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Brancolare, bricolare

Una volta scrivevo di getto qui, caro blog, ora c’è Facebook, come saprai.
L’argomento è sempre quello di molti anni fa, le politiche e le pratiche dell’introduzione delle TIC in classe, in seguito al fatto che l’attuale Ministra ha deciso di rinviare sine die l’introduzione dei testi scolastici elettronici a scuola, ed è chiara a tutti la pressione esercitata dagli editori tradizionali, ed è chiara a tutti la miopia della Ministra.
Qui tutta la discussione, questo il mio commento vagabondo alla tematica della sperimentazione in classe.

Abbiamo attraversato questa discussione così tante volte, su bacheche su forum sui commenti di un blog qua o là su piattaforme e-learning sui social forse in mondi 3D, abbiamo spesso avuto posizioni discordanti, che ormai è chiaro a tutti che siamo qui tutti al di là del contenuto. Parliamo come vecchi amici al bar, io sono il più giovane dal basso dei miei quarantasei anni, capirai, siamo incorreggibili. Non cambieremo idea. Quindi posso continuare. Sperimentare è fare per fare, sì. Non è approccio scientifico, non formulo ipotesi da falsificare, gioco piuttosto con le cose, bricolare. Se il bambino sta fermo non mescolerà mai giallo e blu, il verde non nascerà come attività manipolatoria. Aggiungo brancolare al bricolare, guarda, per indicare proprio quell’esplorare (non è cieco: ci vede benissimo, ma è buio) della nella materia, degli incastri, delle procedure. Noi abbiamo imparato il computer (non so cosa vuol dire) sperimentando, senza manuali d’istruzione. I bambini uguale. La scuola vuole il manuale. Non vuol farsi carico di una quota di autoapprendimento, tentativi ed errori, avere il coraggio di sbagliare così la prossima volta sbaglia meglio, imparando. E parlo della scuola, eh, dell’organizzazione lavorativa con la sua storia, perché il problema qui va risolto a livello di bosco, non di alberi. Io non formo insegnanti, io formo cittadini. Poi quei professionisti della formazione sapranno con la loro intelligenza e visione piegare gli strumenti e i punti di vista che io offro loro. E a sua volta la scuola è un albero in un bosco chiamato società, attore sociale ratificato incaricato come un Eroe di portare a termine la sua missione di inculturazione, a fornir cittadini armoniosi alla maggior età, che io vorrei peraltro critici e consapevoli, potenti e autonomi. Questo anche per uscire dalla visione strumentale delle TIC, che ogni tanto fa capolino in noi. Perché tutta la scuola vive in un mondo profondamente mutato, tutte le pratiche scolastiche vivono dentro una scuola chiamata come organizzazione PA a mutare, le pratiche didattiche a loro volta non possono non tenere in considerazione i nuovi modi di abitare il pianeta, dal punto di vista del reperimento informazioni e narrazioni alle nuove grammatiche dell’espressione di sé permesse dalle TIC. Con la carenza di digitale di cui parli tu forse riesci ancora a fare bene alcune cose didattiche, ma non fai buona scuola. Il digitale non è l’Aiutante della Storia di quell’Eroe qui sopra, è contesto e circostanza dell’enunciazione, è linguaggio dentro cui i personaggi vivono, abitano. Introdurre dispositivi a scuola non è sperimentazione didattica, attenzione, è semplicemente allestire una scena naturalisticamente ispirata alla realtà, dove come sappiamo il docente deve essere semplicemente un regista dei flussi narrativi in entrata e in uscita nel gruppo classe, accorto e lungimirante, indipendentemente dalla fonte di provenienza dei flussi, esseri umani o depositi di conoscenza su ogni tipo di supporto disponibile. E i supporti oggi non sono più soltanto i libri, per tornare a noi. Sperimentazione avviene nel provare a piegare gli strumenti, senza sapere bene come. Come una maestra che usa Powerpoint per fare un cartone animato, piegando lo strumento a qualcosa per cui non era stato progettato, magari senza rendersene conto. Ai bambini non insegni powerpoint, insegni a fare un reportage sulla centrale idroelettrica. E *mentre* fanno il reportage, imparano powerpoint. * Mentre* la maestra progetta la didattica di scienze umane, utilizza gli strumenti. *Mentre* la scuola organizza la propria vita, impara le tecnologie disponibili per migliorare la propria efficienza come macchina organizzativa, e la propria efficacia nel provvedere a insegnanti e discenti il miglior AMBIENTE orientato all’apprendimento, e questo ambiente in tutti i secoli credo si sia pensato potesse essere migliore quanto più nutrito di dispositivi per supporto memoria, esplorazione del mondo, espressione di sé, pratiche d’insegnamento coinvolgenti e stimolanti. Le TIC vanno messe lì, come vedi, per mille motivi. Ma soprattutto perché vanno abitate, per poter dire di abitare il mondo. Messe subito nelle classi e negli uffici, forse brancolando, così la scuola asssomiglia al mondo vero.

Come restare sempre indietro un giro

Aggiungo solo una cosa: la frase finale “la priorità è una sola: fibra più WiFi” è sacrosanta. Poi le lavagne possono essere realizzate con sistemi artigianali vd. Wiiboard o simili, al costo di 100€ anziché 2000, e vanno promosse iniziative ministeriali per l’acquisto da parte di insegnanti e studenti di ebook reader (diciamo 50€) e di tablet (diciamo 150€). Poi vanno promossi i testi scolastici in formato ebook, fatti bene, non vendendo pdf.
E prima di tutto questo servirebbe una formazione agli insegnanti in grado di renderli banalmente Cittadini digitali, e conseguentemente insegnanti moderni.

Anni fa al Cefriel montammo una delle prime lavagne interattive arrivate in Italia. Dopo qualche anno la sostituimmo con uno schermo LED. Non so più nemmeno dove l’abbiamo messa. Sono anni che non la usiamo più.
Una mia amica fa l’insegnante elementare. Mi dice che nei prossimi giorni le daranno una di queste lavagne. In aula non ha WiFi né una connessione fissa. Hanno alcuni PC connessi in rete solo in una stanza della scuola. Però danno loro la lavagna.
Ricordo quando oltre dieci anni fa assistetti ad una riunione con l’allora ministro dell’istruzione Berlinguer che voleva a tutti i costi dare la connessione ad Internet “ai miei insegnanti”. Lo disse con il cuore. E ricordo la penosa risposta di uno dei capitani della nostra industria ICT che ne sapeva meno del ministro e che proponeva come soluzione delle ciofeche inusabili.
Passano gli anni, nulla cambia. Siamo sempre un giro indietro. E lo siamo perché ciò che determina le nostre azioni come paese è un misto di incompetenza, malafede, stupidità e insipienza.
L’ho scritto varie volte e ripetuto anche a Francesco Caio nei giorni scorsi. Per la scuola la priorità è una sola: fibra più WiFi. Dopo parliamo del resto.

Si è rotta la scuola

«La nuova cultura», scrivevo qualche giorno fa  deve essere ancora codificata e distribuita dal centro (quello che la fa) alle periferie (quelle che devono imparare a viverci dentro)».
Il problema è che il centro, oggi, se vogliamo, non è più l’Istituzione o l’industria culturale, ma quello spazio indefinito in cui l’innovazione lavora a ritmo incessante per cambiare il modo in cui la nostra cultura sta funzionando.
E l’Istituzione, il sistema educativo che dovrebbe insegnarci anche la contemporaneità, non fa in tempo a sistematizzare e distribuire le nuove competenze di information literacyche oggi fanno parte dell’alfabetizzazione di base.
Io cito spesso un video famoso che in poche parole descrive benissimo la situazione: «stiamo formando studenti per lavori che ancora non esistono e che useranno tecnologie che non sono ancora state inventate». Brutale, ma efficace.
Negli Stati Uniti, però, nel mondo dell’istruzione stanno accadendo parecchie cose. Intorno ai MOOC (ne avevo scritto tempo fa sull’Espresso di carta) si sta sviluppando una discussione molto interessante.
Le conclusioni sono lontane, ma c’è abbastanza da leggere. «Il nostro sistema educativo», scrive Neeven Jain su Forbes, «magari non è rotto, ma sicuramente è diventato obsoleto». E propone un lungo ragionamento su cui vale la pena riflettere.
Poi c’è un altro pezzo interessante, di Paul Champion. Anche Paul frantuma il bersaglio su una riflessione più urgente e necessaria. «È sorprendente», scrive citando Daphne Koller, «come ancora stiamo insegnando agli studenti le cose nel modo che abbiamo usato negli ultimi 300 anni».
Leggi tu stesso e fatti un’idea: The End of Education As We Know It.
Io non ho un’opinione definitiva, ma posso metterci i miei due centesimi. Resto convinto che, su buona parte del cambiamento che stiamo vivendo, la responsabilità della comprensione torni sull’individuo. E non è facile.
Ma è ancora meno facile se pensiamo ai giovani e a come vengono formati. Difficilmente il sistema scolastico e universitario li formerà sulla cultura digitale e ancor più difficilmente li renderà competitivi nel mondo del lavoro del XXI secolo.
Il rischio è che alla fine si crei un forte dislivello tra una maggioranza mediamente disinformata e coloro che hanno una famiglia alfabetizzata (che sa quindi istruirli e dar loro la giusta mentalità) o che incontrano qualche insegnante illuminato.
C’è un problema profondo di design strutturale del sistema educativo in un mondo che è cambiato e continuerà a cambiare. Ma l’istruzione resta cruciale e probabilmente anche in Italia -guardando a ciò che accade negli USA- si dovrebbe provare ad alzare l’asticella del dibattito e, magari, ricominciare a investire sui giovani cambiando anche qualche paradigma.

La scuola vista da Londra, Marte.

Mi capita, non abbastanza spesso, di prendere un aereo per andare a vedere come altri cercano di rispondere alle domande che mi faccio, più o meno quotidianamente. In questo caso la domanda è: “di che tipo di scuola hanno bisogno le mie bimbe?”.
Ho scelto il BETT a Londra, formerly known as the British Educational Training and Technology Show, ovvero una fiera sulla tecnologia nell’education inaugurata nel 1985 (millenovecentoottantacinque): un posto strano, dove ci sono migliaia di scuole che acquistano (ACQUISTANO) tecnologia, dove i responsabili scolastici dei VLE (Virtual learning Environment) cercano nuove soluzioni, dove le Università si confrontano attivamente sui MOOCS.
Si, lo so, il paragrafo precedente non è semplice per un lettore italiano: sarà che noi siamo abituati alle note scritte a mano sul diario, alle bacheche, al flauto, al laboratorio di informatica (per i più fortunati) dove si impara a schiacciare una tastiera. Sarà che da noi gli strumenti sono salvifici, e basta installare una LIM (la lavagna digitale) per sentirsi proiettati nel futuro; sarà che troppi dirigenti pubblici ancora pensano che comprare un po’ di tablet conferisca un titolo di modernità.
Un rappresentante del Governo inglese, certo non giovane ma straordinariamente competente, ha detto con chiarezza che l’education è la priorità: e ha detto che occorre formare gli insegnanti per avvicinarli anche ad un mondo del lavoro dove già si usano nuove tecnologie e nuovi modelli. Poi è arrivato un giovane, straordinariamente competente, che si occupa di valutare l’adozione di nuove tecnologie in tutti i settori pubblici del Regno Unito, ed ha intrattenuto la platea sui modelli che rendono più efficienti le attività di apprendimento.
Sia chiaro, non è la tecnocrazia ad affascinarmi: una buona scuola è fatta di bravi maestri, appassionati, dedicati ai loro studenti. Però, spesso, la passione è direttamente proporzionale all’attenzione che uno riceve, agli strumenti che vengono messi a disposizione, al riconoscimento sociale. Ecco, al BETT tutto è dedicato all’insegnante, metà dell’audience era fatta da insegnanti venuti per confrontarsi, imparare, chiedere; e non in una triste aula magna con un burocrate ministeriale, ma in un confronto con grandi innovatori, studiosi, professori.
Io non avevo mai visto una responsabile ICT di una scuola, peraltro donna e poco più che trentenne: una che ci ha spiegato come tutte le attività suBlackboard inaugurate una decina di anni fa siano oggetto di una profonda revisione, che segue una metodologia oramai consolidata di confronto con il corpo docente, gli studenti e le novità sul mercato. Per inciso ha detto, sorridendo, che la sua maternità ha determinato un aumento del lavoro per tutti i colleghi, determinati a partire quanto prima con strumenti più efficienti.
Poi ho incontrato anche qualche rockstar, come Daphne Koller di Coursera, una professoressa di Stanford che ha portato a frequentare corsi universitari online 2,5 milioni di studenti da 123 paesi del mondo. Ecco, Daphne ha affrontato, molto bene perché è tostissima, un vivace contraddittorio con insegnanti, professori, digital manager di università, maestri-blogger: gente preparata, consapevole, contemporanea.
Ecco, quello che mi colpisce è la normalità, la consuetudine con queste materie: il BETT è parte di un sistema, non è un folkloristico raduno di visionari ma un passaggio obbligato per l’attività di migliaia di formatori. L’industria inglese dell’education è florida, le scuole investono, il dibattito pubblico è continuo: con tutte le posizioni, contraddizioni e difficoltà che il tema comporta, la tecnologia non risolve ma, se ben usata, aiuta.
La normalità: è normale per dirigenti pubblici venire qui, per le scuole adottare sistemi gestionali moderni, per i bambini usare le tecnologie che li circondano. E ne ho visti molti di bambini, ovviamente quelli delle scuole più capaci e più attente: venivano a ritirare dei premi, tutti felici per aver creato la migliore applicazione, un software utile alla comunità. Un po’ di demagogia, un po’ di competizione tra scuole, ma tutto mi sembrava comunque stupendo, ubriacante; lo so, poi riflettiamo anche sul modello sociale, sulle scuole elitarie, sulle sperequazioni etc. etc. Ma davvero possiamo continuare a non fare nulla, procrastinare, prendere tempo? Non dovremmo, forse, prendere il (tanto) buono che c’è altrove e trovare un senso nostro, riflettendo sui rischi di confondere “educazione” e “conoscenza”, sui rischi di omologazione dell’insegnamento, sulle troppe spinte alla creazione di fabbriche in batteria di iperspecialisti per le aziende?
Non ho risposto alla mia domanda, ma ho qualche idea in più: io vorrei per le mie figlie insegnanti appassionati, consapevoli del mondo che sarà e capaci di prepararle alle novità. Vorrei che insegnassero loro il meglio del passato con modalità e strumenti contemporanei, e vorrei che una delle mie figlie mi dicesse, sognante, “io da grande voglio fare la maestra, come mia nonna”.
Perché mia madre è stata una straordinaria maestra, che a tre anni dalla pensione, una decina di anni fa, mi chiese di comprarle un computer e di spiegarle qualcosa: “posso non capire quello che fanno a casa i miei studenti?” Sarebbe venuta volentieri con me tra gli stand del BETT, a farsi fermare ogni dieci metri da venditori di software che, speranzosi, chiedono “Tu fai il maestro, vero?”.

Agenda per la scuola

Riflessioni di Mariangela “Galatea” Vaglio, da L’Espresso.

Copioincollo integrale.

Ecco, sì, visto che va di moda, lo fanno tutti, sarei tentata di metterla on line anche io una bella “Agenda” delle cose che secondo me sarebbero proprio da fare a scuola, e dire «Queste sono le idee, chi ci sta a realizzarle, con me.» Purtroppo sono cose che può fare solo Monti perché è Monti, e ho anche qualche dubbio che poi pure lui non riuscirà a realizzarne qualcuna delle sue, anche vincendo. Perché l’Italia è quel paese strano dove prima le elezioni tutti si dicono pronti a cambiare, e poi appena le elezioni sono passate, vinte, perse o pareggiate che siano, c’è sempre qualcosa di più importante, di più urgente, di più, e le idee van messe in soffitta, che possono tornare buone per il prossimo giro.
La prima idea riguarda noi insegnanti, e questo benedetto fatto dell’orario di lezione, che i più confondono con l’orario di servizio, pensando che noi lavoriamo solo 18 ore, cioè quelle che passiamo fisicamente in classe. Io vorrei un cartellino da timbrare, come gli altri impiegati. Così tutte le ore di programmazione, di studio e di ricerca che faccio a casa adesso finalmente risulterebbero da qualche parte. Certo, mi ci vorrebbe un ufficio dove stare, o almeno una scrivania, ed un pc collegato alla rete con una adsl non pagata da me. Per lo Stato sarebbe forse una bella botta economica dover ristrutturare gli edifici per trovare questi luoghi di lavoro per i docenti, e anche i pc e i router in grado di supportare tante connessioni. Ora risparmia parecchio, con questa bella trovata, lo Stato, ma per noi insegnanti queste ricorrenti offese di essere dei privilegiati e degli scansafatiche costano ancora di più, in termini di prestigio sociale, e alla lunga tolgono la voglia di impegnarsi a farlo bene, il nostro mestiere, anche a quelli che ci terrebbero assai. Sono cose che ti logorano, queste continue accuse e questa diffidenza nei nostri confronti. Per cui, dateci il cartellino e una scrivania per lavorare a scuola fino alle cinque del pomeriggio. Così, dato che ci siete, mentre siete là a ristrutturare per creare i nostri uffici, date anche una controllata alle mura delle scuole, ai tetti, ai solai e ai controsoffitti, che quasi mai sono a norma e rischiano di caderci addosso. Un po’ di sicurezza per tutti, visto che noi ci lavoriamo ma i vostri figli ci studiano, dentro quei muri.
La seconda idea anche questa è molto semplice: vorrei delle classi di venti alunni al massimo, quindici se per caso dentro alla classe ci sono ragazzini certificati, o con problemi comportamentali. Sembra strano, eh, ma quando hai venti alunni da seguire, e non 26, 29 o 30, viene più facile seguirli meglio. Si possono fare, per esempio, più giri di interrogazioni, più compiti, verificare più spesso chi non ha capito e cosa. Si riesce anche ad instaurare con ciascuno di quegli alunni un rapporto più personale (non “personalizzato”, più personale proprio, nel senso che hai più tempo per parlare con loro, ascoltarli, capirli) e quando un ragazzino si sente così, ascoltato, pare impossibile ma rende di più. Anche qua, ci vorranno vagonate di soldi, perché il numero delle classi salirà, bisognerà assumere più docenti, forse anche costruire qualche scuola nuova. Però, non c’è alternativa: solo un cretino può pensare che con sei ore di una materia in una classe di 30 alunni si possano fare le stesse cose che si fanno con sei ore della stessa materia in una classe di venti. Quindi siamo sempre là, purtroppo le nozze non si fanno con i fichi secchi, e per avere una buona qualità dell’istruzione bisogna anche trovare il modo di finanziarla.
In cambio, però, potremmo stabilire, per esempio, che i docenti fanno solo i docenti, e che l’insegnamento non è un lavoro part time per gente che fa soprattutto altro. Vuoi fare il professionista? Benissimo, allora la scuola ti fa un contratto a progetto, mirato, per un tot numero di ore. Ma la cattedra di ruolo la tiene solo chi di mestiere fa l’insegnante e basta, perché se hai una professione, uno studio, una azienda da seguire non puoi trovare il tempo di prepararti bene ogni santo giorno per quei poveri ragazzini che ti ritrovi per alunni. E quei ragazzini lo meritano, invece.
Altra cosa è che si potrebbe stabilire che ogni tot anni anche gli insegnanti di ruolo devono passare degli esami e delle verifiche, e magari produrre dei testi, delle tesine che dimostrino cosa fanno a scuola e quali tecniche o scelte didattiche hanno fatto nella loro esperienza di insegnamento; e stabilire che nel corso dell’anno i dirigenti dirigono davvero, cioè controllano i furbi, quelli che presentano certificati di malattia assurdi stilati da medici compiacenti, in classe vegetano come funghi sulla cattedra. Se per un tot di tempo hai valutazioni negative e se poi risulta pure che non ti sei aggiornato e non ti ricordi i fondamentali della materia che dovresti insegnare, via, vai a fare altro.
Ah, i corsi di aggiornamento, altra piaga dolente. Io vorrei anche un po’ di controllo qua, perché è un guazzabuglio in cui si trova di tutto. Oggi basta che tu li frequenti per avere qualche tipo di bonus, e comunque se ci vai sembra che tu sia un docente che ci tiene, e se invece ne salti qualcuno no. Ma anche lì, ci sono tantissimi corsi di aggiornamento che sono fuffa pura, tenuti da personale dalle competenze non ben chiare e su argomenti anche abbastanza idioti. Io li dividerei in corsi fondamentali, che riguardano non solo la didattica ma proprio la materia di insegnamento specifica, magari con tanto di esame finale per vedere se chi lo ha frequentato ha seguito davvero o ha fatto solo atto di presenza. Basta però ai corsi “onnicomprensivi”, destinati a docenti di ogni ordine, grado o materia. No, specifici: quelli per chi insegna matematica alle medie, quelli per chi insegna inglese alle superiori e così via. E ci aggiungerei anche dei bei corsi di lingua inglese gratuiti per tutti, con lezioni di lessico specifico mirate, perché il Ministero ha detto che alcuni di noi dovrebbero saper fare lezione in lingua, e questo è bello e giusto, però non può pretendere che la lingua uno se la debba imparare o rinfrescare spendendo centinaia di euro privatamente.
Passiamo alle valutazioni degli alunni. Pare che gli INVALSI diventeranno il metodo principe. E su questo, sinceramente, ho qualche dubbio. Perché i test INVALSI possono andare anche bene, purché siano fatti meglio – molto meglio – di quelli di questi anni, ma vanno integrati con altro. Intanto non si può farli solo di italiano a matematica, allora, ma di tutte le materie, e per tutte intendo tutte tutte. Poi fa ridere pensare che solo sulla base dei risultati degli INVALSI si pensi di stabilire se un docente è bravo, ed eventualmente premiarlo con bonus economici. Perché gli INVALSI non tengono conto dei livelli di partenza di una classe, per esempio, e anche del fatto che il lavoro di un docente spesso può anche non avere ricadute precise e quantificabili nell’immediato, e che poi la sarabanda dei docenti in più anni può rendere impossibile identificare chi poi abbia materialmente svolto il lavoro. Soprattutto, poi, gli INVALSI non tengono conto che un ragazzino o una classe che sa rispondere bene agli INVALSI potrebbe anche essere semplicemente una classe di brave scimmiette ammaestrate. Quindi, ok, facciamo gli INVALSI, se volete, ma affianchiamoli ad altri tipi di prove, che tengano conto dei programmi reali svolti nella classe e somministrate nel corso di tutto l’anno: prove di grammatica, problemi di geometria, test di traduzione dalle lingue straniere.
C’è poi da affrontare un altro grande problema: come trattiamo chi non ce la fa. Perché se una scuola vuole funzionare seriamente non va invocata la meritocrazia, parola che io non amo molto, ma la più banale serietà: a fine anno non tutti possono essere sempre promossi con un pietoso sei. E chi non passa, come lo trattiamo? Innanzitutto bisognerebbe, e questo si fa già nella maggioranza dei casi, tentare di evitare la bocciatura. Ma per farlo bisogna poter fornire ai ragazzi in difficoltà delle ore di recupero, dedicate solo a loro. Il problema è che questo si può fare sempre meno, specie ora che abbiamo visto tagliare i fondi di istituto, che servivano proprio a questo tipo di attività. Perché se un docente deve fare un corso di recupero, magari pomeridiano, per un gruppo di alunni, bisogna che ci siano, molto banalmente, i soldi per pagare gli straordinari che fa, e questi oggi non ci sono più. Anche qua, rendiamoci conto una buona volta che non si può avere scuola di qualità senza spendere soldi, perché sarebbe come pretendere di comprarsi una Ferrari senza avere il becco di un quattrino.
Altro problema è che la scuola ha spesso degli orari che non sono più rispondenti alle esigenze delle famiglie di oggi E’ nata quando le famiglie erano formate da una mamma ed un papà, papà lavorava e mamma stava ai fornelli, per cui al pomeriggio ai figli ci badava lei. Famiglie così non ce ne sono più, anche perché se non ci sono almeno due stipendi da lavoro a tempo pieno a fine mese non si arriva. Che facciamo? Proviamo a pensare una scuola che è aperta anche al pomeriggio? Sì, certo. Ma non si può risolvere il problema dicendo che i docenti fanno 40 ore a settimana tenendosi i ragazzi anche al pomeriggio, perché sennò quando è che preparano le lezioni, correggono i compiti, eventualmente tengono corsi di recupero per chi va male? Quindi bisognerebbe assumere del personale che garantisse lo svolgere di attività pomeridiane, tipo un doposcuola assistito per fare i compiti, o anche dei corsi gratuiti specifici per piccoli gruppi. Potrebbe essere un canale per inserire i giovani aspiranti docenti, che potrebbero (ovviamente con contratti regolari e stipendio dignitoso) farsi le ossa prima di diventare stabilmente di ruolo, imparare a trattare le problematiche degli alunni, farsi una idea di come funziona una scuola, senza essere “buttati” subito in trincea come invece è capitato a noi, ma potrebbe essere anche uno sbocco lavorativo per chi non è proprio un docente, ma magari solo un educatore generico, che avrebbe compiti di supporto.
Voi mi direte: ma che schifo, in questa agenda manca il digitale! Da te non ce lo saremmo aspettato mai! Ecco, e invece aspettatevelo. Perché io sono favorevolissima che nelle scuole si insegni agli alunni ad usare il computer, ci mancherebbe. Ma credo anche che spendere vagonate di soldi per la sola vuota digitalizzazione senza prima mettere mano a tutto quanto ho elencato sia come pensare che se su una catapecchia vecchia do una dipintina ai muri fuori e ci metto una porta blindata di ultima generazione si trasformerà per incanto nel palazzo di Cenerentola. Mandate al diavolo e accusatemi di essere retrograda, ma per me la scuola di qualità si può fare persino solo con una lavagna e con un gessetto. Se imparano bene le tecniche per fare i riassunti, scrivere un testo, contare e risolvere problemi, poi ad usare l’ultimo cazzabubbolo informatico ci mettono due secondi. E allora non sono contraria agli investimenti sul digitale, ma io prima lavorerei sulla formazione degli insegnanti, investirei su quello: perché a fare lezione non è mai il tablet, ma la persona che lo tiene in mano.
Tutto questo, naturalmente, potrebbe funzionare solo ad un patto: che oltre alla scuola deve cambiare, e anche parecchio e profondamente, la società che le sta attorno. Perché si può costruire una scuola efficientissima, che sforna, come già fa ora in molti casi, alunni competenti e bravi, ma se poi l’Italia attorno continua a non valorizzarli perché assume il cugino scemo del capo anche se ha preso la laurea comprandola sottobanco, e al ragazzo preparato ma privo di appoggi offre solo un contratto precario, tutta questo sforzo sarà solo un enorme spreco: i ragazzi formati e preparati scapperanno all’estero, e tutti i soldi spesi per la loro formazione frutteranno ad altri brevetti e scoperte scientifiche, mentre noir resteremo al palo. E giustamente, perché il male che ci si cerca, come diceva mia nonna, non è mai abbastanza.
Insomma, io la mia “Agenda Vaglio” ce l’ho, e come le altre agende in circolazione, lo so che è in fondo un libro dei sogni. Perché nello scriverla sono consapevole che per metterla in pratica ci vogliono tre cose: una ferrea decisione nel mantenere fede agli impegni, molta serietà e anche tanti, tanti, tanti soldi. Delle tre, lo confesso, tutto sommato i soldi sono quelli che reputo più facili da trovare, in qualche modo, perché al mondo, e non solo in Italia, quando ci sono determinazione e serietà i finanziamenti poi da qualche parte si trova il modo di farli venire fuori.
Sono le prime due cose che mi paiono assai difficili da reperire, perché noi siamo il paese dove scrivere una agenda è facilissimo, sono buoni tutti: ma quando poi bisogna metterle in pratica e stringere i denti per vedere i frutti, eh, c’è sempre qualcosa di più urgente, e poi anche di più facile ed immediato, che dà più soddisfazione.

Le scuole digitali, subito

Un articolo sulle difficoltà del progetto nazionale per la Scuola digitale, l’ho trovato su Agenda digitale
Subito dopo incollo le indicazioni del ANSAS del sito ministeriale Scuola-digitale per l’iniziativa Cl@assi2.0 (e smettiamola con questa @ nel nome, so nineties), giusto per dare un’occhiata alle tendenze diffuse più aggiornate rispetto alle metodologie didattiche mediate, e valutare appieno la distanza, avere orizzonti più ampi, osare. Perché l’azione di Cultura digitale tutta (dalle competenze digitali in classe per una cittadinanza piena, alle elementari fome di alfabetizzazione, alla riduzione del digital divide con banda ultralarga, all’adozione di dispositivi mobili connessi, alla ideazione e promozione di format di narrazione adeguati al contesto tecnologico e mediatico dell’apprendimento, all’organizzazione scolastica) sulla Scuola è necessaria e impellente, niente meno.
Scuola digitale ostacolata da classi senza internet e dal caos sui nuovi libri

 di Martina Pennisi

 Il ministero dell’Istruzione si accorda con le Regioni per attrezzare gli istituti. Le aule connesse però sono ancora troppo poche. E manca un modello condiviso di editoria digitale

Mentre procede il piano del Miur sulla Scuola digitale, emergono tutti gli ostacoli da superare per raggiungere gli obiettivi. In particolare la lacuna fondamentale sono le connessioni internet nelle classi, come evidenzia uno studiodell’Università La Cattolica. E c’è ora il caso di 3.800 scuole che, per motivi economici, perderanno la connessione all’Spc dal 20 ottobre. Regna inoltre, ancora, la confusione sulla nuova editoria scolastica digitale.

Gli ultimi passi avanti

Il tutto mentre nei giorni scorsi c’è stata una storica stretta di mano con 12 Regioni e 40 milioni di euro messi sul piatto: il ministero dell’Istruzione presieduto da Francesco Profumo spinge sulla digitalizzazione della scuola, in attesa che l’argomento faccia capolino all’interno dell’Agenda digitale. Il decreto sulle norme volte ad aggiornare il Paese dal punto di vista tecnologico e dell’innovazione verrà presentato a fine mese, come annunciato dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera in occasione della presenza del rapporto sulle startup. Profumo ha cominciato a muoversi nell’area di sua competenza a fine dicembre 2011, lanciando il progetto La scuola in chiaro e rendendo disponibili i recapiti e le caratteristiche principali di 11mila scuole italiane. In luglio è stata la volta della presentazione del portale UniversItaly, per aggregare le informazioni sugli atenei nostrani. 
Il primo giorno dell’anno scolastico 2012/2013 è stato occasione per annunciare lo stanziamento di 31,836 milioni di euro per portare un computer in ogni classe delle medie (34.558) e superiori (62.600) e l’intenzione di consegnare un tablet a ogni insegnante del 64,5% delle scuole di Puglia (599 istituti), Campania (712), Sicilia (584) e Calabria (233). La stretta di mano odierna con le regioni del nord, che contribuiscono con 16 milioni, vede Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Toscana, Veneto e Umbria spendersi per portare nelle aule 5.906 lavagne interattive, fornire agli studenti 77.073 tablet, realizzare 2.764 Cl@assi 2.0 (una lavagna interattiva, un device per alunno e per insegnate, accesso alla Rete e a contenuti didattici digitali) e 17 Scuole 2.0 (produzione digitale di processi e contenuti, orari scolastici compresi). Rimangono fuori solo Sardegna, attiva autonomamente con il progetto Scuola Digitale, Veneto, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta.

I problemi

A fronte di un tale, e (pro)positiva, convinzione sul dispiegamento delle macchine sono due le valutazioni da fare: prima di tutto quella relativa alle connessioni a Internet degli istituti e, soprattutto, delle aule dei singoli istituti. E in seconda battuta sulla formazione dei docenti, che dovranno per forza di cose imparare a dialogare con i dispositivi di nuova generazione e trovare uno spazio agli stessi nel processo didattico. Il primo àmbito non è di competenza diretta del Miur: trattasi di cablaggio degli edifici pubblici, che è già stato menzionato fra le priorità della più ampia agenda. Di lavoro da fare ce n’è, a fronte di un 7% delle scuole con tutte le classi in grado di navigare e un 10,96% che si connette solo da alcune aule, parlando delle medie, e un 7% circa delle superiori dotato di collegamento wireless. La percentuale degli istituti cosidetti secondari con accesso alla Rete in tutte le classi sale al 13%. I dati sono contenuti in una ricerca dell’Università Cattolica di Milano del 2009/2010, commissionata da Scuola digitale. L’ufficio statistico del Miur accorpa tutti gli istituti e individua un 73% di scuole connesse, anche solo in biblioteca e segreteria, e un 33% in cui il segnale arriva nelle aule. L’Adsl è presente nel 44,8% dei casi. Riavvolgendo il nastro al Programma per l’informatica e la telematica voluto da Luigi Berlinguer, correva l’anno 1998 e si tratta dell’ultimo sforzo significativo prima di quello in esame, si parte dal 39,4% degli istituti collegati. Mentre ora si apprende che 3.800 scuole perderanno internet il 20 ottobre. Lo rivela una nota della Direzione generale per gli studi, la statistica ed i sistemi informativi del Miur; comunica la fine del progetto Spc scuole: “Ridotti i fondi stanziati per un’iniziativa che è interamente a nostro carico”. “Spc è un progetto finito e riguarda solo servizi in più, di segreteria. Non c’entra con la didattica”, ribatte Giovanni Biondi al nostro sito. E’ il responsabile di questi temi per il Miur. “Nell’Agenda prevediamo un piano di cablature e connessione delle scuole”. Altre scuole in digital divide dovrebbero essere coperte dal piano nazionale banda larga del ministero allo Sviluppo economico (ora in fase di approvazione; risorse comunitarie di 1,08 miliardi di euro che serviranno principalmente a dare banda larga di base alle case).
La variabile internet è determinante, come tiene a sottolineare il professore dell’Università meneghina Bicocca Paolo Ferri e consulente per l’innovazione del Miur, perché “senza Internet, senza la banda larga le macchine non servono. Il cablaggio di scuole e uffici pubblici deve essere la priorità assoluta”. L’approccio di Profumo, “che si è trovato senza soldi e al cospetto di una situazione a macchia di leopardo”, è da considerarsi positivo in termini di “attenzione al tema” e in un contesto in cui non si assiste a un “intervento strutturale da 12 anni”, la riforma Berlinguer appunto. La formazione dei docenti è il secondo aspetto su cui è necessario concentrarsi: “Qualcosa è già stato fatto, 4-500mila insegnanti sono stati formati in questi anni, ma bisognerebbe permettere l’incentivazione contrattuale nei confronti di chi si dimostra ricettivo”. “Se non”, provoca Ferri, “introdurre una carriera dell’insegnamento, ma la Cgil non lo permetterebbe mai”. Con la stessa urgenza, passando al terzo intervento auspicabile, bisogna “occuparsi dei contenuti”. Fra le voci evidenziate dal Miur è presente quella dedicata all’Editoria digitale scolastica e, secondo quanto stabilito da Tremonti nel 2009, i libri pubblicati dal 2011/2012 devono essere misti. Manca però un modello comune agli editori: negli Stati Uniti, spiega Ferri, “il libro digitale viene venduto al 50% del prezzo di copertina con funzioni aggiuntive”. Così facendo si è anche superata la riluttanza dei medio piccoli, il 40% del nostro mercato, che temono di rimetterci economicamente nella transizione al digitale. Profumo ha messo a disposizione 10mila euro a progetto per una ventina di spunti, ma “c’è il problema dei diritti d’autore da affrontare: il bando prevede che i contenuti realizzati siano di proprietà della scuola e possano essere sfruttati da terze parti”. Sulla possibilità che siano gli insegnanti a pubblicare i libri, l’iniziativa si chiamaBook in progress, Ferri è abbastanza scettico, “è uno scenario utopico e gli editori sono troppo legati al loro business tradizionale, non rendendosi conto che nell’arco di 5 o 6 anni i contenuti digitali saranno la maggior parte”. Così si spiegano anche alcune disavventure su cui, con il nuovo anno scolastico, si cimenta l’ironia dei blogger.
L’aspetto che desta meno preoccupazione è quello legato alla penetrazione dei dispositivi: “Hanno un costo ormai ridotto e l’80% dei genitori italiani ne possiede uno. E secondo i dati Istat, la percentuale degli insegnanti ad avere il computer è pari al 95%”. Oltre a essere una buona notizia in termini di alfabetizzazione digitale, quantomeno potenziale, potrebbe essere il punto da cui partire per organizzare una rivoluzione strutturale con le poche risorse economiche disponibili. Secondo un dossier de Lavoce.info servirebbero 10 miliardi di euro per portare la didattica nostrana al livello di quella britannica, banda larga ovunque, lavagne interattive e quattro o cinque computer connessi per aula. Una soluzione intermedia, spiega Ferri, dovrebbe partire dal “cablaggio delle scuole supportato dallo stato”, passare per “agevolazioni per le famiglie che investono in tecnologia”, tenendo conto della buona diffusione di partenza; e “trovare un accordo solido con gli editori”. La rondine di questi mesi non fa (ancora) primavera, ma ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Le altre sono da ricercarsi nel decreto di fine settembre
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Da Scuola-digitale.it

Per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal progetto Cl@ssi 2.0, che ha, a livello internazionale, dei “progetti gemelli”- in Spagna il progetto Escuela 2.0 e in Inghilterra il progetto CAPITAL – è necessario tenere presente alcune tendenze diffuse negli ultimi anni nell’ambito dei servizi e degli strumenti a supporto dell’apprendimento. Questi infatti si presentano come applicazioni di facile uso che non richiedono specifiche competenze e rendendo quindi indipendente l’utente. Tra queste tecnologie rientrano anche le Lavagne Interattive la cui rapida diffusione ha dimostrato l’alto  potenziale delle ICT nel guidare il cambiamento degli ambienti di apprendimento.
Terminati i processi di diffusione delle tecnologie su larga scala a scuola, anche a livello europeo, è urgente verificare se e quanto le tecnologie siano state integrate all’ambiente di apprendimento e se la loro presenza abbia apportato delle modifiche/cambiamenti alle metodologie didattiche al fine di sostenerne  il processo di stabilizzazione.
Alcune tra le tendenze diffuse (EU Digital Agenda, Marzo 2010, 2020 Vision – Report of the Teaching and Learning in 2020 Review Group) rivelano che:
  • I modelli pedagogici, costruttivista e sociocostruttivista,  includono le ICT come strumenti per potenziare la didattica tradizionale che privilegi un approccio attivo, compiti aperti che mirino alla riflessione sul processo ed alla personalizzazione dei percorsi di apprendimento.
  • Un ulteriore concetto ormai ampiamente condiviso, anche se ancora poco sperimentato realmente, riguarda il ruolo dell’insegnante che si configura come il punto chiave nel processo di trasformazione delle azioni di apprendimento. La presenza sempre più diffusa e naturalizzata nella scuola da qui a dieci anni delle tecnologie renderà necessario all’insegnante sviluppare e mettere in campo competenze oggi ancora timidamente espresse.
  • Gli spazi dell’apprendimento a livello strutturale probabilmente resteranno immutati, ma la differenziazione dei modelli di apprendimento sarà orientata prevalentemente alla  collaborazione tra studenti e alla personalizzazione dei contenuti/percorsi sia per il modello classe tradizionale che per modelli diversi da questa con il supporto delle ICT  (es. classe diffusa).
  • I vincoli strutturali sono stati superati in questi anni dall’estensione dello spazio classe con ambienti di apprendimento virtuale (VLE) e sistemi di gestione dei contenuti, LMS (Learning Management System), a cui si sono associati strumenti del Web 2.0.
  • Sul fronte contenuti didattici digitali si rileva la produzione di contenuti autoprodotti dall’utente che potrebbe restare la tendenza più diffusa se si trovassero standard descrittivi adeguati.
  • La grande diffusione delle lavagne Interattive Multimediali e di superfici interattive in generale avvierà l’ampliamento del numero di device tecnologici (tablet, netbook, ebook, risponditori…) che orienteranno l’attività didattica sempre più verso la collaborazione.
  • La valorizzazione dell’apprendimento informale sarà un ulteriore fattore chiave. In questa direzione l’uso di giochi, ambienti immersivi e augmented reality  richiederà ulteriori approfondimenti di ricerca per far si che questi vengano considerati come potenziali scenari di apprendimento.
  • Gli esiti di alcuni progetti in paesi europei ed extraeuropei hanno rivelato che la formazione degli insegnanti sia metodologica che tecnologica rivela l’estrema importanza della qualità della stessa e della necessità di identificare nuovi modelli di formazione continua adeguati alle esigenze della popolazione insegnante (OECD – Education at a glance).
  • La presenza diffusa delle nuove tecnologie sia in forma di strumenti (risponditori..etc) che in forma di applicazioni web 2.0 (wiki, blog, contenuti digitali o altro) consente di attivare processi di valutazione degli apprendimenti e di identificare le preferenze degli studenti. L’uso di questi strumenti probabilmente modificherà la valutazione formativa, mentre la valutazione sommativi manterrà un approccio basato sulla misurazione degli apprendimenti a partire da prove oggettive di valutazione (es. OCSE-PISA e INVALSI)
  • Un ultimo elemento chiave da non sottovalutare è il ruolo dei genitori sempre più coinvolti e partecipi nel processo di crescita e formazione dei figli. Questi ultimi si mostrano favorevoli all’adozione di nuovi strumenti.
L’azione Cl@ssi 2.0 intende offrire la possibilità di verificare come e quanto, attraverso l’utilizzo costante e diffuso delle tecnologie nella pratica didattica quotidiana, l’ambiente di apprendimento possa essere trasformato.
La logica del progetto tende a valorizzare l’attuazione di più modelli di innovazione che possano generare un contagio nel territorio anche tra quelle scuole che non partecipano all’iniziativa. In quest’ottica si auspica che si realizzi una casistica eterogenea di modelli di miglioramento nell’ottica dell’autonomia scolastica. In tal senso il processo di miglioramento che il progetto vuole promuovere comprende più livelli, dall’aspetto organizzativo a quello aspetto didattico nella gamma di azioni del processo insegnamento/apprendimento che, a partire dall’analisi dei bisogni della scuola, prevedano l’integrazione delle tecnologie (sia in termini strumentali che metodologici). Il focus non ruota attorno alla tecnologia in senso stretto, ma alle dinamiche di innovazione che può innescare.

Soldini per la scuola digitale

Il Ministro dell’Istruzione Francesco Profumo, annuncia lo stanziamento di 40 milioni di euro per lo sviluppare del piano per la digitalizzazione della scuola. Siglati, inoltre, gli accordi con 12 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria) per il potenziamento e l’implementazione del piano nazionale. I finanziamenti verranno, infatti, sia dal Ministero (24 milioni) sia dalle regioni (16).
Condivisione e innovazione digitale sono i principi alla base dell’azione di Profumo. Gli accordi permetterebbero, infatti, di “condividere le esperienze per costruire un Paese migliore“, portando “al sistema Paese le migliori esperienze realizzate dalle scuole a livello territoriale”. L’obiettivo è offrire a studenti ed insegnanti la possibilità di “imparare e insegnare con l’innovazione digitale“.
I fondi stanziati andranno a finanziare e permettere l’implementazione delle quattro linee d’azione individuate per la Scuola Digitale: Lim, Cl@ssi 2.0, Centri scolastici digitali e Scuola 2.0.
La prima linea d’azione (Lim in classe) riguarda l’introduzione nelle classi delle lavagne digitali, in modo da favorire l’utilizzo di contenuti digitali. La seconda (Cl@assi 2.0) prevede di dotare studenti ed insegnanti di PC o tablet in modo che possano dialogare con la lavagna digitale e accedere alla rete e ai contenuti digitali. La terza linea d’azione (Centri scolastici digitali) mira a collegare tramite satellite le scuole con pochi iscritti in modo che possano continuare ad esistere e, come precisa il Minsitero, senza sostituire l’insegnante con il PC. L’ultima linea d’azione (Scuole 2.0) si propone di utilizzare le tecnologie digitali per trasformare l’insegnamento e le scuole, in particolare per quanto riguarda l’Editoria digitale. Con il progetto “Book in progress”, ad esempio, verranno realizzati, direttamente dalle scuole e dagli insegnanti, nuovi contenuti digitali.

Tablet a scuola, a Pordenone

PORDENONE. Rivoluzione tablet in terza liceo scientifico: la scuola digitale è nel Don Bosco, a Pordenone. Per 20 liceali didattica digitale 2012-2013 avanti tutta già da oggi con la prima campanella. Costo previsto del progetto Sdi, cioè Sistema didattico integrato in collaborazione con l’azienda Kne di San Donà di Piave: 20 mila euro. Pagano il Don Bosco e un benefattore privato che è sponsor dell’impresa.
E-book, tablet, lavagna digitale e la classe di viale Grigoletti diventa i-cloud, con la “nuvola” a portata di clic. Prima scuola nel pordenonese con e-book, testi condivisi, presentazioni interattive, blog, piattaforma di istituto: per cinque discipline che sono italiano, matematica, fisica, inglese, scienze naturali. Il progetto ridurrà il salasso del caro-libri per le famiglie: 50 per cento nel 2012-2013. Poi, la scuola digitale si spalmerà a onda nelle altre classi e indirizzi classico ed economico.
«Il cuore del progetto è la piattaforma open source a cui accedono i ragazzi e professori – ha spaziato don Silvio Zanchetta direttore della casa salesiana di Pordenone con il professore di matematica Francesco Saitta tutor dell’operazione -. Niente più libri cartacei, speriamo: entro il 2015 ogni studente avrà un tablet con tutti i libri di testo. E’ una sfida educativa: primo bilancio alla fine del primo quadrimestre, in gennaio».
Disco verde alle tecnologie in aula, con video-proiettore multimediale, computer e tablet. I pacchetti didattici costruiranno un data-base con testi digitali, contenuti multimediali, arricchiti dai contributi degli studenti e il social reading, con le note condivise.
«E’ una rivoluzione nel metodo di apprendimento e di insegnamento – sono entusiasti i liceali -. Lo start-up sarà per una ventina di compagni, ma ci saranno novità per tutti gli studenti: wi-fi in tutto l’istituto e potremo attingere agli iper-testi, video e altro». Per esempio: la videata del tablet ha icone varie, compreso “mio diario” che si clicca e si entra in “lezioni”, per scaricare dispense, segmenti di e-book di scienze, matematica e altre discipline. «La rivoluzione tecno si innesta su una grande tradizione scolastica – dicono al Don Bosco -. Il tablet si carica alla sera, a casa, per infilarlo nello zaino al posto dei libri. Una “tavoletta” che diventa libro, quaderno e banca-dati con un clic sulla piattaforma di istituto». Contenti i “nativi digitali”, con la pagella elettronica in dote.
Chiara Benotti

La privacy in classe

La privacy in classe, dal tablet alla pagella elettronica. (fonte: Sole24ore)

Obbligo del consenso per video e foto sui social network. Scrutini e voti pubblici. Sì alle foto di recite e gite scolastiche. No alla pubblicazione on line dei nomi e cognomi degli studenti non in regola coi pagamenti della retta. Su cellulari e tablet in classe l’ultima parola spetta alle scuole. A pochi giorni dall’apertura degli istituti il Garante per la protezione dei dati personali fornisce a professori, genitori e studenti le indicazioni generali per la tutela della privacy sui banchi di scuola

Cellulari e tablet L’uso di cellulari e smartphone è in genere consentito per fini strettamente personali, ad esempio per registrare le lezioni, e sempre nel rispetto delle persone. Spetta comunque agli istituti scolastici decidere nella loro autonomia come regolamentare o se vietare del tutto l’uso dei cellulari. Non si possono diffondere immagini, video o foto sul web se non con il consenso delle persone riprese. La diffusione di filmati e foto che ledono la riservatezza e la dignità delle persone può far incorrere lo studente in sanzioni disciplinari e pecuniarie, ma anche in veri e propri reati. Stesse cautele vanno previste per l’uso dei tablet, se usati a fini di registrazione e non soltanto per fini didattici o per consultare in classe libri elettronici e testi on line.

Iscrizione e registri on line, pagella elettronica In attesa di poter esprimere il previsto parere sui provvedimenti attuativi del ministero dell’Istruzione riguardo all’iscrizione on line degli studenti, all’adozione dei registri on line e alla consultazione della pagella via web, il Garante auspica l’adozione di adeguate misure di sicurezza a protezione dei dati.

Questionari per attività di ricerca L’attività di ricerca con la raccolta di informazioni personali tramite questionari da sottoporre agli studenti è consentita solo se ragazzi e genitori sono stati prima informati sugli scopi delle ricerca, le modalità del trattamento e le misure di sicurezza adottate. Gli studenti e i genitori devono essere lasciati liberi di non aderire all’iniziativa.

Recite e gite scolastiche Non violano la privacy le riprese video e le fotografie raccolte dai genitori durante le recite, le gite e i saggi scolastici. Le immagini in questi casi sono raccolte a fini personali e destinati a un ambito familiare o amicale. Nel caso si intendesse pubblicarle o diffonderle in rete, anche sui social network, è necessario ottenere il consenso delle persone presenti nei video o nelle foto.

Retta e servizio mensa È illecito pubblicare sul sito della scuola il nome e cognome degli studenti i cui genitori sono in ritardo nel pagamento della retta o del servizio mensa. Lo stesso vale per gli studenti che usufruiscono gratuitamente del servizio mensa in quanto appartenenti a famiglie con reddito minimo o a fasce deboli. Gli avvisi messi on line devono avere carattere generale, mentre alle singole persone ci si deve rivolgere con comunicazioni di carattere individuale. A salvaguardia della trasparenza sulla gestione delle risorse scolastiche, restano ferme le regole sull’accesso ai documenti amministrativi da parte delle persone interessate.

Telecamere Si possono in generale installare telecamere all’interno degli istituti scolastici, ma devono funzionare solo negli orari di chiusura degli istituti e la loro presenza deve essere segnalata con cartelli. Se le riprese riguardano l’esterno della scuola, l’angolo visuale delle telecamere deve essere opportunamente delimitato. Le immagini registrare devono essere cancellate in generale dopo 24 ore.

Temi in classe Non lede la privacy l’insegnante che assegna ai propri alunni lo svolgimento di temi in classe riguardanti il loro mondo personale. Sta invece nella sensibilità dell’insegnante, nel momento in cui gli elaborati vengono letti in classe, trovare l’equilibrio tra esigenze didattiche e tutela della riservatezza, specialmente se si tratta di argomenti delicati.

Trattamento dei dati personali Le scuole devono rendere noto alle famiglie e ai ragazzi, attraverso un’adeguata informativa, quali dati raccolgono e come li utilizzano. Spesso le scuole utilizzano nella loro attività quotidiana dati delicati – come quelli riguardanti le origini etniche, le convinzioni religiose, lo stato di salute – anche per fornire semplici servizi, come ad esempio la mensa. È bene ricordare che nel trattare queste categorie di informazioni gli istituti scolastici devono porre estrema cautela, in conformità al regolamento sui dati sensibili adottato dal ministero dell’Istruzione. Famiglie e studenti hanno diritto di conoscere quali informazioni sono trattate dall’istituto scolastico, farle rettificare se inesatte, incomplete o non aggiornate.

Voti, scrutini, esami di Stato I voti dei compiti in classe e delle interrogazioni, gli esiti degli scrutini o degli esami di Stato sono pubblici. Le informazioni sul rendimento scolastico sono soggette ad un regime di trasparenza e il regime della loro conoscibilità è stabilito dal Ministero dell’istruzione. È necessario però, nel pubblicare voti degli scrutini e degli esami nei tabelloni, che l’istituto eviti di fornire, anche indirettamente, informazioni sulle condizioni di salute degli studenti: il riferimento alle “prove differenziate” sostenute dagli studenti portatori di handicap, ad esempio, non va inserito nei tabelloni, ma deve essere indicato solamente nell’attestazione da rilasciare allo studente.

Insegnanti, svegliatevi, osate

Anni e anni  a parlarne, siam sempre lì.
Una svolta importante nella mia vita fu quando vidi un’insegnante di quinta elementare (sì, ok, primaria) FARE IL DETTATO alla classe, usando Word.
“Bambini, aprite Word, e scrivete quello che vi detto”.
Uno strazio, vedere i bambini con quelle ditine che cercavano le lettere sulla tastiera. E nella loro mente si andava formando l’idea del computer come macchina per scrivere però bella, con lo schermo.
Bambini che a 5 anni sanno usare quasi tutti un mouse, mentre solo il 10% sa allacciarsi le scarpe. Non so se ci siamo capiti, anche se sono anni e anni che…

Vabbè, insegnanti, datevi da fare. E metteteci tutta la vostra intelligenza e professionalità nell’inventarvi i nuovi modi di far didattica, con tutti gli strumenti che avete già intorno.
Aspettando una connessione seria in banda larga per tutte le scuole, che civiltà dovrebbe aver già imposto da anni.

Qui un bel sito in inglese con decine di buone idee per una “didattica mediata” http://edudemic.com/

Cultura digitale a scuola

Ma credo che l’elemento essenziale per costruire la nostra narrazione su scuola e nativi passi dal cominciare a raccontare di un ambiente di apprendimento aperto in cui gli spazi personali e sociali fuori dalla scuola, quelli ricchi di interfacce sociali come i social network, i wiki, ecc. stanno costruendo, siano incorporati nelle dinamiche educative e diventino un tema del dibattito pubblico e interno alle classi.


Da un bell’articolo di Boccia Artieri, con molti link interessanti, intitolato “Scuola 2.0 e nativi digitali”, si arriva alla notizia di una conferenza a Roma, “Un nuovo alfabeto per l’Italia” per affrontare la tematica della rivoluzione digitale nella Scuola.



Web istituzionale, ma mica ben fatto

E’ online il sito del Centro Servizi Scolastici della Provincia di Udine.
L’indirizzo è già gnogno, eccolo qua: http://www.provincia.udine.it/cssp/Pages/cssp11.aspx
Potevano comprare un dominio, no? Organizzarsi un attimo. Vabbè.
Il sito istituzionale “mira a sviluppare, potenziare e riqualificare l’azione pubblica in materia di offerta di servizi al sistema scolastico provinciale, in particolare al fine di favorire la circolazione, lo scambio e l’integrazione delle professionalità e dei saperi che si sono creati nel tempo nelle diverse scuole. Obiettivo primario del CSSP è quello di sviluppare una rete tra le realtà scolastiche, mettendo a disposizione l’eccellenza già presente nelle scuole ed ottimizzando le best practices.
Il progetto nasce dall’idea che, pur nel riconoscimento della specificità di ogni scuola, individuare e cooperare su tematiche comuni può essere un modo per contribuire alla crescita umana e professionale dei suoi operatori, integrare competenze ed avvicinare tra loro docenti, genitori, allievi e territorio.”
Ops, scusate, non potevo scrivere qua sopra quelle cose facendo copiancolla, la Nota informativa dice che il contenuto “non può essere riprodotto, neanche parzialmente, senza la preventiva autorizzazione della Provincia di Udine; non può essere incluso in pagine, che utilizzano strutture frames, di altri siti web con nome di dominio differente da provincia.udine.it”. Ma sono un ladro gentile, rubo e cito la fonte. Scrivono che “la condivisione è un punto di partenza fondamentale per ottenere buoni risultati ottimizzando le risorse a disposizione” e poi inciampano da soli.
Ma basta, no? La vogliamo smettere? I contenuti di un sito di una Pubblica Amministrazione, pubblicati, sono pubblici. Appartengono a tutti, come a tutti appartiene quell’Istituzione. 
C’è pure un Comitato di Redazione, ma non si sanno i nomi. Mah.
Speriamo solo diventi un luogo veramente visitato da insegnanti e amministrativi della Scuola, sennò sarà solo un’altra cattedrale nel deserto. 

Scuola e pensiero laterale

Fonte: Wired.it

Come dovrebbe essere la scuola di domani? Il quesito, alla base del numero di settembre, Wired lo ha posto a Sir Ken Robinson. Non fatevi ingannare da quel “sir” che potrebbe evocare la figura di un vecchio accademico prigioniero di biblioteche e antichi precetti. Robinson è l’esatto contrario. Presenza fissa al TED (le sue videoconferenze sono state viste in rete più di 7 milioni di volte), le sue idee sulla creatività e il “pensiero divergente” alla base di un nuovo sistema educativo, hanno fatto il giro del mondo. Su Wired trovate la trascrizione di un discorso che ha scritto per la Rsa, organizzazione che si impegna a cercare nuove soluzioni per il progresso e la ricerca. Cliccando il video in basso, potete ascoltare le parole di Sir Ken Robinson. La premessa alla tesi di Robinson è molto semplice: la scuola di oggi è una scuola antica, concepita “nel clima culturale e intellettuale dell’Illuminismo e nelle circostanze economiche della prima rivoluzione industriale”. La prova è che le scuole sono ancora organizzate sul modello della linea di produzione, come in una fabbrica. “Ci sono le campanelle, delle strutture separate, gli alunni si specializzano in materie diverse. Educhiamo ancora i bambini per annate: li inseriamo nel sistema raggruppandoli per età”. La scuola, quindi, è come una catena di montaggio da cui possono uscire solo due tipi di prodotti: studiosi e svogliati.

Si tratta di un sistema educativo non al passo con i tempi, secondo Robinson. Non un tempo in cui, su bambini e adolescenti, convergono le informazioni passate da Internet, dai telefonini e dalla tv. Ma allora, qual è il tipo di educazione adatta alla nostra epoca? Robinson prende in causa il “ pensiero laterale”, espressione coniata dallo psicologo maltese Edward De Bono che indica una capacità di risolvere i problemi in modo creativo e da diverse prospettive. Robinson cita l’esempio della graffetta: quanti modi ti vengono in mente per usarne una? “La maggior parte di noi ne trova 10-15. Quelli più bravi ne trovano anche 200. E li trovano facendo domande del tipo: ‘La graffetta potrebbe essere alta 60 metri e fatta di gommapiuma?’”.

La cosa tragica è che i bambini sono più portati a vedere le cose lateralmente – e quindi a fare più domande e a trovare più soluzioni – di quanto lo siano gli adulti. Questo non perché la crescita porti per forza di cose a una chiusura mentale, ma perché i luoghi in cui i bambini crescono invece di sviluppare e articolare il loro pensiero, lo standardizzano. “Il problema cruciale”, sostiene Sir Ken Robinson, “risiede nella cultura delle nostre istituzioni, nel clima che vi si respira e nelle abitudini che hanno consolidato”.

Falliti incontri

(fonte: Scorfano)

Falliti incontri

Oggi finisco in aula magna, con la mia classe prima, a sentire una «lezione» su un argomento del tutto marginale rispetto al nostro curriculum scolastico, ma che dovrebbe avere molto a che fare con la loro (e forse anche mia) coscienza civica, ambientale, ecologica e cose del genere. Finisco quindi in aula magna a sentire un signore che ci parlerà di una di queste cose e, di buon umore, mi siedo vicino ai miei primini, per evitare che parlino troppo e si facciano notare da quel signore coscienzioso.
Il signore comincia quasi subito a parlare. Ma parla poco, e fa invece passare sul megaschermo un video che sta su YouTube e che dovrebbe subito illuminarci sulla sua teoria; solo che lui non è capace ad alzare il volume del video su YouTube e quindi noi non sentiamo quasi niente, e i ragazzi cominciano a ridere un sacco, finché qualcuno dalle prime file si alza e va sul palco e prende in mano il mouse e alza il volume del video su YouTube, e sono intanto passati 3 minuti e mezzo in cui il video è stato incomprensibile. Poi il signore mette su un altro video, di nuovo preso da YouTube. Ma è un video in danese, lingua a noi tutti ignota. Lui se ne rende conto, e infatti dice al microfono: «Strano, ieri c’erano i sottotitoli…» Io penso che boh, saranno scappati i sottotitoli, nel frattempo.
Poi, ed è passata quasi mezza lezione (ma no, non si chiamano «lezioni», si chiamano «incontri»: che non vi venga mai in mente di chiamarli «lezioni», che poi la gente – tipo quel signore lì – si offende, chissà perché: forse perché le «lezioni» sono molto noiose e le fanno solo quelli un po’ sfigati, come me; gli «incontri» invece li fanno quelli brillanti, come lui, con i video presi da YouTube); ma insomma, quando già siamo quasi a mezza lezione, il signore che tiene l’«incontro» mette su il terzo video, preso da YouTube, che si vede e si sente bene (anche se noi capiamo subito che lui non sa usare la funzione «schermo pieno»), ed è pure in italiano, per miracolo, solo che nel frattempo a lui squilla il cellulare (suoneria molto invadente, com’è ovvio) e lui allora, sul palco, mentre il video di YouTube procede per suo conto a schermo ridotto, lui risponde a un messaggio che gli è arrivato, davanti a tutti noi, picchiettando sulla tastiera del suo cellulare.
Io taccio. O almeno ci provo. Perché a un certo punto, Paoletta, che è una delle ragazze più sveglie della classe (e che ha pure preso 6 nell’ultima verifica di latino, ma ancora non lo sa) e che è anche proprio giovane, perché ha fatto la cosiddetta «primina», qualche anno fa, e dunque ha compiuto i 14 anni da meno di due settimane, Paoletta mi guarda e mi dice: «Ma prof, questo signore si rende conto che la sua lezione è stata un fallimento?» (E usa proprio queste due parole, «lezione» e «fallimento», che fanno un po’ impressione, soprattutto la seconda, su una faccia giovane e pulita come la sua). Io non rispondo. Le faccio solo il gesto di stare attenta, e zitta, e di guardare i video.
Ma Paoletta, dopo qualche minuto, mentre gli altri ragazzi fanno casino e applaudono a qualunque frase che il signore, dal palco, sta dicendo, Paoletta mi dice: «Ma prof, questo signore si rende conto che tutti lo stanno prendendo in giro?» (e non usa esattamente l’espressione «prendere in giro» perché, per quanto giovani e innocenti, sono ragazzi che sanno usare la lingua italiana con grande icasticità, quando vogliono: e quindi usa la parola «culo», come vi siete ben immaginati). E io non le dico niente, nemmeno questa volta; ma le faccio di nuovo cenno, imperiosamente, di stare attenta.
Ma dovrei dirle che no, non se ne rende conto. Non si rende conto, questo signore, del suo fallimento e nemmeno del fatto che i ragazzi lo stanno (e pure giustamente, sia chiaro) prendendo per il in giro. E non ce ne rendiamo conto noi che, da anni, lasciamo che venga questa gente, nelle nostre scuole, e che magari la paghiamo anche, questa gente che organizza gli «incontri», che non sono lezioni e che non servono mai a niente e a nessuno, se non a far perdere a tutti noi un po’ di tempo, come se ne avessimo, di tempo da buttare. Ma noi lo buttiamo, come buttiamo soldi ed energie, in tutte queste cose inutili. Poi l’ora finisce e noi torniamo a casa e quel signore non ha nemmeno capito che la sua lezione è stata un fallimento, misero e ridicolo; e non sa alzare il volume dei video di YouTube e nemmeno gli importa di saperlo, probabilmente. Ma immagino che sia in grado di offendersi se io chiamassi «lezione», e non «incontro», questa cosa che è venuto a fare oggi nella nostra scuola. Questa cosa patetica e ridicola, per cui mi è onestamente molto difficile trovare un nome; talmente ridicola che anche una ragazzina di quattordici anni appena compiuti si è fermata e, un po’ stupita, ha forse provato un po’ di pena per quel signore e per il suo (e nostro) fallimento.

Udine, un convegno sulla Media Education

Si terrà il 15 ottobre presso l’Università di Udine il convegno L’urgenza della Media Education in collaborazione col MED Friuli [Facoltà di Scienze della Formazione, via Margreth 3].
Il programma prevede gli interventi di Maria Bortoluzzi (Università di Udine), Serena Zanolla (Università di Udine), Alberto Parola (Università di Torino), Angela Bonomi Castelli (MED). Nel pomeriggio workshop su Fotografia, Videogame, Dispositivi tecnologici mobili, Informazione, Tecnologie e progetti educativi nel territorio.

Il convegno è aperto a tutti, in particolare a insegnanti, educatori, operatori dei media, studenti, genitori.

Per scaricare il programma: http://www.mediaeducationmed.it/component/docman/doc_download/69-brochure-med-udine.html

Fonte: Altrascuola