegnetti negli scorsi anni) sono state ampiamente prese in esame e posizionate sotto una luce corretta, dove alla fin fine si comprende che l’apprendimento non è certamente addestrare delle persone a far questo e quest’altro, ma suscitare negli individui e nei gruppi classe la curiosità e i metodi del conoscere sé stessi, gli altri e il mondo, attraverso tutti i media “in entrata” e “in uscita” di cui si dispone. Che l’insegnante venga fatto inciampare da ogni nuova tecnologia che arriva in classe, e quindi si senta destabilizzato e senza più riferimenti, spodestato da un bambino che usa word e youtube meglio di lui, non mi interessa più tanto. Se ne parlava al tempo degli ipertesti, nel 1997, toh. Se nel 2008 un insegnante non sa portare il mondo dentro la scuola, e quindi nemmeno la scuola nel mondo o semplicemente porsi come attore sociale consapevole del proprio ruolo, vuol dire che quella persona ha accuratamente schivato il web per dieci anni, e ci vuole caparbietà per riuscirci così bene. Inutile aspettarsi cambiamento, non c’è nessun aggiornamento scolastico capace di risolvere il problema della mancata motivazione negli insegnanti all’utilizzo moderno delle TIC; non si tratta di un problema di Cultura Tecnologica e nemmeno tecnico (uso degli strumenti), si tratta di modificare una visione-del-mondo sul piano individuale, e lottare contro le resistenze al cambiamento tipiche di ogni organizzazione lavorativa, figuriamoci la Pubblica Amministrazione scolastica. Servirebbero DeBono e i cappelli per pensare, forse, o un guru aziendale di quelli bravi o una squadra agguerrita di psicologi, e bisognerebbe trascinare tutti i dirigenti e i docenti in dei percorsi durissimi di smascheramento e creatività.

Durante il convegno a Bolzano si sarebbe potuto parlare maggiormente di Cittadinanza digitale, e meno di scuola, tutto qui, anche perché lo stesso progetto Scuola3D (collaborai verso il 2002 alle sue fasi iniziali, ancora su un Mondo Attivo pubblico, Italcity) fa emergere chiaramente il significato civico, educativo, della frequentazione consapevole dei Luoghi digitali.

Questi e i prossimi

Dovrei lavorare ancora un po’, dovrei finire di scrivere un articolo e sono orribilmente in ritardo, dovrei rifinire un progetto e spedirlo.

Ma due cose occupano prepotentemente i miei pensieri: la Vespa e la batteria.
La prima è il tipico amore che ti fa soffrire: dopo aver già sistemato quest’anno l’impianto elettrico della mia Sprint del 1967, adesso sento rumorini dalle parti del cambio e della pedivella che non promettono nulla di buono. Chiaramente nella Vespa è “tutto dentro”, quindi dovrei tirare giù il motore e aprirlo, e il mio buon meccanico pancione e vespista a sua volta non può non chiedermi almeno 400 neuri. Ahia.
Però qualche bel giretto quest’anno l’ho fatto, sono andato con Michela dentro la Slovenia, ho bighellonato sul Carso, dormito in una roulotte nel giardino di Enrico Milic, una meraviglia per cui non lo ringrazierò mai abbastanza e già sto pensando a come sdebitarmi.

L’altra passione insana è quella della batteria, strumento che se avessi avuto tra le mani a vent’anni avrebbe condizionato tutta la mia vita futura: il fascino che battere sui tamburi ha su di me mi avrebbe fatto prendere seriamente in considerazione l’idea di diventare un batterista professionista (talento permettendo). La batteria è una cosa strana, all’inizio i tempetti non entrano, i colpi sono tutti sbagliati… poi qualcosa fa cloc (il che mi ricorda il cambio della Vespa, e soffro) e di colpo le cose cominciano a funzionare, la cassa cade nel posto giusto, il braccio diventa fluido, si esce dall’apnea e si torna a respirare per bene col diaframma rilassato, si ascoltano le gambe mosse da vita propria.
La batteria l’ho incontrata a 30 anni, giù in cantina/sala musica, e nel corso degli anni ho dato giusto qualche colpo ogni tanto, sempre le stesse cose.
Però circa un mese fa sono sceso giù a cercare un po’ di fresco, e avevo con me lo Creative Zen di mio fratello, con dentro un giga di robe rock, da ascoltare sull’impianto voci. E perché non provare a starci dietro con la batteria, ai Fugazi e ai Pixies e ai Modest Mouse o financo ai Garbage e ai LaliPuna? Ecco, son rimasto folgorato. Bellissimo. Mi sono messo poi a cercare su YouTube (sì qui ci starebbe anche il solito discorsetto “ehh, se lo avessimo avuto ai nostri tempi, il Tubo, per imparare a suonare vedendo i nostri idoli”, e insomma cercatevi drum lessons in Rete e troverete tutto), ho approfondito certe tecniche, mi sono anche incaponito nell’imparare a suonare la bossanova, perché a parte i Nouvelle Vague è pur sempre uno dei tempi standard da imparare. Figata, la bossanova alla batteria. Charleston e cassa van via pari, mentre a bacchetto rovescio sul rullante van tenuti degli accenti secondo uno schema irregolare.

Qui il disegnetto, le X sono i colpi di charleston, S snare o rimshot, B per la cassa:
1
      2
      3
      4
     
X
X X X X X X X X X X X X X X X
    S
    S
    S
    S
    S
 
B
    B B     B B     B B     B

Bene, vi terrò informati sull’andamento futuro di queste mie due passioni travolgenti, quella con le ruote piccole e quella con le pelli tese dei tamburi.

Poi questo fine settimana parteciperò a questo bel convegno a Dobbiaco, organizzato da Luisanna Fiorini, dove potrò rivedere Mario Rotta e Michele Faggi aka l’Impostore, nonché Gianni Marconato e altri amici: tutti insieme proveremo a riflettere sulla Cittadinanza Digitale, sulla Scuola del futuro e le nuove tecnologie, in particolare sull’utilizzo dei mondi 3D in àmbito didattico, come già facemmo oramai parecchi anni fa costruendo e arredando Scuola3D sui Mondi Attivi.

Mercoledì 16 luglio sarò invece a Lignano, all’Hack Camp, organizzato dal LUG di Aquileja per parlare dell’OpenSource nelle scuole, illustrando l’esperienza realizzata dall’Associazione NuoviAbitanti nel dotare qualche decina di scuole del Codroipese e della Bassa Friulana – centinaia di pc recuperati dall’obsolescenza – di Ubuntu, nonché del formare gli insegnanti ad una aggiornata visione della Cultura Digitale.

Anche YouTube fa booty

Ma chi sono i partner commerciali di YouTube?
Questa la storia: vedo un bottone nuovo su YouTube Italia, che mi chiede se voglio visualizzare, tra i video più visti, anche quelli dei cosiddetti “partner”. Partner di chi? Di Travaglio, il primo della lista? Dei sistemisti che lavorano sul Tubo?

Senonché, clicco.

E mi compare una lista un tantinello diversa, decisamente popolata di femmine discinte, variamente agghindate e congelate nelle tipiche posizioni esibizioniste, secondo l’iconografia classica dei siti pornelli. Ah, quindi qui si intende “partner” proprio in quel senso.

Procedo nelle indagini. Dal glossario di YouTube, apprendo che “Partner (account type) – There is a page under the channels tab with videos from our major content partners”, quindi quelli che si comprano un account speciale beneficiano di una scorciatoia, grazie alla quale i loro video vengono mostrati per bene in una pagina a sé stante.

E siccome dall’invenzione dei massmedia in qua (ad esempio, vasi greci di duemila e cinquecento anni fa) sappiamo che le cose che riguardano il sesso sono ricercate molto più dei pantografi o delle mongolfiere ad aria calda, ecco che i video con contenuti osé salgono più in alto nelle classifiche generate dai comportamenti degli utenti.

Quindi, ricapitoliamo.
YouTube offre visibilità speciale ai propri partner commerciali, ovvero ai fornitori di contenuti; questi ultimi produrranno senza dubbio cose di vario genere, ma di certo pubblicano anche materiale bollente; i fruitori ovvero i soliti milioni di persone cosa possono fare se non folksonomizzare… e infatti ciò che emerge sono le solite cose che si vedevano sui vasi greci, radunate per bene sulla pagina dei *più visti*.

E perché dico tutto questo? Perché mi stavo costruendo un’idea piuttosto romantica, sdolcinata e eroica di YouTube durante la tempesta che si protende verso il cielo urlando la propria indignazione contro il Fato del pornello dilagante, e invece non solo cominciano a essere migliaia le ragazze che ballano seminude nelle loro camerette di adolescenti più o meno ribelli e spediscono video ripresi con la cam, ma i partner ufficiali stessi di YouTube producono cose pornelle e poi invadono gli spazi, usufruendo anche di canali privilegiati.

Uffa.
Parliamoci chiaro, se voglio vedere video di Adolescent Sex vado su pecorine.net e magari trovo anche scene riprese nei bagni del mio liceo… però il sito si chiama così, ci sarà un motivo, so cosa mi aspetta, se la gente ci va ci sarà un motivo, sennò chiuderebbe.
A me scoccia che tutto questo booty sia anche su YouTube, ecco. Che poi le maestre delle primarie non possono usarlo a scuola, e i genitori fanno una capa tanta ai dirigenti scolastici, i quali poi non capendo niente di educazione alla Cultura Digitale (normale ambiente di crescita dei minori) impediscono ai docenti di aprire dei blog, di fare le foto e i video e le webtv come una scuola elementare seria dovrebbe fare oggidì, per abitare la Rete.