Udine e bilancio partecipativo

Dal blog di Marina Galluzzo, comunicatore pubblico per il Comune di Udine.

La città di Udine ha concluso in questi giorni la sua prima esperienza di bilancio partecipativo: un progetto sperimentale sviluppatosi, nell’arco di pochi mesi, attraverso assemblee pubbliche di quartiere e che ha visto l’Amministrazione Comunale interessata da un punto di vista squisitamente tecnico e di accompagnamento al processo.
Quella udinese non è la prima esperienza di Bilancio Partecipativo in Italia: i processi di partecipazione popolare, partiti già da qualche tempo, stanno ora assumendo anche in Italia dimensioni interessanti.
Il fatto che tali esperienze si sviluppino in un sistema di governo basato sulla democrazia rappresentativa induce a chiederci se e in che termini l’ampia formula di democrazia diretta possa convivere in questo sistema.
In questa prospettiva è bene chiarire come fin dall’origine del costituzionalismo moderno, l’esercizio “diretto” della sovranità si risolveva “nel deliberare, in regime di compresenza fisica dei consociati – sulla piazza pubblica”, senza la partecipazione di intermediari che si potessero frapporre fra il decisore e la decisione.
Al contempo tra la democrazia e il regime rappresentativo, si è da sempre tracciata una nettissima linea di demarcazione, diretta a chiarire la radicale differenza che le separa.
Ma, se il concetto di democrazia diretta, è ancora oggi quello dei classici, (cioè quello del “popolo adunato”), è pur vero che nelle società complesse, ogni tecnica decisionale comporta, pur sempre (oggi più che mai) una mediazione. Nelle società pluralistiche diviene infatti inevitabile una interposizione fra il popolo e la decisione politica, anche quando quella decisione viene imputata allo stesso popolo e ad una sua “diretta” manifestazione di volontà. La realtà dei fatti dimostra come l’opinione pubblica si forma pur sempre e anzitutto attraverso la mediazione dell’attività di partiti e gruppi, e, sopratutto, attraverso i mezzi di informazione che, spesse volte, prevaricano l’ideologia degli stessi gruppi e partiti politici (più deboli).
Per tutto ciò, allorchè si discuta di processi di Bilancio Partecipativo, si dovrebbe più correttamente utilizzare il termine di democrazia partecipativa, pur consapevoli che il Bilancio partecipativo presenta connotati propri e specifici che vanno ben oltre il significato della partecipazione degli istituti costituzionali del referendum abrogativo e di partecipazione popolare.

Non vi è dubbio peraltro che simili processi partecipativi siano nati dall’esigenza di affrontare criticità proprie della democrazia rappresentativa che, ai nostri fini, si possono riassumere in una duplicità di fattori:

1) – l’ampliarsi del principio di sussidiaretà.
Una sorta di invito allo Stato a non intervenire ogni qualvolta i cittadini e loro aggregazioni sociali (famiglia, associazioni ed altri “corpi intermedi”, incluse le istituzioni locali) possono ‘fare da soli’. Il principio di sussidiarietà ha in sostanza innescato una catena di de-responsabilizzazioni progressive, con caratteristiche fortemente asimmetriche: infatti nell’epoca caratterizzata dal fenomeno della globalizzazione dei problemi viviamo una sempre più incisiva “localizzazione” delle soluzioni, che caricano le amministrazioni locali della responsabilità delle scelte (ma a cui, peraltro, non seguono adeguati trasferimenti di risorse, indispensabili per farvi fronte).
Questa crescita del decisionismo istituzionale locale, avviato con l’era dell’elezione diretta dei sindaci e della dimunizione di potere dei consigli comunali, è andata sempre più coniugando una creazione di spazi di partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni pubbliche.
Il coinvolgimento degli abitanti nelle scelte pubbliche diviene così quasi indispensabile sopratutto per ricostruire una fiducia dei cittadini nella politica, che possa darle ‘sostenibilità’ davanti alle continue crisi di legittimazione che ha attraversato nell’ultimo trentennio.
La riforma poi del Titolo V della Costituzione (2001) – con tutte le sue molteplici contraddizioni – si inserisce in questo percorso di sussidiarietà, diretto a valorizzare l’autonomia degli enti locali e degli istituti di partecipazione popolare. Il nuovo testo dell’art. 118 prevde così nuovi modelli organizzativi e di relazione tra amministrazione e cittadini, fondati sulla comunicazione e sulla co-decisione.
Con ciò rafforzando quel concetto di partecipazione evidenziato fin dai primi articoli della Costituzione, in cui appare chiara la convergenza tra sovranità popolare, partecipazione effettiva, uguaglianza sostanziale e pluralismo.

2) – la crisi del sistema dei partiti politici.
Già Carlo Esposito, giurista e filosofo del secolo scorso, aveva avuto modo di affermare che se un partito invece di rappresentare una ideologia e tendere al bene comune rappresentasse le esigenze di un gruppo di pressione economico, sarebbe di fatto un gruppo di pressione mascherato, e sarebbe per questo da combattere, da espellere dal Parlamento, da denunciare come scandaloso”
Il maestro filoso e giurista del secolo scorso precisa, tra l’altro, che l’azione dei partiti sui Ministri e sul Governo è lecita, ma “da condannare quando sia determinata da privati interessi” : la proiezione pubblica del partito, in quanto strumento di raccordo tra Stato e società civile con l’esclusiva funzione pubblica di trasmettere la volontà sovrana del popolo, non è compatibile, per Esposito, con l’inquinamento della politica da parte degli interessi personali ed economici.

In questa prospettiva non vi è chi non veda come l’inquinamento della politica con interessi personali ed economici di parte abbia avviato ad una crisi del sistema che, fin dagli anni 90, ha amplificato il senso di diffidenza e di sfiducia del popolo sovrano che ha finito col riversarsi sulle istituzioni, nucleo e fondamento della democrazia rappresentativa.
Se quindi i partiti sono chiamati a assolvere a una “funzione basilare nella vita della nostra democrazia rappresentativa”, ecco che, la crisi che oggi essi vivono si traduce e confonde nella crisi stessa della democrazia rappresentativa: con la naturale conseguenza della necessità di ricerca di nuove soluzioni.

È negli anni ’60 che il tema della partecipazione entra con forza nel dibattito politico italiano; sono gli anni dei consigli di fabbrica, consigli scolastici ed esperienze di urbanistica partecipata che avviano, nel decennio successivo, un percorso di elaborazioni normative.
La crisi degli anni ’90 ha portato poi alla differenziazione degli statuti comunali, soprattutto dopo la nuova legge elettorale del 1993 istitutiva dell’elezione diretta dei sindaci; mentre il Testo Unico degli Enti Locali del 2000, ha rafforzato il ruolo delle istituzioni più vicine al cittadino. Da allora hanno iniziato a costituirsi strumenti specifici e adatti ai diversi contesti socioculturali locali, con l’obiettivo di trasformare la partecipazione da risorsa simbolica in risorsa strumentale.
In Italia, la conoscenza del tema del Bilancio Partecipativo è avvenuta nel 1998, grazie ad alcuni studi universitari e alla neonata rivista ‘Carta’.
Se è vero che l’approccio al Bilancio Partecipativo è risultato fin da subito estremamente politicizzato , è pur altrettanto vero che oggi l’approccio al Bilancio Partecipativo appare più maturo, in quanto pensato e voluto quale strumento di relazione trilaterale tra amministrazioni, cittadinanza e apparato burocratico e, in ultima analisi, di miglioramento della gestione urbana.
Il Bilancio Partecipativo costituisce un percorso importante all’interno di queste sperimentazioni. In Italia, il dibattito sui ‘bilanci’ si è sviluppato in parallelo a quello dei Bilanci Sociali (strumenti diretti a misurare gli effetti in termini sociali delle politiche pubbliche) e ha trovato un terreno fertile alla comprensione del suo ruolo di strumento di rinnovamento politico/pedagogico centrale per l’arricchimento dell’autoconsapevolezza e del senso civico di cittadino.

L’esperienza di Udine, favorita e anticipata, dalla partecipazione alla Rete 9^ del Progetto europeo UR-BAL e successivamente dalla decisione consiliare di associarsi alla Rete del Nuovo Municipio è centrata in particolare sull’idea di portare avanti un’autoeducazione alla democrazia della cittadinanza, attraverso forme di co-decisione tra abitanti ed istituzioni relativamente ai nuovi investimenti strategici per il territorio. In tal senso Udine ha promosso e realizzato un progetto – ancorché sperimentale – di vero e proprio Bilancio Partecipativo, da non confondere con il Bilancio partecipato, il cui approccio sostanziale è ben diverso e certamente più riduttivo e limitante.
Si tratta di un percorso di coinvolgimento che presenta tutte le caratteristiche per tradursi in un percorso duraturo e strutturato dove i cittadini svolgono un ruolo attivo nella costruzione delle decisioni, e non certo di una partecipazione quasi ‘passiva’.

In tale prospettiva, Udine assume il ruolo e la funzione di “apripista” nell’ambito dell’intero territorio regionale, dove il Bilancio partecipativo, assieme al Bilancio Sociale, sono ancora al di là da venire.

2 pensieri su “Udine e bilancio partecipativo

  1. paolo

    la democrazia diretta esiste nel mondo e funziona. Non è vero che occorre mediazione dei partiti e delle istituzioni.
    L’esempio più clamoroso è la Svizzera dove i 6 milioni di cittadini possono decidere tutto tramite referendum e iniziativa senza quorum. Anche lo stipendio dei loro deputati, che infatti è tra i più bassi d’Europa. Poi c’è la California, una delle economie più ricche al mondo, 30 milioni di cittadini, dove oltre alle iniziative, ai referendum senza quorum, hanno anche la revoca degli eletti tramite refererendum revocatorio o “Recall”. E la Baviera dove sono stati introdotti dal 1995 referendum e iniziative con quorum del 10%. E i cittadini bavaresi ora hanno voce in capitolo nelle scelte delle loro città. Dire che la democrazia diretta non si può fare in grande scala, non è quindi vero. E’ semplicemente mancanza di conoscenza di ciò che c’è nel mondo.
    Paolo Michelotto

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  2. toniperatoner

    Non è solamente mancanza di conoscenza, è soprattutto mancanza di volontà politica, perchè si tratta di mettere a repentaglio una parte di potere, e nel nostro Paese il potere è pressochè l’unica molla che conduce gli individui ad impegnarsi nei partiti. Impegnarsi nella polis è qualcosa di profondamente diverso …
    toni

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