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Decrescita, una soluzione tecnologica

Proposta di confronto su un progetto per superare la crisi e creare un’occupazione utile

La crescita è la causa della crisi (potrebbe esserne la soluzione?)
In un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci la concorrenza costringe le aziende ad aumentare la produttività adottando tecnologie sempre più performanti, che consentono di produrre in una unità di tempo quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di addetti. L’effetto congiunto degli aumenti di produttività e della riduzione dell’incidenza del lavoro sul valore aggiunto comporta un progressivo aumento dell’offerta e una progressiva diminuzione della domanda di merci. Nei paesi di più antica industrializzazione questo squilibrio è stato accentuato dalla globalizzazione, che ha permesso alle aziende di delocalizzare le loro produzioni nei paesi dove il costo della mano d’opera è minore, per cui il numero degli occupati in questi paesi è diminuito e nei paesi in cui le delocalizzazioni lo hanno fatto crescere le retribuzioni sono così basse che non compensano la perdita complessiva del potere d’acquisto.
Il debito è l’altra faccia della medaglia della crescita
Lo strumento per compensare lo squilibrio tra incremento dell’offerta e riduzione della domanda insito nelle economie finalizzate alla crescita è stato il ricorso al debito, pubblico e privato, dello Stato e delle sue articolazioni periferiche, delle famiglie e delle aziende. La somma dei debiti pubblici e privati nei paesi industrializzati ha raggiunto circa il 200 per cento del prodotto interno lordo. L’incremento del debito è stato superiore alla crescita del prodotto interno lordo perché sul suo ammontare gravano gli interessi composti e i tassi d’interesse aumentano con l’aumentare del debito. Inoltre la sua espansione non ha limiti se non nell’emissione di carta moneta, la cui convertibilità con l’oro è stata sospesa nel 1971 e dipende soltanto dalla volontà politica, mentre la crescita della produzione di merci trova limiti oggettivi nella disponibilità delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili, da trasformare in merci, e nella capacità dei cicli bio-chimici di metabolizzare gli scarti della produzione, che è stata ampiamente superata soprattutto in relazione all’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica da parte della fotosintesi clorofilliana.
Le misure tradizionali di politica economica non funzionano più.
I tentativi di rilanciare la crescita economica effettuati da cinque anni a questa parte non hanno dato i risultati sperati. Secondo la visione ottimistica dell’attuale primo ministro tedesco, signora Merkel, per superare la crisi ne occorreranno almeno altrettanti. Il fatto è che la domanda è sostenuta in maniera determinante dal debito, per cui le misure di politica economica finalizzate a ridurlo deprimono la domanda e aggravano la crisi, mentre le misure finalizzate a rilanciare la domanda attraverso la crescita dei consumi lo accrescono. Per superare questa impasse, senza peraltro ottenere i risultati sperati, le misure di politica economica adottate sino ad ora nei paesi industrializzati sono state finalizzate a:
  1. ridurre i debiti scaricandone i costi sulle classi sociali meno abbienti e sui ceti medi, mediante drastici tagli alla spesa pubblica per i servizi sociali, riduzioni delle tutele sindacali dei lavoratori, licenziamenti e blocchi delle assunzioni che hanno penalizzato soprattutto le fasce giovanili, inasprimenti della fiscalità indiretta, cessione ai privati della gestione dei beni pubblici
  2. rilanciare la crescita finanziando col denaro pubblico grandi opere infrastrutturali, realizzabili soltanto da grandi aziende multinazionali.
Inasprimento della lotta di classe dei ricchi contro i poveri.
Questa strategia, peraltro fallimentare, per superare la crisi, è sostenuta da un blocco di potere costituito da tutti i partiti politici, di destra e di sinistra, che hanno la loro matrice culturale nell’ideologia della crescita di derivazione ottocentesca e novecentesca, dalle industrie multinazionali e dalla grande finanza, con un progressivo disprezzo delle regole democratiche a cui pure dicono di ispirarsi. Nei partiti politici di destra e di sinistra, le differenze sui criteri di distribuzione della ricchezza monetaria prodotta dalla crescita della produzione di merci sono sempre meno significative, rispetto alla sostanziale convergenza sulla scelta di scaricare sulle classi popolari e sul ceto medio i costi del rientro dal debito pubblico e di rilanciare la crescita attraverso la mercificazione dei beni comuni e un programma di grandi opere.
Le posizioni neo-keynesiane.
All’interno dell’obbiettivo comune di rilanciare la crescita l’unica differenza politica sulle strategie per raggiungerlo si verifica con alcune frange della sinistra, le correnti new labour e l’estrema sinistra, che sostengono la necessità di
  1. ridimensionare le misure restrittive finalizzate a ridurre il debito pubblico perché hanno un effetto depressivo e, quindi, in realtà lo aggravano riducendo le entrate fiscali;
  2. realizzare una più equa redistribuzione del reddito alle classi meno abbienti perché è l’unico modo per rilanciare i consumi;
  3. aumentare il prelievo fiscale alle classi più ricche per sostenere gli investimenti, con un’attenzione particolare alla cosiddetta green economy;
  4. incrementare la spesa pubblica per creare occupazione nei servizi sociali a vantaggio delle categorie sociali più deboli.
Un’incredibile rimozione collettiva.
Un’incredibile rimozione collettiva induce i sostenitori della crescita, a qualsiasi corrente di pensiero appartengano, a ignorare i legami delle attività produttive con i contesti ambientali da cui prelevano le risorse da trasformare in merci e in cui scaricano le emissioni dei processi produttivi e gli oggetti che vengono dismessi al termine della loro vita utile. Nella fase storica attuale la crescita non solo è la causa di una crisi economica da cui non ci si può illudere di uscire ripristinando le condizioni precedenti ad essa, perché non può non accentuare progressivamente lo squilibrio tra gli incrementi dell’offerta e la diminuzione della domanda di merci, ma anche di una gravissima crisi ambientale caratterizzata da un prelievo di risorse riproducibili superiore alla loro capacità di rigenerazione annua e da un consumo di risorse non riproducibili che ha ridotto pericolosamente gli stock di alcune di esse, in particolare le fonti fossili, dove il rapporto tra l’energia ricavata e l’energia consumata per ricavarla è crollato (l’e.r.o.e.i., Energy Returned On Energy Invested, del petrolio, che fino al 1940 era superiore a 100, nel 1984 era sceso a 8), mentre al contempo l’aumento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera ha raggiunto una soglia pericolosa per la sopravvivenza stessa della specie umana.
Investire nelle tecnologie che riducono gli sprechi di energia e risorse naturali.
La scelta strategica per uscire dalla crisi aprendo una fase più avanzata nella storia dell’umanità è lo sviluppo delle tecnologie che riducono gli sprechi delle risorse naturali aumentando l’efficienza con cui si usano. Nei paesi industriali avanzati gli usi finali dell’energia sono costituiti al 70 per cento da sprechi. Se la politica industriale venisse finalizzata a ridurli, si aprirebbero ampi spazi per un’occupazione utile, i cui costi sarebbero pagati dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici senza aggravare i debiti pubblici e privati. Lo sviluppo di queste tecnologie consentirebbe inoltre di attenuare le crisi internazionali per il controllo delle fonti fossili e la crisi climatica causata dalle emissioni di CO2.
La decrescita selettiva della produzione di merci è alternativa sia all’austerità, sia al consumismo irresponsabile.
Il rilancio del consumismo a debito, che comporta un aggravamento della crisi ambientale, non è l’unica alternativa all’austerità, che comporta un aumento della disoccupazione, privando del futuro le giovani generazioni e causando peggioramenti alle condizioni di vita delle classi sociali più deboli. L’austerità non è l’unica alternativa all’aumento del debito pubblico. La decrescita selettiva della produzione di merci, finalizzata alla riduzione del consumo di materia e energia a parità di servizi, è alternativa sia alle politiche di austerità, che aggravano la recessione, sia alle misure espansive di tipo keynesiano basate sul rilancio del consumismo a debito, che mettono in luce solo il collegamento tra più equa redistribuzione della ricchezza monetaria, crescita della domanda e crescita della produzione di merci, ma espungono dal loro orizzonte mentale la correlazione tra l’aumento del debito monetario, finalizzato a rilanciare produzione e consumi, e l’aumento del debito nei confronti della natura che ne consegue.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci.
La causa scatenante della crisi, a partire dalla crisi dei mutui subprime che le hanno dato avvio nel 2007 negli Stati Uniti, è stato il numero crescente di case invendute. Lo stesso problema è particolarmente acuto in Spagna, in Irlanda, in Italia. Questa situazione per la prima volta dal dopoguerra ha rovesciato uno dei capisaldi dell’ideologia della crescita, sintetizzato in Francia dal detto Quand le bâtiment va, tout va. Oggi l’unico modo di rilanciare il settore dell’edilizia non è la costruzione di nuovi edifici che non troverebbero una domanda, ma la ristrutturazione, principalmente energetica, degli edifici esistenti, affinché riducano almeno di due terzi i loro consumi riducendo le dispersioni termiche. L’unico modo di affrontare la crisi dell’industria automobilistica non è l’illusione di rilanciare la domanda con l’offerta di nuovi modelli, dal momento che dagli anni sessanta ad oggi le automobili circolanti in Italia sono passate da meno di 2 milioni a oltre 35 milioni, ma implementare la produzione di microcogeneratori, che raddoppiano l’efficienza nell’uso dell’energia, ovvero dimezzano i consumi a parità di servizi energetici. L’unico modo di ridurre i costi dei generi alimentari (aumentati del 170 per cento negli ultimi 10 anni a causa dell’aumento dei prezzi delle fonti fossili, che incidono non solo sui trasporti, ma in tutte le fasi produttive dell’agricoltura chimica) è l’incentivazione dell’agricoltura biologica, stagionale, di prossimità, con vendita diretta dai produttori agli acquirenti organizzati nei gruppi d’acquisto solidale, che richiede un maggior numero di occupati, riduce l’impatto ambientale e il consumo di fonti fossili, contribuisce a ridurre i dissesti idrogeologici, ammortizza i maggiori costi di produzione bypassando le intermediazioni commerciali.
Il blocco di potere cementato dall’ideologia della crescita.
La classe dirigente dei paesi industrializzati è composta dall’alleanza strategica tra tre soggetti sociali cementati dall’ideologia della crescita: i partiti politici di destra e di sinistra che hanno le loro radici nella cultura industrialista e produttivista maturata nel corso dell’ottocento e del novecento, le grandi aziende multinazionali prevalse nel corso del novecento dalla competizione con le loro concorrenti, e il comparto specifico dell’alleanza tra questi due soggetti costituito dal complesso politico-militare. Il fulcro su cui questa classe dirigente fa leva per far ripartire la crescita sono le grandi opere pubbliche, che possono essere commissionate solo dallo Stato centrale, o dalle sue articolazioni periferiche, e possono essere realizzate solo da aziende multinazionali. Ma la crescita economica richiede consumi crescenti di energia e materie prime che si possono ottenere solo attraverso il controllo militare delle aree del mondo in cui si trovano. I sistemi d’arma necessari per esercitare questo controllo possono essere commissionati solo dai partiti politici che li ritengono necessari per garantire l’incremento dei consumi energetici, e possono essere prodotti solo da aziende multinazionali. Non a caso le politiche restrittive adottate per ridurre i debiti pubblici non hanno scalfito i privilegi della casta politica, non hanno tagliato i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, né le commesse all’industria militare.
Una nuova cultura per una nuova alleanza sociale.
Una politica economica finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci e del consumo di energia e materia mediante la riduzione degli sprechi, può essere promossa solo da forze politiche non condizionate dai vincoli dell’ideologia della crescita di origine ottocentesca e novecentesca e può essere realizzata solo da piccole aziende, professionisti e artigiani radicati nei territori in cui operano, in grado di effettuare una serie di interventi puntuali, anche di portata limitata. Il settore prioritario in cui occorre intervenire è la riduzione degli sprechi e delle inefficienze negli usi energetici, in particolare negli edifici, che assorbono quasi la metà dei consumi energetici globali e dove si possono ottenere, a parità di benessere, riduzioni superiori al 70 per cento. Una politica industriale finalizzata alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente offrirebbe opportunità di lavoro non altrimenti ottenibili a una miriade di operatori del settore e consentirebbe di accrescere l’occupazione in attività qualificate.
Avviare un confronto tra i potenziali sostenitori di un progetto politico finalizzato a superare la crisi mediante una decrescita selettiva della produzione di merci.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci si può realizzare soltanto se si aggrega un’alleanza di forze politiche, sociali, imprenditoriali e professionali consapevoli del contributo che possono apportarvi con la loro cultura, le loro scelte comportamentali, il loro impegno sociale o ambientale, le loro competenze tecniche, la legittima esigenza di utilizzare a pieno i loro impianti tecnologici per produrre e dare lavoro. I soggetti sociali potenzialmente interessati a collaborare a un progetto di questo genere, sono i seguenti.
1. Le forze politiche non catalogabili negli schieramenti di destra e sinistra in cui si suddividono i partiti accomunati dall’ideologia della crescita, già presenti in alcune istituzioni. Un esempio emblematico si è realizzato nel Comune di Avigliana, in Val di Susa, dove alle elezioni amministrative del 2012 si sono presentate due liste. Una composta dall’alleanza tra il principale partito di centro destra e il principale partito di centro sinistra, accomunati da un programma a favore della realizzazione del treno ad alta velocità con la motivazione che darebbe un impulso alla crescita e all’occupazione.[1] Nella coalizione antagonista, che ha vinto le elezioni, sono confluiti i rappresentanti dei movimenti contrari al TAV a causa della sua inutilità e dei suoi costi, che proponevano in alternativa di indirizzare gli investimenti sullo sviluppo di attività lavorative a tutela del territorio e a ripristino delle devastazioni che ha già subito. Accanto ad alcune di queste esperienze locali è anche in corso di realizzazione un progetto di aggregazione politica nazionale che sta ricevendo una quantità di consensi superiore a ogni altro partito storico, sebbene la sua fisionomia sia ancora caratterizzata prevalentemente dalla contrapposizione al sistema di potere incarnato da quei partiti più che da un progetto di futuro. Ma le fasi di passaggio di epoca storica non sono mai lineari. I progetti di rottura e ricostruzione si chiariscono progressivamente e solo se sono in grado di catalizzare e far interagire le altre forze che al di fuori delle istituzioni, nei contesti sociali più disparati e nelle attività produttive, realizzano tasselli di un progetto con caratteristiche analoghe.
2. Le piccole aziende e gli artigiani, che attualmente lavorano per lo più nell’indotto delle grandi aziende multinazionali, o come contoterzisti. Costoro non soltanto non vedono valorizzato socialmente il loro ruolo produttivo, ma sono costretti a operare in condizioni sempre più precarie e con utili sempre più ridotti perché in questo modo le aziende multinazionali per cui lavorano riescono ridurre i costi di produzione e sostenere la concorrenza sui mercati globali. La liberazione delle piccole aziende e degli artigiani, che costituiscono il 99 per cento del’industria italiana, da questo ruolo subordinato all’interno dell’economia della crescita può avvenire solo se si ricrea una rete di rapporti commerciali diretti con gli acquirenti che vivono nelle realtà locali in cui esse operano. In questo quadro acquistano un’importanza strategica i professionisti, che costituiscono il canale di comunicazione tra produttori e acquirenti. E un’importanza altrettanto strategica hanno le piccole aziende agricole biologiche di prossimità che sono in grado di garantire la sovranità alimentare a differenza delle grandi aziende multinazionali del settore agro-alimentare, che agiscono sul mercato mondiale e sono del tutto indifferenti alle realtà locali in cui operano.
3. I settori del sindacato che non si sono piegati al ricatto di accettare la riduzione delle tutele, della dignità, della salute e dei salari dei lavoratori per consentire alle aziende multinazionali di sostenere la concorrenza sui mercati mondiali riducendo i costi del lavoro anziché i costi degli sprechi nell’uso delle risorse, o nella patetica illusione di attirare gli investimenti stranieri attualmente indirizzati nei paesi dove il costo della manodopera è molto inferiore, gli orari di lavoro molto più lunghi e non esistono le garanzie conquistare dai lavoratori europei nei decenni passati.
4. Le molteplici forme associative in cui si esprime il bisogno di contribuire al bene comune da parte dei settori più sensibili della popolazione, che non trovano nelle strutture dei partiti esistenti i luoghi in cui esprimere la loro cittadinanza attiva: gruppi di acquisto solidale, banche del tempo, comitati per la tutela del paesaggio, movimenti contro la realizzazione di grandi opere devastanti per i territori in cui abitano, associazioni di volontariato sociale e culturale, associazioni volontarie di comuni impegnati nella tutela del loro territorio e della qualità della vita dei suoi abitanti, gruppi dell’associazionismo cattolico e di altre professioni religiose, aziende operanti nel terzo settore, associazioni ambientaliste e di promozione sociale, comitati di genitori nelle scuole, reti dell’economia solidale e della finanza etica ecc.
Il Movimento per la decrescita felice invita questi soggetti a verificare se, sulla base delle riflessioni qui riassunte, sia possibile realizzare momenti di confronto comuni per collaborare ad affrontare una crisi, che non è solo economica e ambientale, ma una vera e propria crisi di civiltà.
Movimento per la Decrescita Felice

Nuovissimi abitanti

I dispositivi touch hanno modificato completamente la percezione sociale delle interfacce verso gli ambienti digitali, grazie alla loro trasparenza.
Rimuovendo quell’alone tecnico che ancora purtroppo circonda i computer, fatto di cavi visibili e di mouse e di procedure d’uso pseudoingegneristiche (“avvia il sistema”, “pannello di controllo”, scarsa usabilità per connettere due pezzi di hardware), gli schermi tattili recuperano una certa naturalezza immediata dell’interazione, a tutto vantaggio di una fruizione libera e giocosa.
Dell’iPad già si parla come strumento principe per recuperare alla Cultura digitale le fasce d’età anagraficamente avanzata, permettendo loro di immettere le loro esperienze nella Grande conversazione senza essere costretti ad affrontare curve di apprendimento sull’utilizzo degli strumenti e degli ambienti di connettività personale.
Di converso, cliccando sull’immagine sopra potrete vedere la naturalezza con cui avviene l’interazione di una bambina di due anni e mezzo, certamente cresciuta insieme agli iPhone, con un iPad. Non vi è nessun blocco, nessun diaframma cognitivo, nessuna paura.

I libri ci leggono

Mettiamo il caso specifico delle tecnologie didattiche.
Lavagne interattive, pc in classe, videocamere, registratori. La buona letteratura sull’argomento ci dice che potrebbe essere perfino controproducente rispetto all’apprendimento considerarle come qualcosa di aggiunto al normale flusso comunicativo tipico delle mattinate a scuola.
Per l’insegnante l’utilizzo di edutic in classe dovrebbe essere un gesto fluido, a tempo con il dialogo o multilogo del gruppo classe; se invece devo spostarmi in aula multimediale, oppure collegare lavagna o videoproiettore, trovare le chiavi dell’armadio per tirar fuori la macchina fotografica, spezzo il flusso e va ricostruito l’ambiente mentale dell’apprendimento.
Per questo qui si dice che le tecnologie in classe vanno pensate come ambienti, non come strumenti, in particolare se parliamo di Luoghi di apprendimento digitali come i blog di classe, le piattaforme FAD, le community.
Un insegnante non pensa “adesso uso la lavagna”, “adesso uso il libro”. Per motivi storici, vi è naturalezza nel suo disporre dei sussidi. Lo stesso dovrebbe avvenire con il computer o con la LIM, se quegli strumenti abitassero già, in modo nativo o naturalizzato, nella sua mente e nel suo pensare la propria attività professionale. Gli strumenti ci abitano, noi abitiamo in un ambiente mentale che contempla gli strumenti, quando li usiamo abitiamo le potenzialità che quegli strumenti ci offrono.
“Quando impugno un martello, tutto assomiglia a un chiodo”. L’affermazione spiritosa coglie bene proprio questo aspetto: la relazione tra il mio pensare (percepire, progettare, prevedere, esplorare, predispormi all’azione) e le potenzialità dello strumento. Non vedo nessuna difficoltà a dire “il martello mi abita”, ovvero “io abito il martello”.
Il discorso vale anche per la tecnologia tutta, la quale non va vissuta come corpo estraneo rispetto alla cultura umana, nemmeno l’avessero portata gli alieni, ma va concepita come propria della specie umana. La tecnologia non è uno strumento, è l’ambiente dentro cui /grazie al quale progettiamo le trasformazioni del territorio per sopravvivere come specie.
Per questo dovremmo essere tutti un po’ tecnologi (mica tecnici), essere consapevoli del mondo costruito in cui viviamo, senza bloccarci dinanzi a questi ragionamenti molto umani, e la Scuola dovrebbe riuscire a rendere consapevoli le nuove generazioni della tecnologia che ci abita.
Noi tutti quindi abitiamo nella tecnologia (guardatevi attorno), e con essa dialoghiamo, quotidianamente. E lo facciamo da millenni, e siamo cresciuti insieme, siamo ibridati con la tecnologia, la tecnologia cambia la natura umana, e Frankenstein è un libro del primo Ottocento. “Cambia il modo di fare figli, di allevarli e di educarli. Cambia il modo di comunicare, di apprendere e di insegnare”, dice Giuseppe O. Longo. La tecnologia cambia la nozione di tempo, la percezione dello spazio, il concetto di realtà, e conseguentemente cambiano le forme sociali, i tribunali e gli ospedali e le scuole, le case e le città, i modi con cui ci relazioniamo agli altri.
Ma torniamo nello specifico, parliamo di supporti tecnologici della conoscenza, parliamo di libri.
Sono millenni che ci accompagnano, i libri, cinque secoli in formato a stampa.
Ma adesso ci sono gli e-book, e alla specie umana succederà qualcosa, come sempre accade quando si modifica la forma e le funzionalità degli strumenti base dell’apprendere.
Matureremo nuove modalità di accesso all’informazione, ora che sono cambiate le interfacce. Sì, un libro è un’interfaccia, una porta per lo scibile, visto che ogni libro parla di altri libri. E noi interagiamo con il libro, secondo l’usabilità che l’oggetto tecnologico ci permette. E con gli e-book il libro si fa abitare in modo diverso, e accende scintille nuove nella nostra testa.

E se un e-book è testo elettronico, che appare e scompare, che possiamo manipolare, già oggi è possibile fare un passo in più, se a esempio il libro ci guarda mentre leggiamo.
Se il libro fosse provvisto di una videocamera che segue il movimento dei nostri occhi e modifica ciò che appare mentre leggiamo, aiutandoci a potenziare l’esperienza, mostrandoci immagini o collegamenti ipertestuali, perché il libro (su un tablet, su un iPad) sa dove stiamo puntando lo sguardo, se ci soffermiamo su una parola, ci segue nel nostro ritmo di lettura.
Dialoghiamo con la tecnologia, è cosa tutta umana, non può esserci estranea.

Qui su Wired.com trovate l’articolo (in inglese), qui sotto metto il video.

Antropologia e educazione per l’Information Overload

Dice una pagina autorevole in inglese segnalata da Giuseppe Granieri che il problema dell’information overload in realtà va almeno un po’ rivalutato, nel suo porsi stesso.

Infatti, le giaculatorie di filosofi e pensatori che si lamentano della progressiva scarsità di attenzione delle persone esistono dal Cinquecento con il diffondersi dei libri, Diderot in seguito si preoccupava che il numero dei libri è destinato a salire e quindi diventerà per noi difficile (!) apprendere dai troppi libri e bisognerà inventarsi qualcosa, ogni tanto un guru a noi contemporaneo fa notare pensosamente come ci siano sempre più informazioni, sempre più veloci, e sempre minore sia la nostra capacità di attenzione.

Ma questa affermazione contiene una sua tutta sua logica peculiare, che la fa funzionare e in grado di essere giudicanta coerente e di buon senso.
Ci sono degli impliciti, che se indagati non si rivelano poi così lampanti, dice l’autore del pezzo, Stowe Boyd.
A esempio, la cornice di queste argomentazioni presuppone un “c’era una volta, molti anni fa” un mondo in cui l’attenzine non era scarsa, in cuii non soffrivamo di troppa informazione, e tutti avevamo un sacco di tempo per ragionare sul mondo, su qual era il nostro posto, e magari anche prendere decisioni più sagge e ragionate.
Insomma, un tipico meccanismo da “fuga nell’Età dell’Oro”. Un sacco di gente e di gruppi sociali si inventano il mito dell’età dell’Oro, perché narrativamente poi torna molto comodo impostare questa Età dell’Oro in modo che poi venga facile capire dove ci troviamo adesso. E se quella là era l’Età dell’Oro, questa qui è sicuramente qualcosa di peggiore, dove la civiltà è decaduta, i costumi degli antichi sono andati perduti, e le innovazioni moderne minacciano di distruggere tutto ciò che c’era di buono e giusto. Già questa è una credenza poco razionale.

Poi, l’altro classico argomento è che la specie umana non ha proprio la capacità di padroneggiare tutta la massa smisurata di informazioni che si riversa addosso a ogni individuo con la forza di un torrente, nella liquidissima società odierna. L’uomo non è cognitivamente adeguato a fronteggiare tutti questi stimoli.
Ma in realtà cosa ne sappiamo noi nel cervello? delle sue potezialità di attenzione e di selezione del flusso? E non dimentichiamoci di cosa avviene su scala generazionale, e basta guardare i ragazzi e i bambini per vedere come abbiano già diverse nuove competenze (nuove strategie) per gestire i rapidi e multipli flussi informativi veicolati da nuovi strumenti – videocamere e videoregistratori, videogames, web, cellulari propri della loro generazione, ma non di quella adulta. E anche gli adulti di oggi sono a loro volta cognitivamente diversi dai loro genitori, essendo a differenza di loro cresciuti immersi nel flusso televisivo commerciale, molto più rapido.

Pensiamoci: come specie ci siamo sviluppati in un mondo naturale e antropico (manufatti tecnologici) che offre un infinito ammontare di stimoli e informazioni; abbiamo sviluppato utensili concreti e concettuali – la scrittura, la matematica, le mappe e il disegno, il metodo scientifico – per capire meglio il mondo, sviluppando insieme le nostre capacità emotive e cognitive di comprensione; siamo oramai dentro un mondo postindustriale, dove abbiamo creato dei sistemi di supporto all’informazione su scala planetaria in tempo reale, dove il web è diventato tra i più importanti artefatti umani, in quanto sostegno alla comunicazione e alla relazione interpesonale; stiamo costruendo in questo stesso momento artefatti e strumenti ancora più complessi, come la realtà aumentata, Luoghi sociali di massa, dispositivi di connessione mobile ubiquitarii, e al contempo ci inventiamo le nuove norme sociali e le struttre che ci assistano in queste nuove attività umane.

Quindi, non si può in realtà “rispondere” a quelli che parlano di information overload, se non dicendo loro che non possiamo rispondere a qualcosa dentro cui siamo coinvolti personalmente fino al collo, nell’inventarci quotidianamente nuovi usi sociali e nuove possibilità di espressione personale proprio con gli strumenti stessi, che conosciamo forse da cinque anni (web20, videostreaming, socialnetwork): stiamo sperimentando.
E le nuove tecnologie, il web o la scrittura o la stampa o l’invenzione dei soldi e della medicina scientifica sono innanzitutto ponti che ci portano verso qualcosa di nuovo, verso cui siamo socialmente evoluti o di cui perlomeno abbiamo sentito la necessità e operato per rimediare alla mancanza, e non sono delle ruspe con cui demolire il passato.

Non vi è nessun passato dorato da cui siamo decaduti, ed è improbabile che nel nostro futuro raggiungeremo i limiti umani che ci impediscono di cogliere meglio e di comprendere più in profondità il mondo in cui viviamo.
Quello che da sempre l’umanità sta facendo è estendere costantemente la cultura affinché ci aiuti a riformulare il modo in cui percepiamo il mondo e il nostro posto in esso.

Questo il ragionamento espresso in quell’articolo.
Sul breve periodo, ci saranno burrasche notevoli. E’ come un movimento tettonico, dove ampie aree continentali collidono, e si creano catene rocciose. Sto pensando al destino degli organi di informazione tradizionali, ai supporti che veicolano queste ultima (giornali, libri, video), ma anche alle mareggiate subite dall’idea stessa di privacy e di anonimato, di competenze per la gestione cognitiva e affettiva del proprio abitare in un Mondo connesso, un pianeta su cui dall’invenzione del web in qua è possibile comunicare multimedialmente il proprio pensiero a tutti in tutto il mondo, in tempo reale, e l’umanità può ragionare tutta insieme come se fosse un sol’uomo (o donna), dove democraticamente ognuno di noi volendo interviene liberamente nel dibattico pubblico.
Le vecchie logiche non “tengono”, la vecchia crosta raffreddata di consuetudini e costumi obsoleti in quanto non più adeguati, codificati poi in leggi e senso comune non può sostenere un magma che da sotto ribolle, fatto di nuovo ritmo e accresciuta potenza mediatica e smisurato numero di partecipanti. Si proverà un po’ a irrigidire le difese, ma non servirà. Ci han provato l’industria musicale con gli mp3 di Napster, ci han provato i mercati del cinema, ci sta sbattendo contro il mondo della carta stampata oggi, semplicemente all’apparire diffuso di supporti mobili con uno schermo decente, iphone compreso. Ci stanno avendo a che fare la Scuola e le Istituzioni tutte con questo “cambiamento necessario”, e non si accorgono che stanno cambiando.

Quindi: cercare di comprendere a fondo le dinamiche di quanto sta avvenendo, tenendo sempre presenti il carattere ipoteticissimo attuale delle nostre interpretazioni a causa della rapidità dei cambiamenti attuali, e fiducia nella conversazione, perché con molta probabilità molti che ragionano tutti insieme vedono meglio il problema rispetto a una persona sola.

E poi: l’eterno unico strumento per migliorare l’ambiente di vita futuro, visto che è nel futuro che vogliamo agire, ovvero l’Educazione.
Una Educazione che sappia anche raccontare innanzitutto come funzionano le cose di oggi, le autostrade e i bancomat e le Istituzioni e le filiere economiche concrete di un territorio, per meglio lasciar libere le nuove generazioni di vivere nel loro mondo, dove non vincolati possano cercare a loro volta di seguire il loro ideale di Benessere, senza essere costretti a vivere male a cause di nostre scelte sbagliate, magari radicali e indelebili.
Se così faremo, quando i nostri figli si guarderanno indietro ci giudicheranno per i nostri valori e pratiche di possibilistica apertura al nuovo, cioè al mondo che loro abiteranno, piuttosto che per nostre stolte scelte di un pensiero unico e troppo schematico in cui loro un domani si troveranno impacciati a doversi dibattere per liberarsene.

Un help-desk per i supporti tecnologici

Certo, dev’essere dura.
Quest’anno a Natale l’ebook reader Kindle o iLiad o Cybook sarà il regalo sotto l’albero per moltissimi americani, il boom da noi potrebbe essere per l’estate prossima.

Un’altra di quelle rivoluzioni epocali portateci dalla Cultura Digitale: ne parlano Luca DeBiase e Sandrone Dazieri su Nòva Sole24ore, Antonio Tombolini sul blog di Simplicissimus.

Qualcosa di simile deve essere accaduto nella seconda metà del Quattrocento, con la diffusione della tecnologia della stampa. Magari ancora prima, quando si diffuse la rilegatura di buona carta, come la storia di Fabriano insegna.
Nel video qui sotto, la ricostruzione scherzosa di un help-desk dell’epoca.

Come progetti una scuola per il futuro quando non puoi predire il domani?

Il titolo pone un problema, perché fino a ieri immaginarsi e progettare il fare scuola era piuttosto facile. Esistevano tradizioni di pensiero secolari riguardanti i valori pedagogici e la metodologia didattica e perfino l’organizzazione del tempo e dell’architettura scolastica da adottare (tutte cose che grossomodo derivano dall’impostazione delle scuole e dei collegi cattolici, poi passate nelle istituzioni statali e tuttora presenti), a cui poi il Novecento ha aggiunto degli approcci basati su una visione attiva del discente, su concezioni dell’apprendimento in grado di contemplare il ruolo del gruppo-classe nel processo di acquisizione di competenze, l’orientamento dei curricoli in direzione dapprima di una modernità fatta di industrie e di operai alla catena di montaggio e poi di impiegati del settore terziario.

Per ben progettare in ogni caso è determinante aver ben chiaro che stiamo “scommettendo” su una specifica rappresentazione del futuro (la quale orienta poi consapevolmente o meno il nostro “pensiero progettante”), e guarda caso la scuola non può che agire sul futuro, quale Luogo istituzionale deputato all’educazione delle nuove generazioni. E fino a quarant’anni fa era appunto piuttosto facile immaginarsi una società futura, nel senso che gli ambienti di crescita dei figli non sarebbero differiti poi molto (tranne nella fantascienza più onirica) da quelli dei padri: ad esempio le aule scolastiche non sarebbero state granché diverse, si sarebbe potuto pensare. I cambiamenti erano lenti.

In effetti le aule non sono poi cambiate molto nel ‘900, e un insegnante congelato nel 1904 avrebbe preso paura del mondo odierno (automobili e rumore, cemento dappertutto, pc, tv, radio, cinema, cellulari etc.) ma avrebbe subito riconosciuto un’aula scolastica, pressoché uguale in quanto arredata dalle stesse tecnologie di trecento 300 anni fa (banchi, cattedra, libri, lavagna, quaderni). Se la scuola assomigliasse al mondo (se non vivesse dentro una bolla in modo autoreferenziale) sarebbe piena di schermi e computer e sistemi di connettività, avrebbe così tante finestre da poter essere considerata senza muri, ma così non è, e conosciamo la problematica.

Oggi viviamo un’accelerazione tale delle innovazioni tecnosociali che ci circondano, che risulta difficile dire come sarà il mondo tra quindici anni. Pensateci: quindici anni fa cominciavano a prendere piede il web e il telefono cellulare, e quasi nessuno di noi sapeva cos’erano, e decisamente han cambiato la nostra vita.
Queste tecnologie di comunicazione rendono abitabile la distanza interpersonale, ci traghettano nell’Era digitale, hanno creato nuove forme di lavoro, rendono possibile nuove forme di didattica a scuola, interconnettono le reti interpersonali della società e al contempo rendono visibile il tessuto relazionale delle collettività, ci costringono a rinnovare e rimodellare la nostra identità e il nostro essere Abitanti, modificano i concetti di privacy e proprietà intellettuale, di pubblico e privato, di partecipazione individuale e collettiva ai meccanismi consultivi e decisionali della democrazia.

Quindi, urge chiedersi cosa significa progettare la scuola di questo nostro futuro esponenziale, quando i 10 lavori più richiesti del 2010 non esistevano nel 2004, e noi stiamo preparando studenti per lavori che ancora non esistono, che useranno tecnologie che non sono state ancora inventate, per risolvere problemi che ancora non conosciamo (dalle parole di una famosa presentazione web sui cambiamenti degli ambienti fisici, digitali e sociali degli ultimi anni).

Certo, progettare una nuova scuola è impellente, ma si tratta anche di argomento sì delicato, da far cadere i governi, e non si tratta affatto di una battuta, nella storia recente italiana.

Giusto una annotazione, corroborata da una foto: un buon punto di partenza sarebbe spostare decisamente il focus dell’organizzazione didattica dai curricoli centrati sulle discipline a quelli basati sulle competenze finali degli allievi, il che come nei buoni casi di comunicazione significa passare dal punto di vista dei fornitori di servizi (la Scuola, e quel pensiero vecchiotto del fare scuola che abita le menti di chi a scuola oggi ci lavora, insegnanti e dirigenti) al ragionare sul destinatario, quegli studenti da cui sempre bisogna ripartire quando si perde l’orientamento e ci si accorge che il proprio fare (preparare dei giovani ad essere parte attiva della società, magari in modo critico e consapevole dei propri diritti), non è più adeguato al contesto, in questo caso la società tutta profondamente modificata dalle recenti innovazioni tecnosociali.

Il discorso è chiaro: la scuola deve riorganizzare sé stessa avendo come orizzonte di riferimento le competenze (un saper-fare e un poter-fare concreto e operativo) di cui intende dotare i futuri cittadini. Le competenze possono essere descritte: ad esempio l’adeguatezza della preparazione professionale al mondo del lavoro, la consapevolezza del nostro essere consumatori, il saper riconoscere e promuovere qualità ecologica (concreto ben-stare) nel proprio abitare i territori ormai biodigitali.
Dovesse riprogettarsi secondo queste condizioni, la scuola si troverebbe a dover modificare parecchio della propria organizzazione attuale. Dall’edificio scolastico alle metodologie didattiche, tutto andrebbe rivisto secondo le nuove necessità.

Non sto parlando solo di competenze digitali; in ogni caso va da sé che alcune competenze di Cultura Tecnologica vadano assolutamente trasmesse alle giovani generazioni, visto che queste ultime crescono e abitano nativamente in ambienti differenti da quelli della nostra infanzia e adolescenza, dove troviamo quelle novità con risvolto antropologico offerte delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Prendiamo un caso particolare: come re-impostare le scuole tecniche e professionali nella Regione Friuli Venezia Giulia, avendo a mente le richieste quantitative e qualitative del mercato del lavoro specifico, industriale e post-industriale. Al momento all’industria occorrono molti diplomati in materie tecniche, e qui invece tutti si iscrivono ai licei.

Ieri mattina (qui il programma) c’era il convegno “Quale riforma dell’Istruzione tecnica e professionale per il Friuli Venezia Giulia“, promosso dalla scuola ISIS di Gemona, dall’Ufficio Scolastico regionale, dall’Assessorato all’Istruzione regionale, e ospitato dalla Fantoni di Osoppo, quindi in luogo connotato da visioni tipicamente industriali (ciminiere, binari, rumore), da architetture inneggianti all’innovazione tecnologica.
La platea era composta da dirigenti scolastici e insegnanti, operatori del mondo della formazione.

Apre il convegno Tullio Bratta, al posto di Giovanni Fantoni: all’inizio parla dell’importanza storica delle scuole tecniche (il riferimento classico va all’istituto tecnico industriale Malignani di Udine) nel formare i quadri dirigenziali nelle industrie, sottolineando la formazione dello studente ad essere “capo” di qualcosa. Poi parla della secondo lui ormai vecchia “società della conoscenza” e dice che bisogna andare verso la “società del fare”. Mah, che dire. Un uomo apparentemente fuori dal mondo, ma è lì soprattutto a fare da anfitrione in nome dell’azienda Fantoni che ospitava l’incontro.

Giuseppe “Pino” Santoro, preside all’Istituto superiore di Gemona e moderatore dell’incontro, sottolinea l’importanza delle relazioni e delle progettazioni coordinate tra scuole superiori e tessuto industriale. Dice che abbiam forse schivato la liceizzazione delle scuole superiori, ed è necessario ragionare subito di emergenza tecnico-scientifica, per il fabbisogno espresso dal mondo del lavoro. Vengono ricordati i dati OCSE-PISA, e l’atmosfera diventa cupa: la situazione è preoccupante. Si cercano tecnici, e non ci sono. Inoltre Santoro pone giustamente l’accento sui finanziamenti alla scuola, sottolineando come sia alquanto sciocco pretendere competenze specializzate e giovani preparati mentre al contempo si tagliano le risorse per docenti e laboratori. Il discorso conseguentemente prende di petto le contraddizioni della legge 133 del 2008, ovvero i tagli della riforma Gelmini.

Poi tocca a Tonon, sostituisce Adriano Luci come rappresentante dell’Associazione Industriali di Udine; è importante continuare il dialogo tra la scuola e la confindustria; bisogna combattere contro l’idea che le scuole tecniche siano meno nobili, e in ogni caso il manifatturiero è risorsa del territorio, e industria non è una parolaccia. Puntare sull’alternanza scuola-lavoro, avere dei tutor scolastici e tutor aziendali che accompagnino i ragazzi verso la comprensione dei luoghi di lavoro, queste le indicazioni, insieme ai solleciti per rendere la scuola tecnica appetibile per i giovani, migliorando il prestigio sociale dell’istituzione.

Roberto Molinaro, assessore regionale, esordisce felicemente sottolineando il cambiamento strutturale, lento e ampio, che sta avvenendo nella cultura e nella società tutta, e ricordando che il Friuli Venezia Giulia è un luogo di eccellenza scolastica.
Conseguentemente viene ribadita la formazione in quanto asse strategico del cambiamento, e riaffermata quella qualità intrinseca delle buone prassi locali da cui prendere le mosse per la riprogettazione dell’offerta formativa anche tecnica della scuola regionale.
Si può ripartire dall’identità multiculturale della Regione, dalle connessioni forti scuola-territorio, dalle razionalizzazioni della rete scolastica esistente (questo ovviamente crea dei mugugni in sala).
Vi sono delle esigenze culturali: va rilanciata la cultura tecnica superiore. Meglio ancora, l’assessore parla di nuove competenze per il lavoro e per la cittadinanza, e accenna dei confronti con altre realtà europee.
In ogni caso, tornando a parlare di formazione tecnica, qui in Regione abbiamo tradizione e capacità innovativa, occorre mettere a sistema. Un problema può essere dato dall’integrazione tra istruzione statale (istituti tecnici) e formazione professionale: gli istituti professionali dipendono da Roma oppure dalla Regione? Questo è un nodo da risolvere, in direzione di una gestione regionale; è in piedi un dialogo con lo Stato per avere trasferimento di potere e risorse per l’organizzazione scolastica, coerentemente con l’autonomia scolastica e regionale. Occorre realismo.

Bruno Seravalli, ex dirigente scolastico ora incaricato presso l’Ufficio Scolastico regionale, espone dei dati di contesto regionale sulla riforma; parla di orientamento in entrata (mugugni), e di passerelle tra i percorsi formativi. Dal punto di vista dell’inserimento lavorativo, fa notare come il 33percento delle offerte di lavoro regionale richieda persone senza titolo di studio specifico; e come la percentuale di liceizzazione della Regione rimanga stabile nel tempo, su quote abbastanza alte di iscritti ai licei negli ultimi anni.

Arduino Salatin di Trento, consulente ministeriale per la Riforma scolastica di Fioroni, illustra molto lucidamente degli scenari di evoluzione dei sistemi di istruzione secondaria, distinguendo tra percorsi liceali e gli altri percorsi formativi, ribadendo la necessità di lifelong learning e di lavorare a stretto contatto con imprese, mostrando con grafici la realtà scolastica di altre nazioni europee.
Peculiarità italiana: solo da noi, il confronto è con l’Europa, ci sono 5 diversi percorsi scolastici post-obbligo, come pure siamo gli unici con una scuola superiore che arriva fino ai 19 anni.
Per quanto riguarda la formazione professionale, è possibile ravvisare tre modelli:
formazione professionale dentro la scuola (come in Scandinavia), formazione fuori da scuola nelle imprese (Germania), in modo misto come da noi, con molte complicazioni.
La liceizzazione è comunque fenomeno europeo, solo che da noi in più c’è il problema delle scuole professionale e apprendistato, ovvero percorsi che altrove non ci sono.
In particolare, le imprese chiedono specializzazione e soft skills (vedi wikipedia; “abilità morbide” potrebbero essere ad esempio come “disponibilitá ad assumersi responsabilitá, saper prendere decisioni, coraggio, saper essere chiaro nell’esposizione, saper risolvere conflitti e trattare, saper motivare sé e gli altri. Tutto si tramuta in una educazione formale in grado di offrire ai giovani dei percorsi flessibili, dove venga privilegiata la libera espressione di sé anche con gli strumenti TIC, percorsi da collegare con passerelle per agevolare la mobilità degli studenti alla ricerca della propria vocazione.

Proprio Salatin parla esplicitamente della crisi dei curricoli basati sulle discipline, e della necessità di andare verso curriculi basati sulle competenze (vedi sempre foto in alto).
Questo appunto significa adottare il punto di vista di chi impara, promuovendo innanzitutto sul piano istituzionale i collegamenti con il mondo dell’impresa e con la figura del tutor aziendale; in seguito bisogna rendere attrattivi, sul piano sociale, i percorsi di formazione; inoltre nel riprogettare la scuola italiana, o almeno l’istruzione tecnica e professionale, oltre alle otto competenze chiave indicate dalla Raccomandazione europea in un contesto di apprendimento continuo, risulta necessario concentrarsi su cose essenziali… non è possibile che i percorsi scolastici in Italia (e solo qui) prevedano 13/14 materie.
Sul piano metodologico, Salatin ribadisce l’importanza di percorsi flessibili, di passarelle, e di semplificazione rispetto ai bizantinismi di orari, moduli, integrazioni, corsi, diplomi e curricoli e attestati che troviamo solo in Italia… serve flessivilità istituzionale, curricolare, organizzativa.
Si prendono rapidamente in esame tre diversi modelli di offerta formativa tecnica e professionale, quelli seguiti dalla Francia, dalla Spagna, dalla Danimarca; anche solo dal semplice confronto lessicale dei documenti presentati, emergono parole chiave come “confronto tra scuole”, “innovazione didattica”, utilizzo omnipervasivo di tecnologie TIC.

Quali risposte dare? Salatin offre alcune suggestioni, parlando ad esempio di sistemi differenziati, della creazione di Istituti Comprensivi Superiori, di poli scolastici strutturati nella consapevolezza di una alternanza scuola-lavoro, parla di curriculi flessibili e di sistemi di valutazione adeguati al territorio, contestualizzati.

Alberto De Toni, già Presidente della Commissione per lo sviluppo dell’istruzione tecnica e professionale nello scorso governo Prodi, dice che la situazione è veramente complessa (eufemismo). Va comunque rilevato il progressivo conferimento di potere decisionale alle Regioni, il che dovrebbe fornire maggiori strumenti e risorse per una migliore programmazione delle modalità di incontro tra le offerte formative degli Istituti scolastici (almeno quelli professionali) e le richieste del mercato del lavoro. Anche De Toni parla delle opportunità offerte dalla progettazione di Poli formativi, e poi chiude il convegno con alcune interessanti considerazioni di carattere generale: mette bene in luce i cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi anni, le rivoluzioni sociali oppure relative alla moderna Società della Conoscenza, dove risultano perfettamente obsolete e anzi controproducenti le vecchie suddivisioni ad esempio di Cultura Umanistica e Scientifica-Tecnologica, dove un’impostazione scolastica ancora fortemente crociana e gentiliana impedisce di cogliere la complessità sistemica di una offerta formativa allo studente capace di agire su tutti gli aspetti della sua personalità, dalle sue abilità tecniche alle sue competenze sociali. Qui De Toni parla espressamente della necessità storica di una rifondazione culturale.

Ribadisco le mie preoccupazioni: di tutti i relatori, solo Salatin e DeToni hanno pronunciato parole moderne come “rete” (non solo telematica) oppure preso in considerazione l’importanza delle TIC quale ambiente formativo, quindi mostrando l’utilità degli strumenti di dialogo e confronto con altre realtà scolastiche e con la società tutta (basta con le scuole isolate e isolazioniste, gestite come cittadelle feudali, che non offrono piani formativi commisurati alle esigenze del territorio); un plauso anche all’Assessore regionale per le parole concrete, frutto di una visione fortunatamente poco ideologica del territorio e del fare scuola.
La domanda è semplice: chi oggi è chiamato a progettare il futuro, è una persona moderna? Dovendo ragionare di istruzione tecnica e formazione professionale, preferirei che la cultura (la visione del mondo) dei decisori fosse nutrita da considerazioni attuali sulle caratteristiche post-industriali della nostra società, da una visione ecosistemica in grado di superare la fissità e la linearità dei vecchi modi di pensare, non più in grado di descrivere le nuove forme di Abitanza e di partecipazione attiva dei singoli e dei gruppi sociali alla vita della collettività di appartenenza.

Chiedo scusa per questi rapidi appunti: la prossima volta filmo tutto e ripropongo gli interventi qui su questo blog, dove tanto mi piacerebbe vedere qualcuno di quei presidi e di quei dirigenti scolastici e di quegli insegnanti presenti tra il pubblico del convegno lasciare un commento, aggiungere precisazioni, esporre la propria visione riguardo ai passi futuri da compiere in Regione per una riforma scolastica efficace.

Il territorio è conversazione.

Cogliere l’essenziale della Cultura Tecnologica

Gilbert Simondon, “Du mode d’ existence des objets techniques”, 1958.

L’opposizione posta tra la cultura e la tecnica, tra l’uomo e la macchina, è falsa e senza fondamento; non copre altro che ignoranza o risentimento. Maschera dietro un facile umanismo una realtà ricca in sforzi umani e forze naturali che costituisce il mondo degli oggetti tecnici, mediatori tra la natura e l’uomo.
La cultura si rapporta all’oggetto tecnico come l’uomo allo straniero, quando si fa guidare dalla xenofobia primitiva. Il misoneismo orientato contro le macchine non è tanto odio del nuovo quanto rifiuto di una realtà estranea.
Ora, questo straniero è ancora umano, e il complesso della cultura è ciò che ci permette di riconoscere lo straniero come umano.
Allo stesso modo, la macchina è la straniera in cui si è concreto l’umano, disconosciuto, materializzato, asservito pur restando comunque umano.
La causa principale di alienazione nel mondo contemporaneo sta nel misconoscimento della macchina, che non è alienazione causata dalla macchina, ma dal non riconoscimento della sua natura e della sua essenza, dalla sua assenza dal mondo delle significazioni e dalla sua omissione dalla tavola dei valori e dei concetti che fan parte della cultura.

La Sardegna diventa capitale dell’Open source e dell’e-democracy

La Sardegna diventa capitale dell’Open source e dell’e-democracy

La regione, che ha appena dato il via al passaggio dalla Tv analogica al Digitale terrestre, diventa apripista anche nell’adozione del software libero

La Sardegna diventa epicentro dell’innovazione Open source in Italia. La regione, dopo aver dato il via al passaggio dalla Tv analogica al Digitale terrestre, diventa apripista anche nell’adozione del software libero: “La principale novita’ (del Ddl, n.d.r.) – spiega l’assessore agli Affari Generali Massimo Dadea e’ rappresentata dall’inserimento nell’ordinamento regionale del software libero, considerato lo strumento piu’ idoneo per uno sviluppo della societa’ dell’informazione ispirato ai principi di contenimento della spesa pubblica e di tutela della concorrenza. Con questo Ddl la Sardegna si pone all’avanguardia anche nel settore della societa’ dell’informazione”.

La Giunta regionale sarda ha approvato il disegno di legge (Ddl) sulle “Iniziative volte alla promozione e allo sviluppo della societa’ dell’informazione e della conoscenza in Sardegna”. Il Ddl si suddivide in due parti, la prima sulle politiche e i principi che l’amministrazione regionale intende mettere in atto per lo sviluppo della societa’ dell’informazione e della conoscenza, mentre la seconda promuove la concreta attuazione, attraverso specifici strumenti a tali politiche.

Tra gli aspetti piu’ innovativi contenuti nel Ddl vi sono il diritto all’uso delle tecnologie, la partecipazione democratica, l’alfabetizzazione informatica, la ricerca per lo sviluppo delle imprese nel territorio.

Il software libero è stato scelto per il sorgente aperto, per la licenza Gnu, e per indubbi vantaggi quali il risparmio sui costi, l’indipendenza da uno specifico fornitore e le opportunità per l’industria informatica locale.

Il Ddl, che verrà presentato nei prossimi giorni in un convegno a Pisa, e’ stato realizzato con la collaborazione di Flavia Marzano, docente di Scenari e innovazioni dell’IT all’Universita’ di Bologna. Il testo del Ddl rappresenta uno dei documenti alla base di un Disegno di legge che sara’ presentato dal Pd in Parlamento.

fonte www.vnunet.it

Tecnologia e istruzione: una visione buddista

Luca Chittaro racconta l’incontro che il Dalai Lama ha avuto con gli studenti di Udine.
Interpellato sulla tecnologia e l’istruzione, quest’ultimo dice:

Grazie alla tecnologia, viviamo in un mondo sempre piu’ interconnesso. Dobbiamo riflettere sugli effetti di ogni nostra azione su tutti e su tutto il mondo perche’ siamo sempre piu’ interdipendenti. La globalizzazione ci richiede di introdurre il concetto di “responsabilita’ globale”. Dobbiamo puntare al benessere globale, sentirci come genere umano parte di una cosa sola. Non essere compassionevoli solo in cambio di una gratificazione di nostri piccoli desideri. Il raggiungimento del benessere deve passare attraverso l’azione, non solo preghiera, speranza e aspettative. Dobbiamo conoscere la realta’, avere una “visione realistica della realta’” e l’istruzione e’ il fattore chiave per raggiungere questo obbiettivo. Quando come studenti avrete terminato l’universita’ e vi troverete a risolvere problemi, abbiate una visione piu’ panoramica possibile, cioe’ olistica, della realta’; non focalizzatevi solo su singoli aspetti specifici.
Istruzione e tecnologia in se’ non hanno un valore ne’ negativo ne’ positivo. Cio’ che ne determina il valore e’ lo stato mentale di chi le applica.

Italia geotermica

L’Italia potrebbe essere ai primi posti al mondo per produzione di energia geotermica, per quanto è naturalmente avvantaggiata dalla propria posizione geografica.Network Games

Il futuro, a mio personale avviso, è nella geologia profonda, nella vulcanologia, nella sensoristica avanzata e nella simulazione 3d, nella trivellazione non convenzionale, nei materiali estremi, nella robotica sottomarina e geologica, nella progettazione offshore (anche e direttamente di impianti remotizzati sul fondo marino), nella propulsione elettrica generalizzata, nelle nanotecnologie, nello storage di elettricità, nella gestione idrica avanzata, negli impianti collettivi e ottimizzati di climatizzazione, nell’architettura e urbanistica climatica, nelle tecniche di desalinizzazione e di fertilizzazione o rifertilizzazione di terreni aridi o inariditi….e infine nella grande ingegneria delle dighe.

Il sabato del villaggio globale

A commento della quarta traccia per la prova scritta dell’esame “di maturità”, la quale testualmente recita:

L’industrializzazione ha distrutto il villaggio, e l’uomo, che viveva in comunità, è diventato folla solitaria nelle megalopoli. La televisione ha ricostruito il «villaggio globale», ma non c’è il dialogo corale al quale tutti partecipavano nel borgo attorno al castello o alla pieve. Ed è cosa molto diversa guardare i fatti del mondo passivamente, o partecipare ai fatti della comunità.» G. TAMBURRANO, Il cittadino e il potere, in “In nome del Padre”, Bari, 1983
Discuti l’affermazione citata, precisando se, a tuo avviso, in essa possa ravvisarsi un senso di “nostalgia” per il passato o l’esigenza, diffusa nella società contemporanea, di intessere un dialogo meno formale con la comunità circostante

Rodotà esplicita alcuni ragionamenti assai puntuali e moderni rispetto alle giovani generazioni biodigitali, al loro immaginario, al loro stile di pensiero.

“…i ragazzi intorno ai ventenni sono essi stessi la globalizzazione. Sono immersi in un flusso continuo di comunicazioni, scaricano musica e film, alimentano YouTube, attingono conoscenze dalle fonti più disparate, producono e subiscono modelli di comportamento, fanno e disfano comunità virtuali, assumono identità molteplici…

Il popolo di Internet, di cui le persone giovani costituiscono il nerbo, è al di là della logica televisiva. Frequenta il più ampio spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto…

Siamo di fronte a una nuova condizione umana, che certo può produrre nuove forme di solitudine e di esclusione, che può imprigionare la vita nello schermo di un computer, ma che deve essere considerata come elemento essenziale della dinamica complessiva che stiamo vivendo…” 

Stefano Rodotà, Il popolo di YouTube non ha più nostalgie, La Repubblica, 21 giugno 2007, p.14

tratto da: Wild Web Chapinèring: Temi, esami e YouTube

 

Promuovere gli Abitanti

L’Associazione culturale NuoviAbitanti pone attenzione al rapporto tra tecnologia e territorio ragionando sul concetto di Abitanza, come indicazione di un certo atteggiamento consapevole riguardo all’aver cura dell’Ambiente Naturale e soprattutto dell’Ambiente Costruito in cui tutti viviamo e da cui traiamo senso di identità personale e sociale.
Per questo motivo assume rilievo la dimensione sociale della collettività, la comunità su un territorio di una determinata estensione (secondo le dinamiche degli insediamenti abitativi umani, secondo la percezione antropologica con cui le comunità identificano sé stesse, secondo urbanistica e reti tecnologiche produttive e distributive di beni e servizi) dove poter realizzare la traduzione di un astratto Benessere in concreto Ben-stare, ora e in questo luogo. E anche gli ambienti online sono luoghi abitati, a cui prestare la medesima cura.

Quindi, promozione sociale degli Abitanti tutti ed in particolare per il mondo della scuola, dove vista la necessità etica di preparare le giovani generazioni biodigitali a comprendere e fruire del mondo del 2035, urge provvedere con progettazioni e formazioni specifiche per i docenti: le competenze da acquisire potrebbero essere proprio quelle che li rendono in grado di concepire il TecnoTerritorio e le dinamiche sociali attuali – nei massmedia, in Rete, nel gruppo-classe, nella socialità quotidiana – anche alla luce dei nuovi modelli di comunicazione e di “arredamento” della conoscenza che il software portabile, nonché il social software su Web rendono oggi possibili.
Oltre a fornire effettivamente dei luoghi nuovi in cui poter vivere socialità (ad esempio, un blog per una classe delle superiori docenti compresi) oltre a fornire nuovi contenuti di cui trattare necessariamente in ambiti formativo (sciocca appunto quella scuola che non prepara i ragazzini a comprendere una realtà biodigitale), il web moderno offre soprattutto un intero nuovo linguaggio, in cui poter ri-formulare noi stessi, i modi con cui veniamo coinvolti nelle reti sociali, il nostro stesso dare senso agli accadimenti.

Come prima positiva conseguenza, notiamo come alcune buone prassi maturate in Rete quali la fiducia nella condivisione della Conoscenza e nello scambio interpersonale (vedi la Wikipedia o la filosofia OpenSource) possono riversarsi in questo mondo di atomi, consentendo la nascita di nuove modalità interazionali maggiormente consapevoli delle finalità etiche della partecipazione; si impara dappertutto.

NuoviAbitanti

Riflettere collaborativamente sulla storia industriale

sophia.it

La storia è condivisa con Wikindustria
11 Giugno 2007

Storiaindustria cresce e con il wiki il sapere si fa condiviso. Il sito sulla memoria industriale del Nord Ovest, iniziativa del professor Luciano Gallino per ricostruire e illustrare sul web il passato di fabbriche, prodotti, mestieri, modi di lavorare e organizzare le aziende che hanno caratterizzato la cultura e l’identità territoriale del Nord Ovest dal 1850, offre oggi un nuovo strumento. E’ WikiRedazione, un ambiente di lavoro distribuito che permette ai navigatori di offrire e condividere le proprie conoscenze e le proprie memorie.

Anche se si rivolge prima di tutto a studenti e insegnanti delle scuole superiori e alle università, WikiRedazione non è solo un innovativo strumento didattico. Alla redazione delle pagine possono partecipare tutti: l’obiettivo è quello di sperimentare la creazione di una comunità diffusa di utenti-autori che scriva contributi originali, che reperisca materiali su industrie locali, che animi il dibattito on line sui tema di interesse comune.

Richiamando il paradigma di lavoro cooperativo diffuso “wiki”, dopo essersi registrato con una e-mail ognuno può contribuire alla redazione di nuovi contenuti o modificare quelli già offerti da altri partecipanti su temi specifici, identificati da parole chiave legate a imprese, prodotti o personaggi. Ma è anche possibile proporre nuove voci da aprire a contributi collaborativi, intrecciando i propri interessi con i percorsi formativi del sito. Una redazione valuta i singoli interventi e li pubblica come approfondimenti tra le pagine dei corsi online.
Il tutto con licenza Creative Commons 2.5. Coerentemente con la filosofia del Web 2.0, gli utenti di WikiRedazione non hanno bisogno di conoscenze di programmazione né di strumenti informatici specifici: bastano un pc collegato in Rete e molta curiosità a navigare nel Web.
WikiRedazione è stato sviluppato dal CSI-Piemonte appositamente per il progetto multimediale on line di Storia e Cultura dell’Industria e si basa sulla personalizzazione del prodotto open source “DokuWiki”.

Web
Storiaindustria www.storiaindustria.it
Wikiredazione www.storiaindustria.it/wikiredazione.shtml

Dal blog NuoviAbitanti

Paesaggi antropici sonori

Nova24 Ora!: Cacciatori di rumori perduti

Cacciatori di rumori perduti

Sul numero di Nòva oggi in edicola un articolo di Michele Fabbri ci racconta una nuova moda nata sul web: internet sta diventanto un archivio dove conservare la memoria del suono. Stanno nascendo molti siti che archiviano voci quotidiane che provengono dal paesaggio.

Cliccando qui potrete per esempio ascoltare il suono emesso da un ciabattino ottuagenario che vive in un paesino delle Dolomiti (ritratto nella foto a sinistra), uno dei tanti casi raccolti dal progetto Acoustic environment in change

 Continuando a leggere questo post, invece, troverete i link per raggiungere i migliori siti che si occupano di preservare l’esistenza dei suoni in via di estinzione.

Ascoltare la voce di lavandaie in Vietnam, stazioni ferroviarie o rumori del porto di Vancouver. Ma anche comizi per strada, musica popolare. E ancora, squillo di vecchi telefonini e voci di motori. Ecco tre link da non perdere:

www.quietamerican.org
www.radiantslab.com/musiek/phonography
http://freesound.iua.upf.edu

Quest’ultimo ha una sezione molto interessante: cliccando qui – infatti – potrete ascoltare i suoni e scoprire la posizione geografica di provenienza grazie all’integrazione con Google Hearth.

Stili

da Oltre l’e-learning by Gianni Marconato
Predichiamo costruttivismo e razzoliamo istruzionismo

Brent G. Wilson nel suo eccellente libro del 1996, “Constructivist Learning Environments”, un libro che ha influenzato non poco il mio pensiero (spero non tanto “debole”), proprio in apertura (pag. 4) offre una illuminante ed autorevole rappresentazione di come diverse visioni della conoscenza influenzino le nostre visioni dell’istruzione (instruction).

Wilson afferma che:

  • Se pensi che la conoscenza sia una quantità oppure un pacchetto di contenuti che aspettano solo di essere trasmessi, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come un prodotto da essere distribuito attraverso un veicolo
  • Se pensi che la conoscenza sia uno stato cognitivo come viene riflesso negli schemi e nelle abilità procedurali di una persona, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad un insieme di strategie didattiche finalizzate a modificare lo schema di quel individuo
  • Se pensi che la conoscenza sia un significato personale costruito nell’interazione con il proprio ambiente, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad una persona che lavora con strumenti e risorse all’interno di un ambiente ricco
  • Se pensi che la conoscenza sia un processo di acculturazione o di adozione di modi di vedere e di agire di gruppo, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad una partecipazione alle attività di tutti i giorni di una comunità;

Con questo post chiudo la serie sulla coerenza tra tra pensiero dichiarato ed azione, sulla molteplicità delle visioni e delle pratiche e sulla necessità di rendere esplicite e consapevoli le nostre “teorie implicite”.