Foley - Jannis

Foley, ISIS, e la retorica dell’effetto-realtà.

La diffusione del video da parte dell’ISIS della decapitazione di Foley è un caso mediatico.

Perché, come subito in parecchi hanno notato, il video è montato, costruito, progettato. Contiene artefatti accortamente introdotti sul piano discorsivo e narrativo, sia sul lato dell’espressione sia su quello del contenuto, che in quanto stilemi facilmente decodificabili (secondo quale stilistica e codici? vedremo) cercano di affermare la veridicità, però non secondo una ricerca di trasparenza – anch’essa in ogni caso sempre “messa in scena” nell’effetto realtà. Nell’orizzonte delle attese del lettore, che siamo noi occidentali – non so bene cosa significhi, in questo contesto – qualcosa rimane insoddisfatto. Proprio perché la proiezione delle nostre aspettative su ciò che stiamo guardando non si incastra con il modo in cui la narrazione della decapitazione viene resa.

Qualcuno in Rete parlava di Brian De Palma, per citare un regista che esplicitamente come linea poetica (e Antonioni, e altri, certo) cercava di interrogarsi sugli effetti di realtà tramite l’opposizione vero/falso e falso/vero. Perché comunque siamo all’interno di un universo di discorso, che pone sé stesso in quanto rappresentazione e dissemina degli indizi per la propria comprensione, per la leggibilità del testo. E l’obiezione immediata è che nel nostro orizzonte di attese sopracitato quel video avrebbe dovuto essere piuttosto crudo, senza tagli e montaggi, un piano sequenza – l’elemento grammaticale della “presa diretta” sulla realtà, appunto, senza mediazioni. E invece questo video è montato. E qual straniamento, Verfremdungseffekt, ci viene da questa organizzazione del discorso.

Forse il “regista” pensava di essere più realistico in questo modo? Secondo quali codici espressivi, quale “poetica”? Ovvero, quale era la sua idea di “lettore modello”, per confezionare in tal guisa il suo messaggio? Oppure, come DePalma o altri ormai banali (trent’anni di massmedia scavano in noi) espedienti cinematografici, sta tessendo una narrazione disseminando sgambetti e inciampi alla nostra interpretazione? Oppure il fatto che, come l’incappucciato inquadrato, l’autore fosse forse inglese british e quindi fosse presumibilmente imbevuto in profondità di cultura occidentale gli ha fatto progettare (consapevolmente o no? qui il nocciolo per provare a decodificare l’intenzionalità autoriale, ovvero attribuire appunto una poetica) la realizzazione del video in quel modo, prima ancora di girarlo? Forse era semplicemente un appassionato di Premiere o Vegas o altri software di videoediting, e si è sbizzarrito come chi a livello amatoriale montando il video di un matrimonio eccede in dissolvenze incrociate e improbabili tendine? Perché? Perché?

Oppure, come dicevo sopra, il problema siamo noi. Inventio, dispositio, elocutio, in ogni aspetto ci sono domande. Decenni di retorica mediatica, o dovrei dire grammatiche per schivare la connotazione ormai decisamente negativa del termine, hanno costruito in noi delle attese, anticipazioni rispetto a ciò che il messaggio mediatico sta per narrarmi. Il messaggio è “ben formato” in sé, però cozza con le nostre aspettative riguardo la coerenza e congruenza con il contesto enunciazionale. Non è adeguato.  Non avrebbero dovuto farlo così. E anche qui mi chiedo perché, perché secondo i nostri codici non è adeguato. Perché se siamo catturati nella costruzione di un frame linguistico e mediatico dall’ISIS progettato e quindi imposto, la nostra reazione avrebbe dovuto essere automaticamente di sdegno e orrore e condanna, e così è, ma in modo nuovo, mediato, entrando e uscendo dalla fiction e dalla presa diretta. Eppure non si fa così, c’erano modi migliori per farlo, pensiamo noi. Perché? Perché?

Non riesco a venirne a capo, nessun cui prodest mi aiuta, nessuna possibile strategia narrativa praticabile da ancorare ai ruoli, in questa situazione del far sapere.

Sospendo il giudizio. Il regista è uno che si diletta di videoediting, questo posso dire.

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