Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?

La Scuola, in questo momento storico, è incompetente: le manca un saper-fare, per poter-fare.

Già da molti anni le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione sono veicolo del nostro abitare il mondo, e la nostra partecipazione civica – fino a ieri passiva in quanto fruitori di massmedia tradizionali, oggi attiva in quanto produttori e distributori di contenuti nel web – alla Società (ecosistema) della Conoscenza passa attraverso la comprensione dei risvolti antropologici delle TIC, del loro essere ambiente sociale e non solo strumento di produzione documentale, del loro essere Luogo dialogico di crescita relazionale e non solo fonte informativa.

Ma la Scuola non riesce a concepire gli strumenti come ambienti formativi. Se mancasse la lavagna o il libro, il fare scuola avrebbe altre fisionomie. Senza il PC e il web la Scuola non può educare alla modernità intessuta di Cultura digitale le giovani generazioni permanentemente connesse, le quali trarranno il senso della propria identità anche dalla ricchezza degli scambi interpersonali e dalla consapevolezza critica con cui abiteranno i Luoghi online.

Il problema è che la Scuola difficilmente riuscirà a essere competente, e quindi a perseguire i propri obiettivi formativi, se prima non modifica la percezione che ha di sé e del proprio ruolo sociale, in relazione ai cambiamenti epocali veicolati dalla diffusione del web.

Tutto questo lo dico in modo ancor più farraginoso, involuto e prolisso su Apogeonline, che ringrazio per la pazienza con cui aspettano che io impari a scrivere. L’articolo lo metto anche qui sotto, ma cliccate e leggetelo di là, per dare a voi stessi l’opportunità di imbattervi in molte altre cose interessanti.

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Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?
di Giorgio Jannis

Secondo i programmi ministeriali, un quattordicenne dovrebbe essere in grado di usare le nuove tecnologie, padroneggiare i linguaggi multimediali, dominare la ricerca di informazioni. Nella pratica, accade di rado. Una storia di Re, Eroi, Draghi e Streghe per raccontare un pezzo di Paese alle prese con un mondo che cambia.

Ecco lo schema classico di una storia: un Re promette metà del regno a chi gli riporterà la figlia rapita da un Drago. L’Eroe parte, e probabilmente subirà una prima sconfitta; ritiratosi depresso nel bosco, incontrerà una Strega che inizialmente sembrerà nemica, ma una volta rotto un qualche incantesimo l’Eroe riceverà da quest’ultima putacaso tre pietre magiche che lo aiuteranno a superare la prova decisiva dello scontro con il Drago, e quindi diventerà Principe, con tanto di nozze regali e happy ending.

Ognuno di noi è un Eroe: onorando un contratto con la Società, uccidendo il drago dell’anarchia e dell’anomia, diventando cittadini con diritti&doveri, riceviamo in cambio uno status sociale riconosciuto, l’accesso legittimo a fonti economiche in cambio di prestazioni lavorative, la sicurezza di poter vivere e crescere dei figli in un ambiente ripulito da passatori e tagliagole. Ma come Cittadini, dobbiam venir educati a vivere in società, dobbiam superare dei riti di passaggio capaci di sancire la nostra competenza.

Gli stati nazionali, da Napoleone in poi, hanno compreso l’importanza dell’Educazione formale laica e hanno deputato la Scuola a essere il Luogo ufficiale dell’acculturazione dell’individuo, al fine di costruire funzionalisticamente un Cittadino adeguato: bisogna conseguentemente qui intendere la Scuola come l’Aiutante della nostra storia, colei che viene socialmente incaricata di fornire competenze (cognitive e performative, saper-fare e poter-fare) all’Eroe.

Ma nel particolare, qual è il programma narrativo della Scuola? Leggendo a sua volta l’Aiutante come un Eroe, vediamo come anch’essa abbia bisogno di acquisire competenze specifiche per portare a termine il proprio compito educativo, abbia la necessità per esempio di sorreggere le proprie scelte metodologiche e contenutistiche sulla base di teorie pedagogiche aggiornate, nonché di trovarsi nelle condizioni materiali (edifici scolastici adeguati, editoria specializzata, sussidi didattici, organizzazione del tempo, risorse umane) per poter svolgere la propria attività formativa in modo ottimale, al fine di ri-consegnare alla Società un quattordicenne dalla personalità armonica, in grado di comprendere sé stesso e di relazionarsi agli altri in modo eticamente responsabile, di rappresentare i fenomeni e capire i processi del mondo naturale e costruito in cui vive, capace di operare scelte autonome nel progettare il proprio futuro (obiettivi tratti dai testi ministeriali di una qualsiasi riforma scolastica degli ultimi quindici anni).

A sua volta (questa storia è piena di streghe), la Tecnologia in classe rappresenta uno degli Aiutanti di cui la Scuola si avvale per rendere più efficace l’acculturazione degli alunni, sostenendo l’apprendimento con sussidi didattici tecnologici quali innanzitutto la scrittura, e quindi i libri e le lavagne peraltro oggetti ora interattivi e connessi, le mappe geografiche oggidì satellitari, i videoregistratori e infine il computer connesso, quale strumento che racchiude in sé quasi tutte le potenzialità del produrre e distribuire informazione in modo multimediale.

L’introduzione innovativa di strumenti tecnologici in classe non è un atteggiamento tipico solo di questi ultimi anni: a partire dalla fine dell’Ottocento la pedagogia comprende infatti l’importanza (senza dubbio su impulso di necessità legate al mondo del lavoro) di provvedere ai discenti una formazione basata su attività manipolatorie concrete da svolgere dentro aule/laboratori allestiti come officine meccaniche oppure come atelier di tessitura, quale maggior garanzia per un apprendimento significativo (learning by doing) di competenze professionali; particolarmente interessante per i ragionamenti sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione risulta la posizione di Célestin Freinet, il quale nella prima metà del Novecento introduce le macchine tipografiche a scuola, insieme a precise indicazioni su come moltiplicare gli scambi a distanza con altre realtà scolastiche, in una concezione comunitaria e collaborativa degli ambienti formativi.

Grammatica dei media e strumenti critici
Tuttavia, anche se la Scuola ha portato in classe le novità tecnologiche che il Novecento ha via via sviluppato nel campo dei mass media, quali la stampa e la radio, il cinema e la televisione e infine il computer e Internet, in realtà non ha mai saputo seriamente sollevare a dignità educativa una riflessione sulle implicazioni psicologiche e sociologiche di questi strumenti di comunicazione, ponendo quindi una seria Media Education al centro delle proprie attività didattiche.

La consapevolezza che molti valori esistenziali, molti atteggiamenti cognitivi affettivi ed etici, la gran parte delle informazioni e delle opinioni pubbliche sul senso della realtà sociale vengano oggi percepiti e vissuti in modo mediato (il gioco di parole è notoriamente calzante), e che la nostra stessa identità personale e pubblica sia in qualche modo continuamente negoziata e narrata nello scambio relazionale che intratteniamo con gli altri, con gli oggetti culturali e con gli strumenti grazie a cui questi oggetti giungono a noi, risulta ormai diffusa seppur in modo “ingenuo” presso la maggior parte della popolazione; eppure la Scuola nulla fa per fornire grammatiche di lettura e strumenti critici in grado di mostrare la non-trasparenza dei media, il loro essere narrazioni potenzialmente manipolatorie, la falsità del loro pretendersi semplice “finestra sul mondo”.

La Tecnologia è un valore antropologico, e i valori vivono e si maneggiano da sempre attraverso le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione: da tutti questi ragionamenti sul carattere formativo degli strumenti di comunicazione di massa dovrebbero “naturalmente” discendere dei percorsi di innovazione didattica in grado di coinvolgere tanto il curricolo (quindi una riflessione sul ruolo odierno delle discipline tradizionali alla luce delle potenzialità trasversali offerte dalle TIC, nonché sulle nuove aree di sapere che costituiscono le “discipline di scopo”, dall’ecologia alle trasformazioni sociali, dall’intercultura alla cittadinanza anche digitale, dalla Cultura Tecnologica alla salute pubblica), quanto soprattutto la formazione dei docenti.

Se insegnante fa rima con abitante
Questi ultimi andrebbero rapidamente aggiornati dal punto di vista professionale innanzitutto secondo una considerazione attuale della Società della Conoscenza nel paradigma dell’Abitanza digitale e della Scuola Connessa; poi edotti sulle dimensioni comunicative e relazionali degli ambienti di apprendimento sia in presenza sia a distanza, visto che la sinonimia tra classe e aula comincia a perdere validità; e infine resi consapevoli dei meccanismi psicologici di sintesi tra esperienza del mondo e formazione dei concetti e delle idee, acquisendo stabilmente nella didattica – proprio per ottimizzare l’insegnamento – l’utilizzo di competenze e conoscenze apprese dagli allievi in ambiti extrascolastici, ponendo l’accento sulla transdisciplinarietà, comprendendo l’apprendimento significativo come massimamente garantito dalla narrazione (osservazione, analisi, manipolazione, problematizzazione, riprogettazione, allestimento discorsivo multimediale) che l’allievo compie a sé stesso e agli altri delle nozioni apprese, nel ri-giocare la realtà, ad esempio attraverso un uso intelligente dei blog scolastici.

Purché il blog di classe sia visto come pratica espressiva formativa relazionale e quindi identitaria, Luogo dell’Abitare della scuola sul web, e non solo come un sussidio didattico. Purché le TIC tutte e il web stesso siano percepiti e vissuti come ambienti formativi, e non solo come strumento informatico. L’utilizzo stesso della parola informatica, a meno che non si tratti effettivamente di scrivere codice in linguaggi di programmazione come negli istituti tecnici, pone l’oggetto computer e il web a scuola dentro una cornice interpretativa fuorviante. Nominare le attività con il computer come informatica ha portato per lunghi anni, e tuttora accade, a concepire l’informatica stessa come disciplina curricolare, cosicché oggi nelle scuole medie dopo l’ora di italiano c’è l’ora di “informatica”, che poi consiste nell’andare in laboratorio multimediale e usare programmi di videoscrittura o di presentazioni (quasi sempreprogrammi commerciali, nonostante precise indicazioni ministeriali per approcci open source nelle pubbliche amministrazioni) oppure navigare un po’ a caso sulla Rete, disattendendo completamente la funzione trasversale delle tecnologie TIC rispetto ai curricoli scolastici, nonché ignorando le tematiche etiche soggiacenti a una ormai impellente Educazione alla Cittadinanza digitale.

La Scuola sulla carta
Cosa dicono attualmente le indicazioni del Ministero dell’Istruzione riguardo le competenze sulle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione che gli allievi dovrebbero possedere al termine della scuola di base? Secondo i programmi d’aula, un quattordicenne «è in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per sviluppare il proprio lavoro in più discipline, per presentarne i risultati e anche per potenziare le proprie capacità comunicative. Utilizza strumenti informatici e di comunicazione in situazioni significative di gioco e di relazione con gli altri. È in grado di usare le nuove tecnologie e i linguaggi multimediali per supportare il proprio lavoro, avanzare ipotesi e validarle, per autovalutarsi e per presentare i risultati del lavoro. Ricerca informazioni e è in grado di selezionarle e di sintetizzarle, sviluppa le proprie idee utilizzando le TIC e è in grado di condividerle con gli altri. Conosce l’utilizzo della rete sia per la ricerca che per lo scambio delle informazioni». Come si può vedere, nel contratto che la collettività mediante le indicazioni ministeriali propone alla Scuola per educare le nuove generazioni, esistono chiari e condivisibili riferimenti a degli obiettivi di qualità e di modernità; la scuola però risulta inadeguata a portare a termine il proprio compito.

Vi è forse una mancanza di competenza performativa nella scuola, nel suo poter-fare? In Friuli Venezia Giulia, secondo statistiche disponibili sul sito dell’Ufficio Scolastico Regionale, escluse le Scuole dell’Infanzia (dove i ragionamenti sul computer in classe trovano altro significato) il 90% delle scuole è provvisto di un laboratorio multimediale, e il 40% delle Primarie sono connesse in ADSL, il 60% delle scuole medie, l’85% delle scuole superiori. Dal punto di vista della connettività, la situazione non è rosea, e probabilmente in altre regioni italiane le statistiche sono ancor meno confortanti, nonostante siano ormai passati dieci anni dai primi seri piani nazionali di informatizzazione scolastica, sia dal punto di vista della dotazione tecnologica sia da quello dell’aggiornamento professionale dei docenti.

Vi è forse una mancanza nel saper-fare? C’è forse in questa storia un problema di competenze, qualche incantesimo o qualche antagonista che impedisce all’Eroe-Scuola di comprendere la tecnologia TIC come Aiutante nel portare a compimento la propria missione formativa? Se l’obiettivo è preparare i giovani ad essere consapevolmente e responsabilmente Cittadini di un mondo tecnologico e mediatico, perché la Scuola si avvale poco delle tecnologie TIC per il proprio insegnamento, né pone riflessivamente attenzione a una lettura critica di quelle stesse tecnologie (educazione ai media, non solo educazione con i media) grazie a cui entriamo in contatto con il mondo, così determinanti nel forgiare la nostra identità?

L’autonomia in una società che cambia
L’ostacolo principale potrebbe essere costituito dalla stessa mentalità con cui storicamente la Scuola pensa sé stessa, dal proprio de-finirsi e voler trarre identità dall’essere autonoma, per non dire avulsa e anacronistica, rispetto alle novità della società attuale e alla modernità costituita dal sistema mediatico, sia dal punto di vista dei contenuti didattici e delle metodologie d’insegnamento, sia da quello della propria organizzazione interna in quanto “meccanismo” sociale deputato formalmente all’Educazione anche in termini di Cittadinanza delle nuove generazioni “digitali”.

Tutto questo riguarda senza dubbio il cambiamento che la società tutta sta intraprendendo, per tentativi ed errori, nell’adeguare le proprie strutture all’Epoca della Cultura Digitale, e sappiamo come il cambiamento tanto negli individui tanto nelle organizzazioni lavorative, percepito come minaccia, provochi ansia e conseguenti resistenze e difese, come irrigidimento delle “posture esistenziali” e delle identità storicamente consolidate.

Certo, sono le persone ad animare le istituzioni, e senza tema di smentita le innovazioni tecnologiche oggi a Scuola sono quasi ovunque promosse da singoli individui, “missionari” ed “evangelisti” (neanche le TIC fossero cosa spirituale o metafisica, e non concreto ambiente di crescita e di relazione interumana) che spesso lottano contro l’incomprensione e la sottovalutazione del loro lavoro da parte dei colleghi e dell’istituzione scolastica. Ma se il senso del discorso e della narrazione dell’attore Scuola rimane imprigionato dentro una falsa coscienza di sé e del proprio ruolo sociale, se le rivoluzioni tecnologiche come la nascita della rete Internet non vengono recepite e metabolizzate dalla Scuola con il giusto rilievo antropologico rispetto alla portata del cambiamento sociale di cui sono foriere, gli insegnanti e i dirigenti scolastici non troveranno certo fuori di sé le spinte al cambiamento, né troveranno dentro di sé motivazioni valide per innescare ammodernamenti nel fare scuola.

Come il posizionamento dentro l’adeguata cornice interpretativa – ambiente di apprendimento, nonsolo strumento didattico – conferisce senso formativo all’utilizzo di un laboratorio multimediale scolastico o al singolo computer nella pratiche di insegnamento, a sua volta una concezione ampia e innovativa della Scuola come Luogo educativo osmoticamente attraversato da flussi concreti di persone e idee provenienti dalla società “esterna” e dal territorio potrà donarle quelle competenze che le sono necessarie per onorare il contratto con la collettività, conferendole al contempo in tal modo un sentimento identitario rinnovato e commisurato al contesto della sua azione in quanto legittimo Attore sociale. Perché l’identità è sempre somma olistica dell’Io e della circostanza che lo contiene, e il mondo è cambiato.

4 pensieri su “Tecnologia, identità e narrazione: che cosa succede a scuola?

  1. sara

    Interessanti questo tuo articolo. Non ne so niente di istruzione (se non per averla subita), però trovo delle relazioni tra quello che tu dici della scuola e quello che vivo lavorando in ufficio: quando salta la formattazione di un documento, serve inserire una tabella in un foglio di testo, c’è da far tornare una somma in un foglio di calcolo si corre alla ricerca del tecnico EDP… E questo (avendo decine e decine di colleghe che potrebbero rappresentare forse un campione statistico non indifferente) mi dà l’idea di come venga concepito lo strumento informatico in maniera separata dal resto e non come un’evoluzione complessa di carta, penna, libri. La cosa bizzarra è che ci chiamano maghi perché abbiamo accesso ad una dimensione associata al mistero. E non a qualcosa di affrontabile con la conoscenza…

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  2. elio_c

    L’integrazione feconda del computer – “giocattolo universale” dalle straordinarie capacità distraenti, ulteriormente amplificate da Internet – nella didattica mi sembra una sfida tremenda.
    Adagiarsi nella straordinaria “facilità di assemblamento” che esso consente (ricerca con google, wikipedia, copia&incolla) PRIMA di aver sviluppato adeguate capacità di concentrazione (allenandosi su paesaggi cognitivi molto più aridi, dalla “gratificazione” ritardata) potrebbe rappresentare un errore capitale, privo di rimedi.

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  3. Giorgio Jannis

    Elio, probabilmente hai ragione.
    Se si tratta di un cambiamento epocale, ci saranno cambiamenti epocali, anche nell’organizzazione del modo stesso di pensare, giù fino nelle sinapsi.
    Ma questo è già successo: con l’invenzione della stampa, per quanto riguarda le conseguenze dell’ampia distribuzione.
    Ma questo è già successo, per quanto riguarda la stessa scrittura, e famoso è Platone che nel Fedro denigra la scrittura stessa (http://www.geocities.com/Athens/Olympus/4533/questio2.htm)

    Cosa vogliamo fare?
    Educare i ragazzi come se fossero fuori dal mondo, e fossero contemporanei di Carducci, oppure diamo loro strumenti critici per decodificare la realtà?

    L’importante è procedere cumgranosalis, e ormai si sono capite alcune cose su cosa funziona e cosa non funziona di un computer in classe.
    Il problema, appunto, è che gli insegnanti non solo non conoscono gli usi buoni e quelli cattivi (basterebbe cmprare un paio di buoni libri su “TIC e didattica”), ma non conoscono proprio il computer, e siccome l’ignoranza crea arroganza, si permettono anche di dire che non serve a niente.

    Ribadisco: non si può farne a meno, del PC in classe. Cerchiamo di capire il “come”, lasciamo perdere il “perché”, sennò poi ci si arrotola nelle solite discussioni ideologiche.

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  4. gabriella

    solo per aggiungere un commento a scoppio ritardato allo scambio tra Elio e Giorgio, direi che “adagiarsi nella straordinaria “facilità di assemblamento” di internet, per quanto cognitivamente pericoloso è socialmente auspicabile, a meno di teorizzare l’ignoranza e la marginalità culturale degli studenti italiani (e degli italiani tout court).
    Di ogni mezzo si può fare un uso più o meno sofisticato e l’approccio che ne hanno i nostri studenti è quasi sempre elementare, ma se ci focalizziamo su di esso rischiamo di riprodurre il nefasto pregiudizio umanistico sulle tecnologie che, giustamente, data da Platone, come quasi tutto, ma che ci ha portato all’analfabetismo (e non solo) digitale a scuola.
    Con Giorgio concordo sulla necessità vitale del pc in classe (che mi eviterebbe, tra l’altro, di slogarmi medio ed anulare ad annotare quotidianmente assenti, programma e calendario) e dissento (come al solito) sull’evitamento dei perchè e delle discussioni ideologiche. Adoro le discussioni ideologiche, specie se inutili (ci mancherebbe che anche le discussioni debbano essere per forza al servizio di qualcosa), faziose e fastidiose. Direi che lo faccio per contratto e per natura, da filosofa e insegnante.

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