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Narrazioni di comunità, visioni condivise, scorci di futuro

Ho sete di narrazioni territoriali. Ma di  più: le collettività hanno sete, vogliono abbeverarsi con le rappresentazioni di sé allestite sul mediascape, il paesaggio mediatico.
Riassunto delle puntate precedenti:
  • c’è stato un cambiamento nei technoscape, nei paesaggi tecnologici. Abbiamo tutti per le mani strumenti di espressione nuovi, potenti e raffinati, abitiamo in Rete. E’ un momento aurorale, perché stanno nascendo nuovi format, nuove nicchie e flussi dentro l’ecosistema della conoscenza (fino a ieri biblioteche e quotidiani come imperi costruiti sulla carta, sulla pesantezza; seguiva maturazione dell’opinione pubblica lenta, partecipazione limitata, broadcast ineluttabile)
  • le collettività producono senso vivendo, e lo mostrano nello specchio della letteratura e nelle arti (come fare riflessivo, guarda un po’), tanto quanto nell’urbanistica, o nei modelli economici praticati, nella progettazione della logistica territoriale, e aggiungiamo le possibilità odierne di mostrare dinamicamente in tempo reale i comportamenti delle persone e dei gruppi tramite georeferenzialità e dispositivi connessi ubiqui… risulta oggi facile e semplice darne rappresentazione mediatica adeguata, di tutte ‘ste cose e flussi di persone e idee. Tutto nutre i mediascape, l’insieme degli atti comunicativi, la nuvola del dire di una comunità
  • nei momenti di crisi, conviene avere un serbatoio di possibilità differenti da giocarsi, per meglio adeguarsi al mutato contesto ambientale. Solito parallelo con il dialogo della selezione naturale, e al fatto che siamo tutti mutanti: succedesse qualcosa guarda caso ci sarebbe qualcuno che porta in sé una mutazione fino a quel momento ininfluente, ma che ora potrebbe diventare decisiva per far sopravvivere la specie (sto parlando di sperimentalismo, sì, in ogni settore sociale produttivo e socioculturale, nei format con cui pensiamo e storicamente realizziamo il nostro abitare). Idee per sopravvivere.
  • per potenziare l’efficacia di questo auto-pensarsi delle collettività, costruire contenitori di visioni e di progettazioni sociali, Luoghi partecipativi dove tutti possano esprimere la loro percezione e le loro linee direttrici del desiderio rispetto al futuro del territorio, alla qualità del Ben-stare su di esso come collettività in modo consapevole dell’impronta ecologica e dell’ottimizzazione delle risorse (materia energia e informazione, produzione e distribuzione), all’organizzazione sociale, alla costruzione condivisa di Grandi Narrazioni capaci di dare identità alle comunità locali, per come quele emergono dal calderone della Grande Conversazione, sotto cui abbiamo alzato il fuoco (tecnologie connettive) causando un più rapido rimescolarsi dei contenuti, nella comunicazione
  • ci sarebbe da raccontare come sulla superficie del pentolone si stiano formando aggregazioni di senso imprevedibili, cluster di memi capaci di tessere nuove forme significanti, come isole nei fiumi, luoghi di regolarità nel frattale della pubblica opinione. Non c’è più nessuno (ok, dài, i giornali potrebbero fare molto, se nativamente ripensati) a dirci quali sono gli argomenti importanti, ciò di cui val la pena parlare viene a galla nella Rete.
  • e-Government e e-Democracy non vivono nei pensieri, hanno bisogno di ambienti dove poter depositare e far maturare approcci e metodologie, tematiche e partecipazione
  • c’è di mezzo un aspetto civico del problema, che mi fa pensare che simili Luoghi di elaborazione del sentimento di appartenenza a una collettività (nel senso di aver-cura), i luoghi riflessivi autopoietici, dovrebbero essere pubblici, ovvero appartenere alla collettività. Come cittadini vogliamo che l’amministrazione pubblica renda disponibili piazze e parchi e biblioteche e spazi sociali per il pubblico dibattito e faciliti la circolazione delle opinioni. Poi le idee possono nascere dappertutto, nei caffè o su Facebook, ma là dentro dovrebbero assumere forma organizzata, orientata esplicitamente a costruire nel tempo l’archivio delle narrazioni autodirette di una comunità. Là dentro il ribollire dei punti di vista, delle consultazioni, potrebbe assumere aspetti concreti di promozione territoriale, come proposizione di linee e politiche d’intervento. L’alambicco che distilla.
Dicevo. Di simili Luoghi del “fare identità” territoriali e darne rappresentazione mediatica ne stanno nascendo un po’ ovunque, io stesso sto collaborando per realizzare qualcosa di simile, di cui racconterò più avanti. Gli Urban Center (Torino; Milano, Bologna, altre info) possono essere visti come gangli nervosi per l’elaborazione dei flussi informativi territoriali, gli esperimenti di Urban Experience danno visibilità alle nuove forme dell’abitare e del fruire gli spazi sociali.
A esempio, la Camera di Commercio di Udine ha messo giù un progettone per raccogliere le idee e le visioni della collettività friulana, si chiama Friuli Future Forum, lo trovate descritto anche qui, date una letta.
“L’ambizione è comunicare un progetto che contribuisca a trovare una nuova idea di Friuli. Ricostruiamo il concetto della nostra regione mattone dopo mattone, idea dopo idea, partendo dalle radici culturali e territoriali e individuando i valori di base sui quali poggiare le fondamenta per sostenere i sogni e le aspettative del futuro dei friulani” dicono i due professionisti coinvolti, l’uno più pubblicitario (annusare tendenze sociali e stili mediatici) e l’altro più tecnologo, docente universitario specializzato in location awareness e strumenti per rendere eloquenti le collettività.
E se la questione gira intorno al rendere visibili i flussi partecipativi dei cittadini, a organizzare e e distillare narrazioni centrate sul territorio e la qualità dell’abitare create dagli abitanti stessi, forse servirebbe anche una sorta di agenzia territoriale capace di offrire consulenze ai singoli o alle istituzioni o comunque agli attori sociali per costruire la propria narrazione, il proprio apporto alla Grande Conversazione.
Servirebbero dei Centri per la Narrazione gestiti con professionalità e orientati a progettare format di racconto per le collettività, capaci di fornire soluzioni comunicative adeguate con moderni strumenti di espressione (mappe e geotagging e blog urbani e reti civiche e mediateche e sensori ambientali e internet delle cose e teatri sociali di elaborazione, consultazione e decisione).
E quando le tematiche riguardano il fare civico, queste Agenzie di comunicazione potrebbero tranquillamente essere uno dei servizi offerti alla Cittadinanza da quegli Urban Center di cui parlavo più sopra.
Son dieci anni e più che unendo le mie competenze sulle conversazioni e sui media al mio interesse per la qualità dell’abitare sui territori provo a progettare e allestire community territoriali. Con tutto questo fiorire di ambienti per la socialità aumentata, chissà mai che non possa trovare un lavoro decente.

 

Piattaforme

Che Facebook sia un salotto e non una piazza, l’abbiam capito. Eppure lì dentro avvengono troppe cose rilevanti. Mozioni civiche, elaborazione opinione pubblica, messa in scena della collettività a sé stessa.

E non mi piace che avvenga là dentro.

Se per ipotesi ci fosse una piattaforma governativa, Piazza Italia etc., dove tessiamo le nostre reti relazionali, amicali e professionali. Dove se vogliamo cazzeggiamo, ma dove possiamo esprimere posizioni a casa nostra, una casa di tutti, e non a casa di qualcuno (che ci guadagna sopra). Posizioni etiche, espressioni di partecipazione alla vita sociale, anche atti linguistici più forti come petizioni o sottoscrizioni con identità certificata.

Che poi cazzeggiare verrebbe sicuramente meglio su altre piattaforme, anche commerciali, che raccolgono iscritti per affinità tematica o geografica.

Ma alcune robe serie no, le voglio pubbliche, aperte, dove tutela massima andrebbe posta nel fatto che nulla venga censurato. Dove vigono leggi, per rispettarsi. Dove Giorgio Jannis è Giorgio Jannis, che abita qui e lì a quell’indirizzo, che dice e fa, e gli altri lo sanno, e le sue parole hanno il peso del cittadino che si esprime.

Ma leggi che tengano conto nativamente che questo è un mondo senza atomi, e nell’immateriale alcune cose cambiano. Le nuove leggi che il mondo dovrà darsi nei prossimi dieci anni, per adeguarsi.

Più volte ho scritto che l”idea stessa di piattaforma mi sembra obsoleta, tutto questo dover concentrare le persone negli stabilimenti, luoghi chiusi. Uno schema di pensiero non più adeguato. E parlavo di tecnologie traccianti, per poter seguire le discussioni e le relazioni interpersonali in modo indifferente alla situazione di enunciazione, ovunque il senso appaia. Perché il mio dire, taggato e contestualizzato, troverebbe pertinenza da sé nelle varie nicchie della Rete, secondo i contenuti veicolati. Apparirebbe negli aggregatori e nelle bacheche giuste, avrebbe gambe per muoversi, vivere.

E come lo Stato arreda una piazza, così dovrebbe provvedere agli spazi sociali pubblici, perlomeno offrire luoghi di conversazione per una comunità che costruisce sé stessa dialogando, nel tempo. Dove poter fare tutti insieme progettazione sociale collaborativa, ottimizzando i territori e i comportamenti delle collettività che li abitano.

Chissà se funzionerebbe.

La gente, i milioni di persone che abitano in Rete, non fa cose facilmente predicibili. Un video o una battuta possono diffondersi in modo esplosivo, per caso, per complessità emergenti dei percorsi, secondo narrazioni mai viste. Cose pianificate e ben finanziate possono naufragare rapidamente in pochi mesi.

Ma di certo la nuvola della conversazione a sfondo civico di una intera nazione (anche oltre i confini geografici, nei linguaggi di chi paga le tasse) non può abitare su un social network privato.

Muori, cagna

Questa schermata l’ho trovata qui, è una nota su FB.

Sia chiaro: non sto soffiando su nessun fuoco, non mi frega nulla segnalare alcunché al pubblico ludibrio, me ne fotto della morbosità, è già stato fatto prima, mi interessa documentare l’umanità con uno screenshot, i giornali nei boxini ci campano giorni, questo o un altro uguale arriverà anche sui tg alla ricerca di fregnacce per imbonire a’ggente, me ne frego anche di lasciare tutti i nomi delle persone come li vede uno che è iscritto a FB perché se mi dicono che in quel bar ci sono un bel po’ di persone che parlano così io prendo la vespa a vado a vedermi lo spettacolo dinanzi a miei occhi esattamente tale e quale a questo, e poi mi fa ridere, ecco. 
Son ragazzini, ma già non capiscono un cazzo. Parlo dei commenti, avevate capito.
Mi piace l’escalation, il montare del livore, l’immaginazione concentrata sulla punizione e l’epiteto. Puzza d’umanità, qui, molto troppa.

Antiproibizionismo

Che cosa succederebbe se un bel mattino gli italiani che consumano stupefacenti si autodenunciassero tutti insieme?

Il giorno della grande catastrofe, sulla quale i sociologi e gli antropologi ancora si accapigliano, fu il 28 giugno del 2011. Per motivi tuttora imprecisati – qualcuno parla di suggestione collettiva, qualcun altro di un’iniziativa politica i cui promotori non sono mai stati individuati- tutti i consumatori di droghe italiani decisero di mettersi in fila davanti alle questure e chiesero di parlare con un poliziotto che potesse raccogliere una denuncia.

Leggi Alessandro Capriccioli su L’Espresso

Fondare arrogantemente la democrazia della Rete

Leggo fantascienza da quando ero alle medie, centinaia di Urania comprati usati in un negozietto buio strabordante di carta impilata, gestito da una matrona settantenne vagamente somigliante a Moira Orfei.
Negli anni Ottanta il cyberpunk di Gibson e di Sterling si innesta su Dick e Ballard, e tutto si avvita saldamente nel mio cervello adolescente.
Quando all’università Bifo mi faceva leggere Pierre Levy, prima metà Novanta, le visioni fluivano liberamente, visioni concrete e per nulla sorprendenti di una realtà imminente. Un mondo connesso, biblioteche ubique, intelligenza collettiva, rivoluzioni dei sistemi mediatici, economici, culturali, e quindi sociali.
Sono passati diciotto anni da allora, la stessa distanza che separa Woodstock da We are the World, giusto per parlare degli abissi, e anche perché mi ha sempre colpito che i ventenni fricchettoni del 1970 siano diventati i trentacinquenni cocainomani armani-paninari del 1985.
Quindi, sono decenni che mi girano per la testa certi pensieri, e comunque chiunque abbia letto quei cinque libri sulla Rivoluzione digitale usciti a metà Novanta non può essersi sorpreso poi molto di ciò che è successo nel mondo da allora a oggi, perché là dentro è tutto ben descritto. Bravi certo i guru storici (Kelly, Negroponte, Barlow, Levy, etc.), ma non era difficile prevedere certi sviluppi del web e delle forme culturali e tecnosociali, una volta compresa dall’interno la portata e la forza di quello che stava accadendo.
Quelli che nascevano diciotto anni fa oggi li chiamiamo nativi digitali, e non sono bambini, sono persone che votano.
Oggi alla Camera dei Deputati si è svolto un convegnone, sapete, intitolato “Internet è libertà”.
Dopo diciotto anni di moti carbonari, finalmente la Cultura digitale emerge alla luce del sole, nel riconoscimento ufficiale delle parole pronunciate da cariche istituzionali nei luoghi di Governo di questa italia sempre buon ultima nel prendere sul serio le innovazioni sociali, specie se propagandate da eterni ragazzini che passano il loro tempo attaccati al computer, come vogliono le barzellette che giornali e tv continuano a propinare.
Guardo lo streaming del convegno sulla webtv della Camera (tre anni fa questa sembrava fantascienza), e ascolto Gianfranco Fini, anfitrione dell’evento, parlare di diritto di accesso a internet come diritto di cittadinanza, e penso che forse sì, qualcosa è sgocciolato attraverso la roccia. Poi tutti gli altri raccontano la loro, un po’ mi annoio, un po’ rido per le inevitabili baggianate pronunciate da chi queste cose non le ha imparate vivendole, ma gliele hanno raccontate, poi penso che quello che dice sciocchezze è un viceministro che sta legiferando proprio sulle libertà di internet e già rido meno. Leggete Boccia Artieri per una rapida visione critica dell’evento.
L’ospite d’onore del convegno è Lawrence Lessig, che tiene da par suo una lectio encomiabile di trequarti d’ora. Mi colpisce il suo far riferimento un paio di volte alla generazione futura, alle differenze “antropologiche” che ci separano dai giovani. Tant’è che alla fine del convegno, interpellato per un rapido intervento conclusivo da Riccardo Luna riguardo l’impressione che ha avuto della situazione italiana, Lessig sottolinea come negli States il dibattito politico non abbia ancora preso in carico tutti i risvolti “legislativi” e di diritto personale messi in fibrillazione dai comportamenti su web, come gli sembra invece che gli Stati europei stiano facendo, guarda un po’.
E poi aggiunge qualcosa di importante, secondo me. Parla esplicitamente, dopo i soliti battibecchi italiani sulle leggi e le censure governative, di una nostra generazionale “presunzione di democrazia”, nel voler stabilire oggi per l’oggi quali siano i comportamenti giusti e sbagliati da normare, sempre concentrandoci su un presente ormai sorpassato, quando intorno a noi c’è appunto una nuova generazione che abita altre realtà mentali e culturali, perfettamente indifferente alle regole dei padri in quanto semplicemente non adeguate al loro mondo. Questa generazione non avrà nessun rispetto per la nostra presunzione di voler stabilire una democrazia, se questa democrazia non sarà costruita insieme a loro, che dovranno vivere dentro quelle regole nel loro tempo 
e in un mondo radicalmente differente dal nostro.

Update dopo la provavideo

Lessig, più meno letterale: “vi incoraggio a prendere sul serio la rabbia, riconoscere che la vostra presunzione di democrazia non è una presunzione che si tutela da sola. Si può proteggere quest’idea di democrazia se si ascolta la generazione dei nativi, in un dialogo che rispetti questa generazione”.

Chi si indigna?

Benissimo, egregio elettore di destra, dopo questa cosa incivile del decreto interpretativo per la riammissione delle liste escluse dalle Regionali non ti restano molti alibi.

O hai la testa, o hai la coscienza, o nessuna delle due.
Se hai testa e coscienza, è già un bel po’ che non voti questa destra.
Se hai la testa ma non hai la coscienza, opportunista mascalzone, voterai comunque destra per qualche tuo infimo e egoistico tornaconto personale.
Se hai una coscienza ma usi poco la testa, confido stavolta non voterai destra, perché anche un bambino di otto anni conosce l’importanza del rispetto delle regole del gioco. Puoi farcela, puoi astenerti.
Se non hai né testa né coscienza sei un animale da cortile, continuerai a votare come hai sempre fatto senza farti domande, quasi certamente voterai destra perché ti sfuggono i ragionamenti più lunghi di venticinque sillabe e questa cosa complicata che chiamano democrazia, a te che ti aspetti di essere comandato, in fondo ha sempre dato fastidio.

Non potendo quindi per certe personali scelte di vita porre le mie speranze di miglioramento sociale nella stupidità imprevedibile e incontrollabile di cui molti italiani danno segno quotidianamente, non mi resta che aver fiducia nel senso di nausea che i comportamenti degli attuali governanti auspicabilmente suscitano nei loro stessi elettori.
“Aver fiducia nella nausea” è esattamente la misura dell’inciviltà in cui ci dibattiamo.

Buzz, privacy, ecologia relazionale

Oggi ne parla anche DeBiase: “La dimensione pubblica è il grande territorio nel quale emergono i materiali di idee e informazioni con i quali si formano le decisioni collettive ed è bellissimo che si allarghi – con i media sociali – al contributo attivo di molte più persone. Ma quelle persone devono poter scegliere che cosa delle loro idee e personalità è pubblico e che cosa è privato. E questo avviene soltanto grazie alla loro consapevolezza.”

Questo perché Buzz ha osato molto. Rende visibili le cerchie sociali basandosi sui contatti frequenti della Gmail, dimodoché tutti possono a partire dal mio profilo venire a conoscenza di chi frequento, e la gente ti giudica a seconda di chi frequenti. Metti che scambi mail con uno zoppo, molti penseranno che il tuo vero nome sia Claudio.

Ma il pensiero della privacy non mi preoccupa, di certo già ora non può più essere normato dall’alto stabilendo la legittimità di utilizzare immagine pubbliche di cose e persone, proprio perché il concetto di pubblico (una piazza, un social network) è radicalmente cambiato. Giustamente, serve consapevolezza. So di essere in pubblico, e agisco di conseguenza: il mio fare e il mio dire sono pubblici, se compiuti in pubblico, e non mi appartengono più.

Quindi Buzz rendendo percepibili le reti relazionali, innazitutto a me stesso, le ha fatte emergere dal calderone ambiguo su cui pensavo di avere magari un certo controllo, e ci obbliga lateralmente a diventare consapevoli. Induce segmentazione nell’indifferenziato. A me spetta decidere quanto voglio far trapelare di me in pubblico. Buzz ci costringe a esplicitare a noi stessi le nicchie ecologiche mentali e operative dentro cui posizioniamo i contatti amicali o professionali, quindi sta svolgendo una funzione educativa, poco da fare, come già Facebook e relativi scandaletti di pubblicazione di materiale inopportuno ci insegnano, e tutti ci siamo affrettati a comprendere le opzioni di privacy permesse dall’ambiente social specifico, dove i progettisti del software lasciano tutto aperto (in fondo, son luoghi pubblici, no?) e a noi spetta decidere quanto chiudere.
Per una volta, un’Etica della responsabilità di stampo nordico, che significa avere consapevolezza delle conseguenze delle nostre azioni, piuttosto che un’Etica mammona molto latina, dove tutto è strettamente regolato e agli utenti visti come adolescenti ribelli non resta che infrangere limiti per divenir soggetti adulti.
Qui non c’entra il senso di Colpa, roba da confessionale cattolico, privato, qui siamo in ambienti sociali, qui quello che funziona è la Vergogna, da espiare in pubblico.

AveMaria, lavami il cervello

Che schifezza. Guardavo e stavo male. Minuti interi, su Telechiara, decine di bambini che recitavano l’Avemaria, e poi di nuovo, e poi di nuovo, sarà andato avanti per venti minuti, ossessivamente. Ogni giorno, ovunque nel mondo, migliaia di bambini stuprati nella mente, costretti a litanie di cui non capiscono il significato sotto lo sguardo severo della suora, gli incubi per il timore di impappinarsi davanti a tutti e pure in televisione (ma questi saranno stati scelti per la loro bravura), una sacralità inculcata a forza nella ripetizione ipnotica, nella mancanza di senso critico per via dell’età sempre minore dei fanciulli su cui intervenire.
E una televisione oscena, magari pagata con i soldi ambigui dell’8×1000 e con inserzioni pubblicitarie, che di questo nutre i propri palinsesti, del gloriarsi dell’efficacia con cui agisce la religione cattolica – e lo stesso orrore provo per tutte quelle così inumane da rivolgersi ai bambini – nel plagiare le menti.
Il reato di plagio non esiste più in italia, ma abbiamo quello di circonvenzione d’incapace. A mio parere, si attaglia perfettamente.



Art. 643 Codice Penale – Circonvenzione di persone incapaci
Chiunque, per procurare a se’ o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermita’ o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso, e’ punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da 206 euro a 2065 euro.

… what we have been waiting for, da mo’

Ne ho parlato molte volte, ma non ho nessuna voglia né mi piace autolinkarmi: usate il motore qui a fianco, sul blog. Venite a trovarmi. Parole chiave come websocialità, tecnologia tracciante, l’emergere e la visibilità delle reti sociali, prossemica digitale, abitanza… ecco, cercate “blogroll” e troverete dei nuclei di ragionamento pertinenti.

Perché nei blog, primi Luoghi conversazionali identitariamente connotati, i blogroll erano le boe di segnalazione delle reti sociali di partecipazione, erano cotesto che provvedevano contesto, legittimamente rientravano nell’interpretazione degli scritti e del loro autore.
L’elenco dei blog seguiti delineava conseguentemente la nostra appartenenza a determinati cerchi di affinità tematica o stilistica, permettendo in chi ci leggeva di raffigurarsi la nuvola di socialità digitale dove collocarci. Nasceva la percezione di un ecosistema, nicchie e habitat, come da sempre l’umanità è fatta di gruppi che si intersecano, e una volta bisognava essere un gruppo grande per avere la forza di diventare visibili (costruire torri, fondare partiti politici).
Ma quei blogroll erano espressione della nostra volontà di dare immagine della nostra nicchia ecologica, erano segnaletica negoziata e patteggiata nello scambio link, erano frutto di frequentazione assidua e duratura di altri blog, quando non c’erano i feed, non c’erano aggregatori automatici, bisognava recarsi di persona fin dai nostri a mici e andare a trovarli a casa loro, insomma era tutto romanticamente unopuntozero, e saper mettere un
al posto giusto ti salvava tutta la grafica sbilenca.

Poi, sappiamo, ci fu la grande esplosione del web sociale, di cui i blog sono primissima espressione grazie a quel bottone “Commenti” che abilita il dialogo; un blog con i commenti chiusi non è considerato un blog nell’accezione comune, ma una pagina di espressione personale, quando i blog erano ancora web-log, senza scintille di socialità. Peraltro credo che le grammatiche della socialità allora sancite (esistevano da prima, alla base ci sono i valori diffusi della condivisione e dell’orizzontalità del web stesso) dai blog facciano tuttora sentire il loro effetto sulla conversazione in Rete, tant’è che in giro ci sono guerricciole tra chi vorrebbe rimanere vicino a quegli stili comunicativi, e chi invece formatosi già dentro i social network pratica differenti approcci alla conversazione online, adotta diversi atteggiamenti rispetto a esempio alla necessità di provvedere contenuti articolati, di provare a fornire apporti originali, di aver cura degli spazi interpersonali al fine di offrire ospitalità e garantire apertura al dialogo.
Non che questo oggi non avvenga, ma i barbari hanno il loro stile, tutto qui. Nuove forme di civiltà nasceranno, perché siamo sempre dentro un dialogo tra le esigenze di espressione personale, strumenti per comunicare, e ambienti sociali dove una innovazione tecnologica o una modificazione minima dei comportamenti induce cambiamenti negli altri componenti e quindi nell’intero ecosistema. Chi per primo ha colonizzato questi Luoghi antropici digitali, acquisendo autorevolezza agli occhi degli altri per la propria capacità di aver saputo individuare e abitare ben arredandola una precisa nicchia conversazionale, si trova un po’ a disagio ora che tutto sta cambiando in direzione di una socialità talmente ampia e esplosa da non poter essere inquadrata e governata con un semplice blogroll.

Il problema è la visibilità ovvero la percezione delle reti sociali digitali, dicevo.
Il blogroll era un segno (un sintomo, per la precisione, in quanto segno “fisicamente” connesso con ciò che era da riportare) della mia rete sociale, ma con l’esplosione dei Luoghi digitali abitati quali communities, stabilimenti di umanità come i socialnetwork planetarii, gli ambienti di lifestreaming, con milioni di nuove persone che accedono al web e con il moltiplicarsi del mio dire in decine di discussioni e posti diversi, come tenere traccia della mia partecipazione alla Grande Conversazione, come riuscire a avere una rappresentazione adeguata della mia identità sociale, come poter indagare le reti relazionali su web? Come si propagano le idee?
Teniamo presente che un mucchio di gente è interessatissima a questa cose, sociologi e psicologi e webantropologi, microinterazionisti, analisti conversazionali dei social media, professionisti del marketing attenti alle profilature degli utenti e ai loro comportamenti più o meno nomadi o stanziali, giornalisti, animatori di communities ludiche o professionali, designer di software per dispositivi mobili connessi, operatori dell’industria culturale consapevoli del valore odierno del passaparola e del virale e della disintermediazione, economisti e pedagogisti e formatori, progettisti della pianificazione territoriale e delle nuove forme urbanistiche.

Beh, figuratevi, ci han sempre provato a costruire queste rappresentazioni della socialità online. Classifiche di blog che emergevano da algoritmi per il calcolo della notorietà fondati su analisi dei link in ingresso e in uscita, dei click effettuati, rimandi su rimandi intertestuali da organizzare magari graficamente per meglio comprendere a colpo d’occhio l’intersecarsi delle galassie conversazionali, troppo complesse per essere descritte.

In ordine di tempo, spetta a Vincenzo Cosenza aka Vincos l’ultimo tentativo nell’aver provato a rendere visibili le reti sociali digitali, realizzando una buona mappa della blogosfera e affini con strumenti specifici per l’analisi di “strutture di comunità”. Oltre alla rappresentazione quantitativa offerta dal numero dei collegamenti, in grado comunque di far emergere i maggiori hub della Rete italiana, Vincenzo sta curando la pubblicazione di ulteriori post in cui prendere in considerazione i “naturali” raggruppamenti dei blog analizzati secondo cluster capaci di mostrare appunto le affinità tematiche.
In realtà, come facevo parlando di tecnologie traccianti, a me interesserebbe avere strumenti per poter percepire le nebulose della partecipazione, poter raffigurare i commenti e gli interventi ovunque essi appaiano, che potessero mostrare il mio abitare attivo e le intersezioni con persone e gruppi.

Vi è poi un’altra possibilità di analisi, per l’emersione delle reti sociali a cui partecipiamo. Ne parlavo anche di questo, cercate Connect su in alto, quando qualche mese fa sono comparsi dei widget (Google Friend Connect, Google Profile, Facebook Connect) da mettere o da sottoscrivere qui e là sui nostri luoghi di frequentazione.
Google deve averli fatti un po’ girare, e questi dispositivi cominciano a dare dei frutti, permettendo di cogliere la cerchia sociale dentro cui sguazziamo. Ma si può fare decisamente di meglio.

In italia c’è pieno di negri

Escludo dal ragionamento gli psicotici, ma per il resto dell’umanità credo fermamente l’ignoranza sia la radice del Male.
Secondo me, tutti sanno di non sapere, ma qui l’umanità si divide in due categorie, quelli che dignitosamente dinanzi ad un argomento sconosciuto tacciono e cercano di imparare, e quelli che timorosi di perdere la faccia, profondamente insicuri di sé, irrigidiscono le proprie posizioni e magari strillano per avere ragione con la forza.
Questo è il peggio del peggio: l’arroganza dell’ignoranza.

Se credo di aver ragione io posso spiegarti perché credo di aver ragione, fondando il mio ragionamento su fatti pubblici documentati di cui sono a conoscenza e posso mostrarti. Tu, arrogante ignorante, non puoi farlo.
Il dialogo si ferma, perché non possiamo opporre una posizione pragmatica a una ideologica.

Da quell’ammasso informe e autocontraddittorio costituito dalle informazioni che passano dentro i media e nelle discussioni con la propria cerchia di conoscenti, ciascuno di noi poi distilla i ragionamenti e i punti di vista che maggiormente confermano la sua visione del mondo. Tranquilli, lo facciamo tutti. Poi il buon senso e la storia stessa delle idee, visto che sono andato a guardare se qualcuno in passato non si sia già fatto le mie domande e abbia compiuto i miei stessi errori, mi suggeriscono di mantenere uno sguardo critico, di tenere vivo il dubbio sulle mie conoscenze e sui modi idiosincratici del mio stesso apprendere, ché spesso siamo bravissimi a farci lo sgambetto da soli.
Quindi il mio comportamento conoscitivo è da molto tempo orientato a cercare di ottenere il maggior numero di informazioni a favore e contro un determinato argomento, per aumentare le probabilità che il mio giudizio sui fatti sia appunto concreto e circostanziato.
Sospendo il giudizio, indago, formulo un’ipotesi che mantengo valida fino a prova contraria. Su, tutti abbiam visto Sherlock Holmes o il Dr.House, o sentito parlare del metodo scientifico.

Il problema è essere sufficientemente onesti con sé stessi da accogliere nel proprio ragionamento anche ciò che mi contraddice, e spesso non è nemmeno questione di onestà, perché la selezione delle informazioni praticata dal mio guardare il mondo avviene senza che io ne sia consapevole.
Ma di certo l’arroganza di voler aver ragione offusca anche il più limpido degli sguardi.
Per questo dicevo di sorvegliare sé stessi, e tenere sempre in fibrillazione proprio le cose che diamo per scontate, quelle che passano in automatico come postulati indiscussi dei nostri ragionamenti.
Questo sembra facile, specie se tra numerosi pilastri che sostengono la nostra cultura personale (la nostra identità a nostri stessi occhi, tutte le cose che abbiamo pensato e pensiamo di noi stessi e del mondo) ce n’è uno che raccomanda di prestare attenzione proprio agli altri pilastri su cui edifichiamo il nostro personale edificio della conoscenza.
Se l’ignorante per definizione possiede una concezione parzialissima della realtà, con i famosi tre concetti in croce che abitano comodamente nella sua testa, dover mettere in dubbio qualcosa di così fondante gli risulterà impossibile, perché è come togliere una gamba a uno sgabello, cade tutta la persona, e questo francamente è insopportabile.
E gli schemi culturali odierni prescrivono che sia meglio tener duro fino alla fine, lottare anche contro l’evidenza, piuttosto che ammettere di essersi sbagliati oppure pronunciare le parole “non ho capito”.

Caso concreto: la massa indifferenziata di nozioni e informazioni che riguardano la presenza di extracomunitari in italia, su cui poi leghisti e razzisti e in generale persone ignoranti fanno leva per costruire slogan trancianti con cui vincere le discussioni, orientare l’opinione pubblica, ottenere il consenso di quelli che preferiscono non farsi domande e che non vanno a controllare i fatti.

Pippo Civati ha messo online un pdf dal titolo “Mandiamoli a casa“, un prontuario di risposte contro il luoghi comuni e i pregiudizi, basato sui dati concreti della realtà sociale italiana.

Quanti sono gli extracomunitari, da dove vengono, il problema della religione, quanto lavorano, quanto delinquono.
Leggiamolo, e poi parliamone. Però basandoci sui fatti.

Naturismo mediatico

Vecchie suggestioni etimologiche.
Osceno vale ob-scena, ovvero qualcosa che si staglia contro e davanti alla scena teatrale, come quando Costanzo in televisione introduceva il suo show parlando per alcuni minuti davanti al sipario chiuso.
Quello non era ancora spettacolo, il sipario è l’interruttore che apre la quarta parete e la dimensione della rappresentazione.
E molti quando parlano di privacy hanno in mente questo teatro della socialità, fatto di pubblico (che è pubblico di sé stesso), di messa in scena e allestimento, di quinte pareti, di luci di riflettori, magari di registi.
Ma insomma, sappiamo quanto vi sia di pornografico nella Società dello Spettacolo, proprio nell’esibizione di sé al di fuori di ogni cornice, di ogni messa in scena.
Da cui le distinzioni famose di pornografia e erotismo a seconda della presenza di un contesto allestito nell’universo del discorso, e non semplice e crudo documentarismo di pratiche sessuali umane.
E chi giudica la libera espressione di sé oggi in questi media dove ognuno di noi può allestire molte messe in scena di sé deve smetterla di pensare a queste cose come a uno spettacolo pornografico, perché è sempre una rappresentazione della nostra identità. E rappresentazione non è né mimesi imitazione né simulazione, che ne son due casi particolari.
Forse una scarsa competenza nella lettura impedisce a certi di vedere le quinte decorate e i costumi che via via indossiamo a seconda del personaggio che vogliamo interpretare, ma sempre meno avremo paura di dare visibilità ai lati della nostra personalità, quelli professionali e quelli ludici, quelli etici e quelli affettivamente connotati.
Una volta chi voleva poi fare l’eremita si sottraeva al mondo, confrontandosi con il deserto per riacquistare chiarezza nella visione della propria vita, visto che un contesto di privazione ti obbliga a leggere te stesso, sei in un posto dove sei indifferente all’ambiente, ovvero dove l’ambiente non agisce su di te, non si occupa di te, dove potresti non esserci ed è uguale.
Se oggi vado in piazza, espongo liberamente la ma faccia alla collettività in luoghi sociali.
Le espressioni del viso, le parole che dico, i gesti che faccio sono percepiti da altre persone, e se urlo “governoladro” in una manifestazione non si dà il caso che questo non sia avvenuto, e tutti quelli che mi han visto possono testimoniare.
Chiaramente, se sono adulto e voto alle elezioni e ho i miei diritti di cittadino, sono tenuto a sapere cosa posso e non posso fare in relazione al bene pubblico e agli altri, e consapevole di certe leggi che prescivono reati (cose che nessuno ci insegna bene, neanche per sommi capi, a Scuola) posso prefigurarmi gli effetti dei miei comportamenti, e regolare di conseguenza la mia idea di etica, e il mio fare.
Quindi: prendiamo per buono il fatto che una persona che si espone in pubblico è consapevole di essere in pubblico, e sorveglia il proprio fare (secondo consapevolezza) adeguandolo a certi codici comportamentali.

Ecco, una ripresa audivideo di una persona in piazza è libera di circolare ovunque, secondo me, al di là del beneplacito del soggetto ripreso, perché è lui che è andato in piazza.
E comesopra presumo sia in possesso delle sue facoltà, è un cittadino libero che può esprimere il suo pensiero e nessuno può impedirglielo.
Se dice qualcosa di illegale, ci sono le leggi.
Se usando la sua immagine, gli si fa dire dentro un media, cioè dentro una rappresentazione, qualcosa che può ledere la sua dignità professionale e di persona, ci sono leggi per procedere.
Se mi fanno una foto in piazza e poi la mettono sui cartelloni pubblicitari per reclamizzare un lassativo, potrei arrabbiarmi, anche se poi dipende da quanti soldi mi darebbero una volta io scoprissi il fatto per non denunciarli per appropriazione di identità. O gli faccio lavare per bene il fango che han gettato sulla mia persona, se questo è un fatto fattualmente contestabile.

E così, ogni nostro apparire in pubblico è cosa pubblica, di tutti.
Comprese televisioni e Facebook, articoli sul blog o battute su un forum, le cose che guardacaso pubblichiamo.
Anche le immagini prese dalle webcam delle banche o del Comune sono pubbliche, quello è suolo pubblico e quello sono io che passeggio, per questo già dicevo che le webcam cittadine devono essere pubblicamente raggiungibili su apposita pagina web istituzionale, cioè di tutti.
E io da casa posso prendere per dire quelle immagini pubbliche, e usarle dentro un documentario che sto facendo e usarle anche per fini commerciali miei, perché andando in piazza io ho firmato la miglior liberatoria di tutte, quella di espormi personalmente e consapevolmente alla socialità.
Se qualcuno chiama un avvocato, si faccia pure un processo, ma per eventuale diffamazione, non per aver utilizzato immagini pubbliche.

Dipende da te, cittadino. E speriamo che si arrivi presto a parlare ufficialmente a scuola di Educazione alla Cittadinanza digitale, perché di questo stiamo parlando, quando ragioniamo di privacy e di copyright e di lifestreaming.
Dipende da te stabilire quanto far conoscere della tua vita online, quante parolacce usare quando parli male del governo in piazza o su Facebook, quante tracce lasci nel tuo vagare sui territori fisici o digitali. Poi quello che hai fatto è pubblico, perché lo hai fatto in luogo pubblico, e tutti sono liberi di commentare quello che vedono accadere.

Pubblicate pure il vostro numero di cellulare in Rete, rendete pubbliche su Flickr le gallerie in cui siete in panciolle in spiaggia con un drink in mano oltre a quelle in cui parlate in giacca e cravatta davanti a una platea, siate fieri del vostro secondo blog (attualmente aperto con pseudonimo) dedicato all’uncinetto o ai fenomeni paranormali e riconducetelo alla vostra identità ufficiale, oppure giocate liberamente con i ruoli e con gli alias, e mettete in scena i vari personaggi che vi sentite di essere.
Fatevi carico di responsabilità, ormai sapete di essere in pubblico.

Sarete giudicati per il vostro stile di personalità, per le parole con cui abitate il mondo, per la vostra capacità di costruire dei contesti in cui il vostro messaggio possa risaltare, per l’abilità con cui riuscirete a mettere narrativamente in scena la vostra vita, e con capacità erotica.
E questo, in quanto rappresentazione consapevole di sé in luogo pubblico, non potrà mai essere osceno.
Facciamo un esempio? Però se non volete vedere copritevi gli occhi come quelli di Star Trek.

Nella foto qui in parte (dove sono presenti genitali, cliccate consapevolmente) cosa volete mai recriminare alle fanciulle che con mille espressioni diverse si divertono in discoteca? Quella foto è pubblica, è un fatto accaduto, e le ragazze erano tutte consapevoli di cosa stava succedendo e di quale significato avrebbe avuto presso l’opinione pubblica la pubblicazione di una fotografia che le ritraeva in quel contesto. Voi come giudicate quelle ragazze?

Il problema vero è che se dovessi assumere come impiegata una di quelle ragazze, il venire a conoscenza di questa foto non pregiudicherebbe poi molto la mia valutazione sulla sua capacità lavorativa. Se fosse un festino di ragazzi con una spogliarellista, per dire, già il mio giudizio sarebbe diverso, e questo vuol dire che ho a che fare con stereotipi di percezione della socialità, moralismi.
Perché una visione puritana della vita mi deve portare a distinguere morbosamente tra privato e pubblico, instillando in me ossessioni e voyerismi, giudizi morali legati all’esibizionismo di sé? Perché devo vivere in un mondo che vuole nascondere tutto, per poi essere attratto dalle cose che non si devono vedere? La vogliamo smettere con questo volo carpiato, che intorcola il desiderio? La vogliamo smettere con l’ipocrisia dei sepolcri imbiancati?
La dialettica del diritto all’anonimato, del mio non far sapere agli altri cosa faccio, contrapposta alla patina di rispettabilità che pretendo veder vedere riconosciuta dagli altri nella visibiltà della mia faccia pubblica, non può reggere ancora a lungo, nella Società dello Spettacolo ora connessa.
Sono tutte messe in scene antiquate, create dal perbenismo borghese dell’Ottocento che cercava il suo stile tra proletari e nobili, tutte cose che non sono più adeguate alla modernità.
Non riescono più a suggerire il giusto contesto interpretativo per il messaggio che intendiamo lanciare di noi stessi, la nostra rappresentazione di noi stessi nei moltiplicati luoghi sociali.
E noi stessi non possiamo più padroneggiare le forme del nostro essere percepiti: se vent’anni fa mi fotografavano mentre entravo in un sexyshop, avrei potuto sempre corrompere il giornalista, oggi se mi filmano dieci telefonini e mettono su YouTube cosa volete che dica?

Il fatto che i parlamentari siano tutti vestiti uguali, per dire, in giacca e cravatta, indistinguibili, mi è inconcepibile.
Prenderne uno col maglione fa già fotografia meritevole di valorizzazione sulle news. Quanti lati hanno, i politici, due? Bidimesionali, nella loro Flatlandia. E prendo i politici così per dire, mi riferisco a tutti quelli che non si fanno domande.
Ci sono personaggi e situazioni che attraversano perpendicolarmente il loro piano di realtà e loro neanche se ne accorgono. Persone vestite in altro modo, con altri colori, con altri pensieri e altre esperienze di vita. E a cui simili dialettiche svelamento/rivelamento soggiacenti alla nostra concezione attuale della privacy risultano estranee, avendo ben differentemente impostato la gestione della propria immagine pubblica, secondo magari anche altri cardini morali. Ecco perché parlare di naturismo al Tg è qualcosa che va sempre un po’ ammantato di pruderie.

Saremo tutti in pubblico, quando saremo in pubblico, molto più di adesso. Una volta su una piazza c’erano tre cameramen con le tv istituzionali, adesso ci sono migliaia di telefonini. Anche molto di quello che era privato fino a ieri può oggi facilmente esser reso pubblico, da me stesso o da altri.
Comportati sapendo che la tua immagine può viaggiare ovunque, e tocca a te starci attento.
Ma quello che è sicuro è che le forme attuali di tutela della privacy cambieranno profondamente, sotto la spinta di questi cambiamenti tecnosociali.

We didn’t start the fire

Antefatto.
Pranzo di Natale in famiglia, qualche giorno fa.
Tipici discorsi da pranzo di Natale, infatti mia madre si informa presso noi figli di quanta cocaina giri in centro a Udine, perché ha letto su qualche rivista che ormai è più facile procurarsi la bianca che il fumo. Non è che fosse preoccupata per noi figli, eh, ormai c’abbiamo tutti una certa età e siamo tranquilli a vista d’occhio (io faccio ancora il ribelle, ma solo perché son tenuto per contratto in quanto primogenito). E’ che veramente stava conducendo un suo sondaggio personale sulla realtà sociale giovanile odierna. Le abbiam detto le solite cose, che si trova nei bar e chiedendo agli amici degli amici, abbiam fatto balenare immagini di festicciole con avvocati e dentisti e donnine ridanciane, ragazzotti dei quartieri che arrivano in centro tutti in tiro, operai e cuochi e autisti di autobus che devono tenersi un po’ su quando rimangono da soli come cani nelle birrerie con la serranda abbassata delle quattro di notte.
Poi mia sorella butta il discorso sulle pastiglie, a sua volta dice di aver letto un articoletto su Ibiza (nel 2009, neh) e di tutta questa anfetamina che circola nelle discoteche. Stavo per raccontare loro la meravigliosa storia dei Fratelli Righeira di venticinque anni fa, quando mio padre, uomo del ’35 nonché lontano anni luce da sostanze psicotrope che non siano due whisketti ogni tanto, ci informa sobriamente che anche lui prendeva Metedrina, durante un’estate di fine anni Cinquanta, quando faceva l’impiegato presso una agenzia turistica a Lignano Sabbiadoro. Mio padre prendeva metanfetamina, capite; Metedrina era il nome commerciale del farmaco. Faceva il bullo con il ciuffo e i vestiti su misura comprati con i primi stipendi (provo a raffigurarmelo, sono tutte immagini in bianco e nero, come nelle sue foto dell’epoca), noleggiava una spider con altri quattro amici vitelloni e andava a ballare nelle rotonde sul mare, fino alle cinque di mattina. Poi dormiva un paio d’ore, si alzava presumibilmente gnogno coi postumi, passava in farmacia a comprare un po’ di metanfetamina e quindi andava in ufficio dove, parole sue, era lucidissimo e sfoggiava una buona parlantina con i clienti, chi l’avrebbe mai detto.
Perché simili farmaci erano legali e in libera vendita in Italia fino a metà degli anni Settanta in quanto semplici stimolanti, e fino a metà anni ’80 era facile procurarsi anfetamina venduta come anoressizzante (come Vasco rossi con le Plegine), era sufficiente avere una zia un po’ sovrappeso e spedirla a farsi fare opportuna ricetta.

Ante-antefatto
Nei primi/metà anni Ottanta, da ragazzo, dopo il blues e il rocchettone dei ’70 e David Bowie e la new-wave, per un po’ mi tuffai negli anni Cinquanta, per vedere cos’era il be-bop in musica e il beat in letteratura. Mia madre infatti chissà perché mi teneva nascosti i libri di Harold Robbins, ma mi passava “On the Road” di Kerouak e perfino Henry Miller dei Tropici. D’altronde sua madre, la mia nonna danubiana sposata con un siciliano, a sua volta le nascondeva “I peccatori di Peyton Place” ma le permetteva di leggere “L’amante di Lady Chatterley” e il Moravia peccaminoso. Mah.
Uno di quei libri per me fondamentali della beat generation, pubblicato più tardi ma ambientato a metà anni ’50, è “Ultima fermata: Brooklin” di Hubert Selby Jr.
La Bibbia dei miei diciassette anni. Non l’avete letto? Leggetelo. E’ turpe, pulp, cinico, bastardissimo, violento, vero, e scritto in un modo unico, un flusso di coscienza in un discorso indiretto, ma non c’è nessuna velleità letteraria (l’artificio, se c’è, è ben nascosto), solo immagini e narrazione in presa diretta sulla realtà giovanile dei bassifondi di NewYork di quegli anni. Stupri, troie, risse, vagabondare per i bar, tragedie, droga. Un libro di culto, bannato in Italia e in molte parti del mondo per anni.
E la droga costante in quel libro (l’eroina del be-bop compare a tratti, roba da ricchi) è costituita da pastiglie di efedrina, benzedrina, metedrina. E’ sempre la stessa sostanza, al di là dei nomi commerciali, anfetamina dura e veloce, che ti cambia le giornate e le prospettive, i giudizi sulle persone e insomma ti illude benissimo nel farti galleggiare sopra la merda.
Guardate le foto dei Beatles quando avevano le giacche di cuoio, ad Amburgo nel 1960. I Beatles non hanno mai fumato erba fino al 1964, quando Bob Dylan rollò una canna per loro, in un albergo. Fino ad allora, solo alcool e anfetamine. Dopo allora, tutta un’altra musica.
Le anfetamine hanno creato tutta l’energia corporea alla base della rivoluzione giovanile e quindi sociale dei fine Cinquanta/primi Sessanta, tra il rock’n’roll e i tiratissimi Mods londinesi delle Purple Heart. Poi sostanze più cerebrali come l’erba e l’acido avrebbero dato le direzione da far prendere ai pensieri, rallentando e introvertendo le generazioni fino al punk. Degli ultimi trent’anni parliamo un’altra volta.

Conclusioni
Ecco, pensavo che quei due universi di realtà e di discorso, la vita vissuta di mio padre e di mia madre e le storie di quello che andavo scoprendo nelle letture di quei miei anni giovanili non potessero avere punti di contatto. E invece.
Certo lo squallore delle lamiere e dei marciapiedi lerci di Brooklin del ’57 dava sicuramente un giro di pensieri e di emozioni diverso a quei ragazzi di quei libri rispetto al paesaggio incontaminato di un Friuli negli stessi anni ancora pre-industriale, verdissimo e contadino, con le strade bianche. Ma il ritmo dell’esistenza era lo stesso, l’ansia giovanile per la velocità non conosce distanze di tempo e luogo, e perfino le droghe erano le stesse, pensa un po’.

Turning-point

Bene, siamo arrivati alle battaglie, quelle serie, ché di mezzo ora ci sono soldi veri e non giochetti per ragazzi. Il caso Napster scoppiò subito, perché il traffico di mp3 è tecnologicamente più semplice del trasferire video, non fosse altro per il diverso peso dei file, e perché riguardava un target preciso, le generazioni più giovani, ovvero il mercato musicale pop.
Ma quello era oldweb, dove era ancora importante il possesso “fisico” dell’oggetto culturale. Poi è venuto questo web qui, dove la fruizione e la produzione dei contenuti avviene direttamente online, e sono nate le piattaforme video.
Quelli che NON abitano in Rete, ovvero quelli che ci sono ma non vogliono rendersi conto dei diversi meccanismi e dei diversi presupposti culturali nativi e connaturati alla Rete stessa, hanno vinto in questi giorni delle battaglie, mostrando forse buona tattica ma certamente cattiva strategia.Mediaset ha vinto la causa contro Youtube, la quale dovrà rimuovere i contenuti televisivi caricati dagli utenti (soprattutto puntate del Grande Fratello, e capite come il cerchio si chiuda).
EMI GB ha avviato una causa legale contro Vimeo, una piattaforma video come Youtube, per far rimuovere i video di gente normale che canticchia le canzoni del momento, ovvero fa lip dubbing.

I grandi quotidiani italiani (vedi articolo su Repubblica) pagano dei giornalisti per scrivere delle riflessioni sui comportamenti mediatici degli adolescenti che gli adolescenti stessi avrebbero pudore di inserire nei loro temi scolastici, e questi articoli sono scritti sempre con lo stesso tono colorito, da pezzullo di colore e scandalismo da chiacchiere al bar, contro il quale cerchiamo da anni di lottare, consapevoli dei danni provocati nella pubblica opinione italiana da questo modo di fare giornalismo riguardo la comprensione, da metà anni Novanta, dei nuovi cambiamenti sociali indotti dalle nuove tecnologie (nuove, quella volta).

Giornalisti locali che sono anche funzionari pubblici suonano la grancassa della propaganda governativa pubblicando garruli sui loro blog – non linko niente, qui il pudore è il mio, oltre che ad altri ovvi motivi, ma il nome in questione lo trovate in qualche mio post dei giorni scorsi – delle argomentazioni alle quali per trovare aggettivi adeguati dovrei ricorrere ai sinonimi offerti dalla lingua italiana per significare “spazzatura” in tutte le sue accezioni, e ovviamente si tratta di sciocchezze (cose senza sale, che quindi marciranno rapidamente) relative alle recentissime notizie sull’imminente legiferazione su cosucce che Internet oggi permette a tutti, quali la libertà di espressione, senza la quale nessuna democrazia è possibile. Ah già, è proprio la democrazia a essere in gioco, un impaccio di cui disfarsi rapidamente, a giudicare dai comportamenti di chi ci governa. Quanta ignoranza, a essere ottimisti.
Ignoranza che va affrontata, come ho sempre cercato di fare qui e come continuerò a fare, puntualmente. Aspetto solo che Maroni e la Carlucci (bella coppia, vero?) partoriscano i loro decreti o quel che sarà.
Leggete Anna Masera sulla Stampa, per formarvi un’opinione su come il governo stia effettivamente cercando di controllare Internet. Vorrete mica che i cittadini nell’epoca della disintermediazione siano liberi di cercare le notizie dove gli aggrada maggiormente, magari frequentando siti di dubbia moralità? Anche per guardare il Grande Fratello, vi dicono loro come e dove dovete farlo.

Berlusclone #9

L’ultimo dubbio sollevato dai complottisti dietrologi ha fatto emergere in me prepotente la visione complessiva dell’intera questione, ha acclarato trentecinque anni e più di storia italiana dove come tutti sappiamo non solo i pezzi del puzzle non combaciano, ma ti accorgi che ogni singola tessera è a sua volta un puzzle.
Berlusconi è un clone.
Cioè, Berlusconi è molti cloni, avendo la CIA provveduto nel corso degli anni a sostituire via via l’ometto iniziale con personaggi versati nell’una o nell’altra materia. Certo, in Matrix ti connetti con lo spinotto a un software che ti passa tutto quel che ti serve sapere sul kungfu o sulle ricette di alta cucina francese a base di senape di Digione, ma la tecnologia non è ancora arrivata a quel punto, quindi per il momento, come si è peraltro sempre fatto, si sostituiscono le persone dando giusto loro una ritoccatina all’interfaccia. Cioè alla faccia.
Per fatti ancora ignoti, Berlusconi è stato scelto durante la seconda guerra mondiale quale bambino da clonare, colui che avrebbe costituito l’arma segreta degli americani per fronteggiare l’avanzata dei comunisti rossi in Occidente.
Ne han fatti una decina o forse più, di Berluschini, e li han tenuti lì in frigo a vari stadi di sviluppo, pronti a subentrare all’originale quando i tempi avessero richiesto un Berlusconi 2.0, poi il 3.0 e così via, e oggi siamo almeno arrivati al numero nove. Per distinguerli, i servizi segreti americani appellano differentemente il clone, cambiando la prima lettera del nome di battesimo del Nostro. Quindi, abbiamo avuto Ailvio, poi Bilvio, in seguito Cilvio, Dilvio e Eilvio. Il particolare sembra insignificante, ma lascia intuire la cura meticolosa e la maniacale organizzazione con cui negli anni è stata portata avanti la cosiddetta operazione S.I.L.V.I.O, ovvero la Super Intelligence Lifelong Vengeance Italian Operation.
Con altissima probabilità, il vero Berlusconi era quello che strimpellava sulle navi insieme a Confalonieri, quello della spider in giro per Milano, il paninaro del ’59.
Ma i tempi stringevano, arrivavano i turbolenti anni Sessanta, sarebbero nate le contestazioni giovanili, i movimenti operai, il sogno del boom economico italiano si sarebbe infranto, serviva un Berlusconi ferrato in cose di legge fin dalla laurea (secondo alcuni, già qui il vero Berlusconi sarebbe stato rimpiazzato con Ailvio, cresciuto con una educazione specifica in giurisprudenza), ed in seguito sicuramente entrò in gioco Bilvio, il clone imprenditore, quello con il fiuto degli affari che trova i soldi sugli alberi e inventa cittadine nuove di zecca, abilissimo in traffici finanziari.
Per la svolta mediatica dei fine Settanta è evidente ai più come sia stato convocato Cilvio, il terzo clone, quello cresciuto a letture forzate di McLuhan, Debord e Baudrillard, capace di comprendere il potere mediatico nella formazione e nel mantenimento del consenso delle masse, per stabilire sotto l’apparenza dell’innovazione sociale un piano politico conservatore, al fine di contrastare le balzane idee di lotta comunista che andavano prendendo eccessivamente piede in Italia. Eroina e TV han fatto finire l’epoca dei movimenti di piazza, come sappiamo, dove da una parte la mafia e dall’altra un clone eccellente quanto determinante, appunto Cilvio, erano in effetti entrambe realtà pilotate dagli americani, come la stessa loggia massonica P2 cui il clone prontamente aderì.
Cilvio aveva inoltre gusti sessuali più forti, era più intraprendente, più combattivo, pare a causa di una esposizione casuale quanto imprevista a fotografie di Little Tony e chansons e film francesi con Yves Montand durante la giovinezza in laboratorio: si innamora di una donna appariscente, e questo quasi compromette i delicati meccanismi di una pianificazione certosina… ma rapidamente tutto viene riportato nell’alveo della progettazione, cogliendo qualche anno dopo l’occasione di sostituire Cilvio con un quarto clone, quello preparato a puntino per fare i maneggi politici con i socialisti. Molto probabilmente l’acquisto del Milan e la famosa discesa su SanSiro con l’elicottero fu affidata ad un quinto clone, mentre dati sicuri trapelati da intercettazioni telefoniche di George Bush padre con il Gabibbo confermano l’ennesima sostituzione di quel Berlusconi con Filvio, il clone successivamente promotore di Forza Italia, nel corso dei primi mesi del 1993.
Negli ultimi anni le tracce si confondono, forse i tecnici di laboratorio americani, figli di quegli stessi inventori dei cloni negli anni Quaranta, non sono all’altezza della situazione, che sfugge loro di mano.
Filvio impersona quasi sicuramente sicuramente Berlusconi per tutti gli anni Novanta e i primi anni di questo secolo, mentre l’episodio della bandana nell’estate 2004 nasconde e rivela senza dubbio un’ulteriore sostituzione di clone. Entra in scena Gilvio, il quale però essendo stato tenuto in frigorifero per molti anni come embrione è effettivamente più giovane dell’ultimo clone: questo costringe i medici a operare su di lui delle operazioni chirurgico-estetiche di invecchiamento, a sostituirgli i capelli ancora tutti sani con camuffamenti atti a suggerire la giovinezza di un vecchio che si vuole giovane, ma dove nessuno deve sapere che si tratta veramente di un quarantaduenne.
Certo, le naturali pulsioni all’accoppiamento di un corpo ancora forte non possono essere trattenute, e Gilvio non può essere rimproverato per questo, tenendo conto che è stato allevato praticamente in solitudine per decenni, rincuorato solo da vallette del DriveIn misteriosamente scomparse nel corso degli anni Ottanta, ma in realtà rapite dalla CIA.
Pare chiaro a tutti, a questo punto, che sulla scorta delle insinuazioni di quei circoli complottisti e dietrologi cui più sopra facevo riferimento, l’occasione dell’ultimo grave attentato di piazza Duomo a Milano, quello della statuetta scagliata, non sia altro che l’abile mossa con cui coprire l’ulteriore scambio di persona. In quella macchina è entrato Gilvio, ma ne è uscito Hilvio.
Chissà per cosa l’han programmato, Hilvio, il Berlusclone #8.
Finora in tutto dovrebbero essere nove Berlusconi: a me vengono solo in mente i Beatles di Revolution #9, o forse i Clovers di Love Potion #9. Speriamo la seconda, delle due canzoni. L’amore vince sull’odio, ha detto Hilvio (la svolta mistica francescana? Ecco in cosa l’han programmato)

Quell’idiota mi ha colpito

Su Facebook migliaia di cretinetti all’ora cliccano per diventare fan di pagine inneggianti a quel problematico che ha colpito berlusconi.
E’ realtà, mi chiedo ancora, quella dentro Facebook? Come fare la tara di protagonismi, emulatori, giocherelloni, menti leggere, obnubilati facinorosi, dinamiche di gruppo? Qual è l’effetto di realtà che a ricaduta questo evento mediatico suscita, per come viene ripreso su altri socialcosi e sulle televisioni, sui giornali? Conferma o sconferma? Quanto puoi usare queste informazioni per costruire una tua strategia del dire, a supporto di una tua tesi?

A caldo, leggo due post che si interrogano sul valore di quelle immagini, sulla loro capacità di veicolare effetti di realtà, nel mondo delle apparenze mediatiche. Matteo Pelliti e Giovanni Polimeni.
Si parla di svelamento in senso filosofico, si parla di autenticità del dolore su una maschera, e si tratta di interrogativi che ci siamo sempre posti, i quali nell’epoca della rappresentazione simbolica dei massmedia si moltiplicano come immagini tra specchi che si riflettono.
E berlusconi è persona abituata a costruire fiction, cresciuto nella cultura dell’apparenza, dalle tecniche di vendita alle messinscene politiche, dal romanzo della sua vita ai lifting ai teatrini della personalità.

Ma quella faccia insanguinata non mi sembra più maschera, quel dolore non è fiction. Capitava nei romanzi e nelle opere teatrali russe o nordiche di fine Ottocento, di sicuro in Cechov o Strindberg o Ibsen, che d’un tratto un fatto necessario, un accadimento, uno sguardo autentico d’un personaggio incrinasse irreparabilmente le credenze esistenziali del protagonista, ne minasse radicalmente i convincimenti, facesse crollare improvvisamente i castelli di parole su cui tutti noi costruiamo noi stessi. Squarci di realtà, imprevisti e imprevedibili, fratture profonde del senso.

Credo berlusconi dovrà intimamente fare i conti con questa realtà, prima o poi. Sempre più gli arrivano addosso (la moglie, le imputazioni, ora le ferite fisiche) fatti che non possono essere giocati dentro cornici finzionali, dentro narrazioni dove da gran regista può modificare a piacimento il punto di vista del lettore, le quinte degli scenari, l’interpretazione che intende veicolare sugli eventi. E per contrappasso dantesco a lui re egomaniaco dell’apparenza gli arriva addosso proprio un simulacro, un simbolo commerciale di quella Milano che lo ha visto nascere come personaggio pubblico, tiratogli da un poveretto le cui prime parole sono state “io non sono nessuno”. Sono quelle che chiami beffe del destino, e dovrebbero far riflettere.

Sempre che le classiche modificazioni gerontologiche della personalità non abbiano solidificato completamente il delirio narcisistico, fissando e rendendo inattaccabile la sua identità costruita perfino a segni evidenti di mancata sintonizzazione col mondo.
Nel qual caso, prepariamoci ancora una volta a vedere quali strategie retoriche, quali universi di discorso, quali frame di narrazione dovranno essere allestiti per rendere plausibile il racconto della lesa maestà. Possano quel dolore e quello sbigottimento sul suo viso insegnargli qualcosa.

Ahahahha (c’è poco da ridere)

Qualche mese fa scrivevo per Bora.la questo articolo su Daniele Damele, già Presidente del Comitato Regionale delle Comunicazioni CORECOM del Friuli Venezia Giulia, cercando di indagare i motivi delle sue moraleggianti perorazioni vagamente censorie riguardo le libertà della Rete.
I suoi articoli infatti prendono spesso le mosse da gravi fatti di cronaca attinenti i reati di pedopornografia e dalla scoperta di relativi traffici via Internet di video e fotografie, da cui poi Damele giustamente indignato propugna le sue contromosse offensive.
Quando pone l’accento sugli aspetti educativi e sulla prevenzione, non posso che essere d’accordo.
Quando invece parla di limitare l’accesso alla Rete, oppure di eliminare il diritto all’anonimato (idea peraltro meritevole almeno di considerazione, sostenuta in modo bipartisan anche da persone che sul Web abitano da molti anni e sono competenti sulle conseguenze e sul significato etico e sociale di simile scelta) credo fermamente Damele stia sbagliando, e in questo caso si tratta semplicemente di due personali differenti e contrapposte concezioni sul significato del nostro antropologico abitare in questi nuovi Luoghi digitali, e rimane qui o altrove sempre aperto lo spazio di una discussione purché costruttiva e senza fette di prosciutto di San Daniele sugli occhi.

Ciò che in quell’articolo cercavo di esprimere era però soprattutto la mia contrarietà alla sua terza soluzione per contrastare la visione da parte di minori di pagine web inadatte, ovvero il ricorso a un dispositivo tecnico quale un filtro software alla navigazione basato su blacklist da installare sul proprio pc o su quello delle scuole. E dicevo chiaramente che posso capire le esigenze di un dirigente scolastico o di un genitore preoccupato, talvolta l’accrocchio può essere una soluzione, ma una certa etica della comunicazione mi spingeva a far notare che il modo con cui questo filtro viene promosso presso le famiglie e le Istituzioni non risultava affatto chiaro, non veniva spiegato il suo funzionamento tecnico, non si comprendeva se fosse qualcosa messo in vendita e a quali prezzi, non veniva data informazione sulla sua fallibilità e anzi veniva propalato come soluzione miracolosa.

Tra santi e miracoli, quante parole di chiesa sta usando quel materialista di uno Jannis, in questo post? Beh, questo è il punto. Il filtro Davide.it per la navigazione sicura è reclamizzato e venduto da un prete piemontese, Ilario Rolle, le cui risposte piccate sono presenti come commenti, insieme a quelle di Damele, anche sul post di Bora.la succitato, a cui ho dovuto rispondere punto per punto. Un prete paladino della lotta alla pedopornografia.
Il quale prete però è stato pochi giorni fa condannato a tre anni e otto mesi di reclusione, per atti di violenza sessuale su un bambino di dodici anni.
Che meraviglia, eh. Il prete che bacia sulla bocca un bambino, e poi si indigna per quelli che non capiscono la sua battaglia morale contro il marcio che c’è in Internet.
Va da sé, siamo in italia, aspettiamo tutti i gradi di processo prima di dirgli in faccia “sei una merda d’uomo”, nel frattempo leggiamo per contraltare le sue parole addolorate qui, per completezza d’informazione.
Parole addolorate come quelle del Papa contro i casi orribili di pedofilia e violenze nella chiesa d’Irlanda (e chissà nelle parrocchie italiane cosa succede da secoli), senza però scordarci che Ratzinger stesso è dal gennaio 2005 imputato davanti alla Corte distrettuale di Harris County, in Texas, per la copertura data ai membri del clero americano responsabili di abusi sessuali soprattutto su minori. Da che pulpito.

Nel frattempo mi aspetto Damele mantenga un certo silenziostampa sulle vicende del suo amico prete bacione, senza subito gridare al complotto da parte di giudici comunisti e anticlericali.