Archivi autore: Giorgio Jannis

Decrescita, una soluzione tecnologica

Proposta di confronto su un progetto per superare la crisi e creare un’occupazione utile

La crescita è la causa della crisi (potrebbe esserne la soluzione?)
In un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci la concorrenza costringe le aziende ad aumentare la produttività adottando tecnologie sempre più performanti, che consentono di produrre in una unità di tempo quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di addetti. L’effetto congiunto degli aumenti di produttività e della riduzione dell’incidenza del lavoro sul valore aggiunto comporta un progressivo aumento dell’offerta e una progressiva diminuzione della domanda di merci. Nei paesi di più antica industrializzazione questo squilibrio è stato accentuato dalla globalizzazione, che ha permesso alle aziende di delocalizzare le loro produzioni nei paesi dove il costo della mano d’opera è minore, per cui il numero degli occupati in questi paesi è diminuito e nei paesi in cui le delocalizzazioni lo hanno fatto crescere le retribuzioni sono così basse che non compensano la perdita complessiva del potere d’acquisto.
Il debito è l’altra faccia della medaglia della crescita
Lo strumento per compensare lo squilibrio tra incremento dell’offerta e riduzione della domanda insito nelle economie finalizzate alla crescita è stato il ricorso al debito, pubblico e privato, dello Stato e delle sue articolazioni periferiche, delle famiglie e delle aziende. La somma dei debiti pubblici e privati nei paesi industrializzati ha raggiunto circa il 200 per cento del prodotto interno lordo. L’incremento del debito è stato superiore alla crescita del prodotto interno lordo perché sul suo ammontare gravano gli interessi composti e i tassi d’interesse aumentano con l’aumentare del debito. Inoltre la sua espansione non ha limiti se non nell’emissione di carta moneta, la cui convertibilità con l’oro è stata sospesa nel 1971 e dipende soltanto dalla volontà politica, mentre la crescita della produzione di merci trova limiti oggettivi nella disponibilità delle risorse, rinnovabili e non rinnovabili, da trasformare in merci, e nella capacità dei cicli bio-chimici di metabolizzare gli scarti della produzione, che è stata ampiamente superata soprattutto in relazione all’assorbimento delle emissioni di anidride carbonica da parte della fotosintesi clorofilliana.
Le misure tradizionali di politica economica non funzionano più.
I tentativi di rilanciare la crescita economica effettuati da cinque anni a questa parte non hanno dato i risultati sperati. Secondo la visione ottimistica dell’attuale primo ministro tedesco, signora Merkel, per superare la crisi ne occorreranno almeno altrettanti. Il fatto è che la domanda è sostenuta in maniera determinante dal debito, per cui le misure di politica economica finalizzate a ridurlo deprimono la domanda e aggravano la crisi, mentre le misure finalizzate a rilanciare la domanda attraverso la crescita dei consumi lo accrescono. Per superare questa impasse, senza peraltro ottenere i risultati sperati, le misure di politica economica adottate sino ad ora nei paesi industrializzati sono state finalizzate a:
  1. ridurre i debiti scaricandone i costi sulle classi sociali meno abbienti e sui ceti medi, mediante drastici tagli alla spesa pubblica per i servizi sociali, riduzioni delle tutele sindacali dei lavoratori, licenziamenti e blocchi delle assunzioni che hanno penalizzato soprattutto le fasce giovanili, inasprimenti della fiscalità indiretta, cessione ai privati della gestione dei beni pubblici
  2. rilanciare la crescita finanziando col denaro pubblico grandi opere infrastrutturali, realizzabili soltanto da grandi aziende multinazionali.
Inasprimento della lotta di classe dei ricchi contro i poveri.
Questa strategia, peraltro fallimentare, per superare la crisi, è sostenuta da un blocco di potere costituito da tutti i partiti politici, di destra e di sinistra, che hanno la loro matrice culturale nell’ideologia della crescita di derivazione ottocentesca e novecentesca, dalle industrie multinazionali e dalla grande finanza, con un progressivo disprezzo delle regole democratiche a cui pure dicono di ispirarsi. Nei partiti politici di destra e di sinistra, le differenze sui criteri di distribuzione della ricchezza monetaria prodotta dalla crescita della produzione di merci sono sempre meno significative, rispetto alla sostanziale convergenza sulla scelta di scaricare sulle classi popolari e sul ceto medio i costi del rientro dal debito pubblico e di rilanciare la crescita attraverso la mercificazione dei beni comuni e un programma di grandi opere.
Le posizioni neo-keynesiane.
All’interno dell’obbiettivo comune di rilanciare la crescita l’unica differenza politica sulle strategie per raggiungerlo si verifica con alcune frange della sinistra, le correnti new labour e l’estrema sinistra, che sostengono la necessità di
  1. ridimensionare le misure restrittive finalizzate a ridurre il debito pubblico perché hanno un effetto depressivo e, quindi, in realtà lo aggravano riducendo le entrate fiscali;
  2. realizzare una più equa redistribuzione del reddito alle classi meno abbienti perché è l’unico modo per rilanciare i consumi;
  3. aumentare il prelievo fiscale alle classi più ricche per sostenere gli investimenti, con un’attenzione particolare alla cosiddetta green economy;
  4. incrementare la spesa pubblica per creare occupazione nei servizi sociali a vantaggio delle categorie sociali più deboli.
Un’incredibile rimozione collettiva.
Un’incredibile rimozione collettiva induce i sostenitori della crescita, a qualsiasi corrente di pensiero appartengano, a ignorare i legami delle attività produttive con i contesti ambientali da cui prelevano le risorse da trasformare in merci e in cui scaricano le emissioni dei processi produttivi e gli oggetti che vengono dismessi al termine della loro vita utile. Nella fase storica attuale la crescita non solo è la causa di una crisi economica da cui non ci si può illudere di uscire ripristinando le condizioni precedenti ad essa, perché non può non accentuare progressivamente lo squilibrio tra gli incrementi dell’offerta e la diminuzione della domanda di merci, ma anche di una gravissima crisi ambientale caratterizzata da un prelievo di risorse riproducibili superiore alla loro capacità di rigenerazione annua e da un consumo di risorse non riproducibili che ha ridotto pericolosamente gli stock di alcune di esse, in particolare le fonti fossili, dove il rapporto tra l’energia ricavata e l’energia consumata per ricavarla è crollato (l’e.r.o.e.i., Energy Returned On Energy Invested, del petrolio, che fino al 1940 era superiore a 100, nel 1984 era sceso a 8), mentre al contempo l’aumento delle concentrazioni di CO2 in atmosfera ha raggiunto una soglia pericolosa per la sopravvivenza stessa della specie umana.
Investire nelle tecnologie che riducono gli sprechi di energia e risorse naturali.
La scelta strategica per uscire dalla crisi aprendo una fase più avanzata nella storia dell’umanità è lo sviluppo delle tecnologie che riducono gli sprechi delle risorse naturali aumentando l’efficienza con cui si usano. Nei paesi industriali avanzati gli usi finali dell’energia sono costituiti al 70 per cento da sprechi. Se la politica industriale venisse finalizzata a ridurli, si aprirebbero ampi spazi per un’occupazione utile, i cui costi sarebbero pagati dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici senza aggravare i debiti pubblici e privati. Lo sviluppo di queste tecnologie consentirebbe inoltre di attenuare le crisi internazionali per il controllo delle fonti fossili e la crisi climatica causata dalle emissioni di CO2.
La decrescita selettiva della produzione di merci è alternativa sia all’austerità, sia al consumismo irresponsabile.
Il rilancio del consumismo a debito, che comporta un aggravamento della crisi ambientale, non è l’unica alternativa all’austerità, che comporta un aumento della disoccupazione, privando del futuro le giovani generazioni e causando peggioramenti alle condizioni di vita delle classi sociali più deboli. L’austerità non è l’unica alternativa all’aumento del debito pubblico. La decrescita selettiva della produzione di merci, finalizzata alla riduzione del consumo di materia e energia a parità di servizi, è alternativa sia alle politiche di austerità, che aggravano la recessione, sia alle misure espansive di tipo keynesiano basate sul rilancio del consumismo a debito, che mettono in luce solo il collegamento tra più equa redistribuzione della ricchezza monetaria, crescita della domanda e crescita della produzione di merci, ma espungono dal loro orizzonte mentale la correlazione tra l’aumento del debito monetario, finalizzato a rilanciare produzione e consumi, e l’aumento del debito nei confronti della natura che ne consegue.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci.
La causa scatenante della crisi, a partire dalla crisi dei mutui subprime che le hanno dato avvio nel 2007 negli Stati Uniti, è stato il numero crescente di case invendute. Lo stesso problema è particolarmente acuto in Spagna, in Irlanda, in Italia. Questa situazione per la prima volta dal dopoguerra ha rovesciato uno dei capisaldi dell’ideologia della crescita, sintetizzato in Francia dal detto Quand le bâtiment va, tout va. Oggi l’unico modo di rilanciare il settore dell’edilizia non è la costruzione di nuovi edifici che non troverebbero una domanda, ma la ristrutturazione, principalmente energetica, degli edifici esistenti, affinché riducano almeno di due terzi i loro consumi riducendo le dispersioni termiche. L’unico modo di affrontare la crisi dell’industria automobilistica non è l’illusione di rilanciare la domanda con l’offerta di nuovi modelli, dal momento che dagli anni sessanta ad oggi le automobili circolanti in Italia sono passate da meno di 2 milioni a oltre 35 milioni, ma implementare la produzione di microcogeneratori, che raddoppiano l’efficienza nell’uso dell’energia, ovvero dimezzano i consumi a parità di servizi energetici. L’unico modo di ridurre i costi dei generi alimentari (aumentati del 170 per cento negli ultimi 10 anni a causa dell’aumento dei prezzi delle fonti fossili, che incidono non solo sui trasporti, ma in tutte le fasi produttive dell’agricoltura chimica) è l’incentivazione dell’agricoltura biologica, stagionale, di prossimità, con vendita diretta dai produttori agli acquirenti organizzati nei gruppi d’acquisto solidale, che richiede un maggior numero di occupati, riduce l’impatto ambientale e il consumo di fonti fossili, contribuisce a ridurre i dissesti idrogeologici, ammortizza i maggiori costi di produzione bypassando le intermediazioni commerciali.
Il blocco di potere cementato dall’ideologia della crescita.
La classe dirigente dei paesi industrializzati è composta dall’alleanza strategica tra tre soggetti sociali cementati dall’ideologia della crescita: i partiti politici di destra e di sinistra che hanno le loro radici nella cultura industrialista e produttivista maturata nel corso dell’ottocento e del novecento, le grandi aziende multinazionali prevalse nel corso del novecento dalla competizione con le loro concorrenti, e il comparto specifico dell’alleanza tra questi due soggetti costituito dal complesso politico-militare. Il fulcro su cui questa classe dirigente fa leva per far ripartire la crescita sono le grandi opere pubbliche, che possono essere commissionate solo dallo Stato centrale, o dalle sue articolazioni periferiche, e possono essere realizzate solo da aziende multinazionali. Ma la crescita economica richiede consumi crescenti di energia e materie prime che si possono ottenere solo attraverso il controllo militare delle aree del mondo in cui si trovano. I sistemi d’arma necessari per esercitare questo controllo possono essere commissionati solo dai partiti politici che li ritengono necessari per garantire l’incremento dei consumi energetici, e possono essere prodotti solo da aziende multinazionali. Non a caso le politiche restrittive adottate per ridurre i debiti pubblici non hanno scalfito i privilegi della casta politica, non hanno tagliato i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, né le commesse all’industria militare.
Una nuova cultura per una nuova alleanza sociale.
Una politica economica finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci e del consumo di energia e materia mediante la riduzione degli sprechi, può essere promossa solo da forze politiche non condizionate dai vincoli dell’ideologia della crescita di origine ottocentesca e novecentesca e può essere realizzata solo da piccole aziende, professionisti e artigiani radicati nei territori in cui operano, in grado di effettuare una serie di interventi puntuali, anche di portata limitata. Il settore prioritario in cui occorre intervenire è la riduzione degli sprechi e delle inefficienze negli usi energetici, in particolare negli edifici, che assorbono quasi la metà dei consumi energetici globali e dove si possono ottenere, a parità di benessere, riduzioni superiori al 70 per cento. Una politica industriale finalizzata alla ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio esistente offrirebbe opportunità di lavoro non altrimenti ottenibili a una miriade di operatori del settore e consentirebbe di accrescere l’occupazione in attività qualificate.
Avviare un confronto tra i potenziali sostenitori di un progetto politico finalizzato a superare la crisi mediante una decrescita selettiva della produzione di merci.
Una politica economica e industriale finalizzata alla decrescita selettiva della produzione di merci si può realizzare soltanto se si aggrega un’alleanza di forze politiche, sociali, imprenditoriali e professionali consapevoli del contributo che possono apportarvi con la loro cultura, le loro scelte comportamentali, il loro impegno sociale o ambientale, le loro competenze tecniche, la legittima esigenza di utilizzare a pieno i loro impianti tecnologici per produrre e dare lavoro. I soggetti sociali potenzialmente interessati a collaborare a un progetto di questo genere, sono i seguenti.
1. Le forze politiche non catalogabili negli schieramenti di destra e sinistra in cui si suddividono i partiti accomunati dall’ideologia della crescita, già presenti in alcune istituzioni. Un esempio emblematico si è realizzato nel Comune di Avigliana, in Val di Susa, dove alle elezioni amministrative del 2012 si sono presentate due liste. Una composta dall’alleanza tra il principale partito di centro destra e il principale partito di centro sinistra, accomunati da un programma a favore della realizzazione del treno ad alta velocità con la motivazione che darebbe un impulso alla crescita e all’occupazione.[1] Nella coalizione antagonista, che ha vinto le elezioni, sono confluiti i rappresentanti dei movimenti contrari al TAV a causa della sua inutilità e dei suoi costi, che proponevano in alternativa di indirizzare gli investimenti sullo sviluppo di attività lavorative a tutela del territorio e a ripristino delle devastazioni che ha già subito. Accanto ad alcune di queste esperienze locali è anche in corso di realizzazione un progetto di aggregazione politica nazionale che sta ricevendo una quantità di consensi superiore a ogni altro partito storico, sebbene la sua fisionomia sia ancora caratterizzata prevalentemente dalla contrapposizione al sistema di potere incarnato da quei partiti più che da un progetto di futuro. Ma le fasi di passaggio di epoca storica non sono mai lineari. I progetti di rottura e ricostruzione si chiariscono progressivamente e solo se sono in grado di catalizzare e far interagire le altre forze che al di fuori delle istituzioni, nei contesti sociali più disparati e nelle attività produttive, realizzano tasselli di un progetto con caratteristiche analoghe.
2. Le piccole aziende e gli artigiani, che attualmente lavorano per lo più nell’indotto delle grandi aziende multinazionali, o come contoterzisti. Costoro non soltanto non vedono valorizzato socialmente il loro ruolo produttivo, ma sono costretti a operare in condizioni sempre più precarie e con utili sempre più ridotti perché in questo modo le aziende multinazionali per cui lavorano riescono ridurre i costi di produzione e sostenere la concorrenza sui mercati globali. La liberazione delle piccole aziende e degli artigiani, che costituiscono il 99 per cento del’industria italiana, da questo ruolo subordinato all’interno dell’economia della crescita può avvenire solo se si ricrea una rete di rapporti commerciali diretti con gli acquirenti che vivono nelle realtà locali in cui esse operano. In questo quadro acquistano un’importanza strategica i professionisti, che costituiscono il canale di comunicazione tra produttori e acquirenti. E un’importanza altrettanto strategica hanno le piccole aziende agricole biologiche di prossimità che sono in grado di garantire la sovranità alimentare a differenza delle grandi aziende multinazionali del settore agro-alimentare, che agiscono sul mercato mondiale e sono del tutto indifferenti alle realtà locali in cui operano.
3. I settori del sindacato che non si sono piegati al ricatto di accettare la riduzione delle tutele, della dignità, della salute e dei salari dei lavoratori per consentire alle aziende multinazionali di sostenere la concorrenza sui mercati mondiali riducendo i costi del lavoro anziché i costi degli sprechi nell’uso delle risorse, o nella patetica illusione di attirare gli investimenti stranieri attualmente indirizzati nei paesi dove il costo della manodopera è molto inferiore, gli orari di lavoro molto più lunghi e non esistono le garanzie conquistare dai lavoratori europei nei decenni passati.
4. Le molteplici forme associative in cui si esprime il bisogno di contribuire al bene comune da parte dei settori più sensibili della popolazione, che non trovano nelle strutture dei partiti esistenti i luoghi in cui esprimere la loro cittadinanza attiva: gruppi di acquisto solidale, banche del tempo, comitati per la tutela del paesaggio, movimenti contro la realizzazione di grandi opere devastanti per i territori in cui abitano, associazioni di volontariato sociale e culturale, associazioni volontarie di comuni impegnati nella tutela del loro territorio e della qualità della vita dei suoi abitanti, gruppi dell’associazionismo cattolico e di altre professioni religiose, aziende operanti nel terzo settore, associazioni ambientaliste e di promozione sociale, comitati di genitori nelle scuole, reti dell’economia solidale e della finanza etica ecc.
Il Movimento per la decrescita felice invita questi soggetti a verificare se, sulla base delle riflessioni qui riassunte, sia possibile realizzare momenti di confronto comuni per collaborare ad affrontare una crisi, che non è solo economica e ambientale, ma una vera e propria crisi di civiltà.
Movimento per la Decrescita Felice

Prevedere il mondo

Nel 2008 scrivevo su questo blog una cosa intitolata alla Petabyte Age, seguendo le suggestioni di un articolo alquanto provocatorio di Chris Anderson: qui il link.
Là si trattava di riformulare l’epistemologia della scienza, perché nell’epoca odierna dei Big Data e delle capacità computazionali e algoritmiche il procedimento mentale e operativo del descrivere il mondo e prevedere le conseguenze delle modificazioni (roba di scienza, sì) è profondamente cambiato.
Estremizzando, non è più necessario porre una domanda al mondo e formulare un’ipotesi da falsificare, come il metodo scientifico ci insegna.
Semplicemente processando dati, quantità di dati incomprensibili e non analizzabili da pensiero umano (che non riuscirebbe a cogliere nessuna correlazione significativa in essi) è possibile comprendere azioni del mondo, e prevedere i comportamenti dei sistemi complessi. Complessità e semplicità della teoria esplicativa, oppure eleganza, di questo stiamo parlando.
E oggi il discorso torna fuori, trasportato sul piano della ricerca linguistica, nella contrapposizione teorica tra Norvig e Chomsky, per come appare in questo articolo qui pubblicato su Tor.com.
Se parlassimo di fisica classica come qualche secolo fa, oggi Keplero non avrebbe bisogno di porsi il problema dell’orbita dei pianeti, per confutare la loro perfetta circolarità biblica e ipotizzare la forma ellittica: sarebbe sufficiente chiedere a Google le coordinate delle singole posizioni dei pianeti attimo per attimo, e l’ipotesi ellittica emergerebbe semplicemente, come dato della realtà, includendo la prevedibilità dell’evoluzione del sistema.
E se parliamo di grammatiche e di linguaggi, non è più necessario come fece Chomsky cinquant’anni fa ipotizzare strutture generative profonde della mente umana già grammaticalmente orientate, per prevedere quali parole possono occorrere in una frase ancora da pronunciare. Per ogni sequenza di parole, posso statisticamente estrapolare da Internet la parola da aggiungere alla serie, la parola grammaticalmente adeguata, senza conoscere le regole della grammatica, senza possedere preventivamente una teoria riguardo il funzionamento del linguaggio e il significato stesso delle parole che sto utilizzando. L’approccio “Google” non è quello di sviluppare una comprensione più sofisticata del linguaggio, ma quello di raccogliere più dati sul suo funzionamento concreto (quello che si dice e si scrive nel mondo, ora in questo momento) per costruire database migliori, che garantiscano una maggiore predittività.
E’ il sistema che usano i traduttori automatici, i dispositivi di intelligenza artificiale attuali, che si concentrano sugli algoritmi di ricerca e non sulla comprensione delle grammatiche profonde del linguaggio naturale (che non essendo appunto un linguaggio formale, è in sé contradditorio, non sistematizzabile né descrivibile stando all’interno dello stesso. E uscire dal linguaggio per parlare del linguaggio è epistemologia squisita).
E’ necessaria la comprensione umana per stabilire la prevedibilità di un fenomeno? Se la risposta è no, allora la figura dello scienziato va profondamente rivista.

Da UdineSmart a PotenzaSmart

Una sorta di passaggio del testimone, un resoconto dell’esperienza realizzata a Udine nei primi giorni di dicembre 2012, per contribuire con qualche idea al convegno PotenzaSmart. 
L’articolo è apparso sul sito del convegno lucano, qui www.potenzasmart.it/non-ce-smart-city-senza-smart-community/

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“Da udinesmart a potenzasmart, con tanta simpatia”.

Giorgio Jannis, coordinatore comitato tecnico-scientifico #udinesmart, ci racconta l’esperienza fatta da loro.

“Non c’è smart-city senza smart-community” è stata la sintesi in forma di slogan emersa dal primo barcamp tenutosi a Udine nel 2011 sulle tematiche dell’innovazione tecnologica e dei nuovi approcci della comunicazione pubblica nella Pubblica Amministrazione.
Quel convegno informale (il modello “barcamp” si presta perfettamente a incontri pubblici contraddistinti dalla libera proposizione di idee e di suggerimenti da parte della comunità dei portatori di interesse) fu caratterizzato da una notevole partecipazione spontanea da parte di cittadini, professionisti e operatori culturali; al di là dei preziosi contributi alla riflessione collettiva si è potuta in tal modo costruire una solida rete relazionale tra persone e realtà territoriali pubbliche e private orientate all’innovazione urbanistica e alla diffusione delle nuove forme di e-partecipation a finalità civica.

Partendo proprio dall’esperienza del 2011 il Comune di Udine ha promosso nel dicembre 2012 il convegno#udinesmart articolato su due giorni e tre diverse location tematicamente connotate, per offrire alla cittadinanza un resoconto delle iniziative smart promosse dalla Pubblica Amministrazione locale, e al contempo sollecitare nuovamente la cittadinanza a partecipare in moto attivo alla progettazione collaborativa della Udine del ventunesimo secolo.
Il Comune di Udine per voce dell’Assessore all’Innovazione ha illustrato il successo del sistema e-Part, mappa interattiva per la segnalazione da parte dei cittadini delle problematiche urbane riguardanti a esempio la viabilità o l’arredo urbano, e contestualmente è stata annunciata la realizzazione in partnership con Telecom di una rete di connettività in fibra ottica FTTC di nuova generazione, che permetterà entro quest’anno una navigazione internet a velocità di 50Mb/s per imprese e cittadini (ben oltre le indicazioni dell’Agenda digitale europea, 30Mb/s entro il 2020), abbattendo i costi e riducendo l’impatto ambientale dei lavori grazie all’utilizzo delle infrastrutture fognarie.
È da segnalare inoltre per la sua rilevanza di dimensione nazionale la presentazione insieme a Riccardo Luna e Vittorio Alvino del sito web OpenUdine grazie al quale Udine è diventata la prima città italiana totalmente trasparente nei suoi processi amministrativi e direttamente monitorabile dai cittadini, secondo la filosofia OpenMunicipio, in direzione di un e-government efficiente e una e-democracy efficace.
Al nuovo museo cittadino di arte moderna si è tenuto #udinesm.art, dando appunto possibilità al fiuto degli artisti e degli operatori culturali locali di “fare il punto” e proporre riflessioni creative sui processi innovativi dell’abitare il territorio ora innervato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, mentre presso le strutture cittadine di Friuli Future Forum della Camera di Commercio si è tenuta una tavola rotonda sul futuro del giornalismo 2.0, presenti direttori e responsabili di quotidiani locali e giornalisti di fama nazionale, per ragionare sui meccanismi editoriali moderni dell’informazione e della pubblica opinione.
La comunicazione dell’evento si è avvalsa anche dei media tradizionali nella consapevolezza che l’alfabetizzazione alla Cultura digitale, soprattutto nei suoi aspetti di partecipazione civica, deve intervenire laddove risulta meno diffusa, a esempio tra le fasce della popolazione tuttora ancorate al mezzo televisivo quale unica fonte di informazione. Sono state realizzate nove puntate (pillole della durata di sette minuti) del programma televisivo “Non è mai troppo digital” trasmesse da emittenti locali a cavallo dell’evento #udinesmart, per la sensibilizzazione alla tematica della smart-city e delle potenzialità offerte dalla rete internet alle pratiche quotidiane dell’abitare in territori connessi.
Una città è un hardware fatto di infrastrutture tecnologiche (connettività a banda ultralarga, wifi cittadino, sensoristica) su cui “gira” un software costituito dalla collettività che risiede su quel territorio, dai suoi comportamenti mediatici, dallo stile peculiare della sua partecipazione alla conversazione su temi di natura civica o amministrativa. Il convegno #udinesmart è riuscito a mettere in luce entrambi gli aspetti, promuovendo consapevolezza nella popolazione sui cambiamenti tecnosociali che portano ora a definire le città come “intelligenti” in quanto ottimizzate dalla tecnologia di connettività nella produzione e distribuzione di merci energia e informazione, in quanto capaci di offrire luoghi di socialità digitale per la comunicazione pubblica ove i cittadini possano partecipare in modo consultivo o decisionale all’amministrazione della cosa pubblica.

Smart-city = decrescita

Unisco due passioni, diciamo così.
Ovviamente la smartcity è da interpretare come relazione tra città e collettività che la abita, nelle sue competenze e conoscenze. Con il solito parallelo tra hardware (gli edifici, le piazze, la sensoristica, la fibra ottica, il wifi) e i comportamenti umani software (i flussi di merci persone e informazione, l’abitare i media e i linguaggi, l’esercitare cittadinanza attiva) è da porre l’attenzione alla relazione tra gli elementi, oltre all’analisi degli elementi. Come un buon informatico, che è tale quando pone l’attenzione tra risorse e programma, e quindi progetta. Come un antropologo, peraltro, come uno psicologo post cognitivista, come un linguista post strutturalista, come tutta l’intelligenza dei pensatori bravi della seconda metà del ‘900 ci ha insegnato. Porre l’attenzione alla relazione, e quindi al contesto. Quel qui e ora dove avviene pragmaticamente la comunicazione, con i suoi impliciti e i suoi non detti. Gli automatismi, le abitudini.
E un’abitudine da spezzare è quella della pessima aura che la parola decrescita si porta dietro, come diminuzione, povertà, riduzione, de- qualcosa.
Meglio morigeratezza, sobrietà, o comunque ottimizzazione delle risorse e dei processi per sfruttare le risorse stesse, la qual cosa è proprio la linea d’intenti di una decrescita correttamente intesa. Tramite strumenti come filiere corte, distretti di economia solidale, incontro locale domanda e offerta, democrazia di prossimità. 
Non pensate al perché, pensate al come. Siate un po’ tecnologi, visto che viviamo in ambienti tecnologici da almeno due milioni di anni, e non eravamo nemmeno uomini quando addomesticavamo il fuoco.
E qui parlo di sistemi, metodologie, meccanismi per gestire la complessità dei luoghi in cui abitiamo ora.
Luoghi che noi stessi abbiamo inventato, il paesaggio è un oggetto tecnologico tanto quanto un prosciutto o un sistema elettorale, e quindi si tratta di cose che abbiamo progettato e realizzato e via via migliorato nel tempo, migliorandone la tecnologia.
La smart-city (o porzioni di territorio anche miste rurali, non solo metropolitane: la connettività è indifferente alla geografia) è social, e la collettività è il motore e il destinatario, la qualità del vivere da perseguire. Si tratta di ambienti economici basati su relazioni umane, e la città connessa è il sistema operativo del funzionamento. E’ anche il luogo della coscienza collettiva, della pubblica opinione, della formazione delle identità, della loro negoziazione e patteggiamento in termini interpersonali e gruppali, è il posto dove gli accadimenti diventano fatti storici.
Ecco perché ottimizzare la smartcity è qualcosa che va in direzione della decrescita, perché ottimizza sistemi produttivi e distributivi di beni e servizi, perché incrementa e moltiplica la partecipazione della collettività alla vita pubblica, decrescendo da un sistema (meccanismo) di rappresentatività politica e gestione amministrativa del territorio molto verticale, roccioso, gerarchico, fortemente strutturato, a modalità più liquide, orizzontali, partecipative.
Non abbiamo ancora una grammatica ben fondata per padroneggiare i nuovi linguaggi della partecipazione permessi dalle nuove tecnologie di connettività, non sappiamo parlare bene e ci stiamo inventando le parole più adeguate a denotare i fatti del mondo, ma d’altronde sette anni fa non c’era neanche Facebook, e non sapevamo nulla, solo vagheggiavamo possibilità. Siamo nella culla, as usual.
Credo anche che possedere molti dati su quanto avviene sui territori geografici, a vari livelli di pertinenza (iperlocale, comunale, regionale, etc.), sui flussi di persone beni e informazioni, sia fondamentale e necessario per poter analizzare dinamiche abitative e progettare migliorìe. Open data ovunque, di ogni tipo, dati crudi e già rielaborati, sintesi e spaccati, tutti devono pubblicare tutto, per trasparenza, per contribuire a rendere di migliore qualità l’abitare.

voglio sapere TUTTO. Disaggregate i dati, fate quello che volete. Propongo tra l’altro la distinzione tra dati caldi (sensibili) e freddi (quelli insensibili ehehehe). Voglio sia possibile sapere tutto di un’area geografica. Voglio sapere cosa facciamo come collettività MENTRE viviamo, voglio saper CHI SIAMO. E quindi capir come ottimizzare i nostri comportamenti, uscire da nevrosi di massa, coltivare la nostra personalità, rifinire il nostro stile dell’abitare come muffa su questo pianetucolo, voglio un’identità.

Questo era un mio commento su FB, dentro una discussione un po’ bislacca e quindi piuttosto libera su una correlazione tra fasi lunari e reati o comportamenti “devianti”, un mio vecchio pallino, che mi ha portato a scrivere il presente post.

#papa is the new #papa

Metti che il papa si dimette o abdica o quel che è, partono immediatamente, anzi mediaticamente, centinaia migliaia di commenti.
I battutari sono meravigliosi, l’italia è piena di gente di spirito, twitter farebbe la felicità dei ghistwriter dei personaggi televisivi e dei baracconi della risata, facebook con più lentezza sta arrivando, migliaia di persone che si arrovellano per trovare il gioco di parole giusto. Meraviglia. Crowdsourcing del commento di cronaca in tempo reale.
Secondo me l’ANSA dovrebbe contestualmente alla prima notizia dell’evento proporre l’hashtag giusto, sennò certe perle si perdono.
Poi ci sono i commentatori seriosi, i link alla storia del personaggio, gli approfondimenti di diritto canonico, i latinisti sguinzagliati, i facili collegamenti con la situazione politica, il mondo del lavoro, eccetera.
E questo varrà per tutti i prossimi eventi del pianeta, per i prossimi decenni. Vado a leggere un libro.

Propaggini incongruenti

Chissà, credo di averne parlato anni fa qui o su altri blog dove scrivo.
Una distinzione tra diverse posture mentali, relativa all’educazione, allo Stato, all’etica, ai comportamenti.
Puoi educare con il senso di colpa, come noi latini, oppure utilizzando la vergogna. 
Il primo è un fatto privato, intimo, e richiede un confessionale (cultura cattolica), il secondo è un fatto sociale, non ci si può vergognare da soli, e sociale è anche l’espiazione del “peccato” (orrenda parola), dell’errore commesso. Morale vs. etica.
Nel nord europa vige la disseminazione di un’etica della responsabilità, ovvero si fa in modo che gli individui diventino con l’educazione consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni, qui da noi si pone un limite, perché lo Stato è una mamma italiana che ti dice di non fare quella cosa e poi quando tu adolescente ribelle la fai lo stesso la mamma sotto sotto è compiaciuta dell’intraprendenza del figlio, un rabbuffo sorridendo e via, è uno scugnizzo taaaanto simpatico. Incongruenza tra le parole severe e i gesti affettuosi, e quale vuoi che sia il messaggio che passa ai giovani, sul piano educativo? Di fare le cose, soprattutto senza pensare alle conseguenze.
Quindi al nord le autostrade tendenzialmente non hanno limite di velocità massima, da noi sì. E poi nella pratica (fino al tutor, che ha modificato i comportamenti, ovvero con politiche sanzionatorie e non educative) tutti andavano lo stesso a 170 km/h.
E’ proprio una forma mentis, sia chiaro. Della collettività, dell’epoca storica, delle istituzioni. Lo Stato mammone che deve pensare maternalisticamente ai noi poveri adolescenti ribelli, e pone dei limiti per il nostro bene, senza responsabilizzarci, senza fornirci strumenti concettuali metacognitivi che ci rendano in grado di giudicare noi stessi e i nostri comportamenti, rispetto alla socialità, all’etica. Non cresciamo mai, restiamo impaludati nell’osservanza bigotta della regola e l’anelito alla ribellione fine a sé stessa.
Come nota giustamente Mantellini, anche l’ultimo bisticcio sull’app di SWG e il parere dell’AGCom di cui parlavo qui risente di questa postura mentale novecentesca (secolare, direi io, e andrei tanto indietro) dello Stato-Mamma. 
Ma fino a ieri le modalità di funzionamento della società (i processi di formulazione di leggi, i meccanismi della loro applicabilità, la creazione e diffusione di opinione pubblica, i flussi informativi, i percorsi praticabili di partecipazione civica, etc.) erano broadcast, e se spengo un ripetitore su una montagna lascio all’oscuro tutta una valle. Oggi abitiamo in Rete, se non passo per lì arrivo all’informazione da un’altra parte, da un altro nodo, da un altro server, da un’altra persona. E non funziona più.

La par condicio è figlia di un concetto di democrazia non matura che nella seconda metà del secolo scorso ha dominato il pensiero del legislatore: una elite illuminata (o presunta tale) che segnava nella notte il sentiero al popolo verso il buono ed il giusto; una forma di intrusione gentile nelle vite dei cittadini che l’etica cattolica ha molto favorito.

(nella foto, mio padre che fa un backup su carta. Dentro il suo universo di discorso, ha ragione)

Orchestrina del Titanic

SWG aveva ottenuto un via libera dall’AGCom per commercializzare una app riguardo i sondaggi pre-elettorali, anche durante il silenzio mediatico dei 15 giorni. La vende a 9.90€, è tra le più scaricate, quindi parliamo di migliaia o decine di migliaia di persone. Poi la marcia indietro, perché dice AGCom (e qui mi vien da ridere) “l’applicazione, nei termini in cui viene pubblicizzata, rende accessibile – previo il pagamento di un prezzo contenuto – il risultato dei sondaggi ad un pubblico potenzialmente molto vasto, con inevitabili effetti di diffusione incontrollata dell’informazione”. 
Poi ci sono anche altri che offrono lo stesso servizio, a quanto pare al riparo per il fatto di vendere l’app a pochi (seh), come scenaripolitici.com.
Come dire: finché lo venite a sapere voi che siete quattro gatti in un baretto, ok.
Ma quando mi accorgo che siete tanti, blocco tutto. Ah, AGCom, che cornice novecentesca quella dentro cui pensi e emetti sentenze. Quanto non capisci.
Se uno di quelli che compreranno il servizio, da SWG o da altri, mette in giro le informazioni sulle preferenze di voto (rete TOR, modi anonimi, passaparola, o anche smaccatamente) crolla tutto il palco. Cosa vuoi tener nascosto, un segreto di Pulcinella? Siamo in Rete, non siamo mica dentro un sistema dove se fai saltare un traliccio oscuri tutta una regione geografica. Sveglia. Quella legge non sta in piedi. Se si possono fare i sondaggi, si possono pubblicare.
E anche un altro esempio mi viene in mente, per mostrare quanto abitiamo in luoghi nuovi.
Una foto che vedo in internet, su facebook, dove si dice di mettere il proprio IBAN sulla scheda elettorale, se si vuole essere rimborsati dell’IMU. Ovviamente così facendo la si rende nulla. Cos’è questa, una campagna di disinformazione? Perseguibile? Se ho 5000 amici su FB, cos’è questo, un mass-media e quindi mi blocchi l’account? Questo blog?
Non regge. Niente, regge. Verrà giù tutto.

La scuola vista da Londra, Marte.

Mi capita, non abbastanza spesso, di prendere un aereo per andare a vedere come altri cercano di rispondere alle domande che mi faccio, più o meno quotidianamente. In questo caso la domanda è: “di che tipo di scuola hanno bisogno le mie bimbe?”.
Ho scelto il BETT a Londra, formerly known as the British Educational Training and Technology Show, ovvero una fiera sulla tecnologia nell’education inaugurata nel 1985 (millenovecentoottantacinque): un posto strano, dove ci sono migliaia di scuole che acquistano (ACQUISTANO) tecnologia, dove i responsabili scolastici dei VLE (Virtual learning Environment) cercano nuove soluzioni, dove le Università si confrontano attivamente sui MOOCS.
Si, lo so, il paragrafo precedente non è semplice per un lettore italiano: sarà che noi siamo abituati alle note scritte a mano sul diario, alle bacheche, al flauto, al laboratorio di informatica (per i più fortunati) dove si impara a schiacciare una tastiera. Sarà che da noi gli strumenti sono salvifici, e basta installare una LIM (la lavagna digitale) per sentirsi proiettati nel futuro; sarà che troppi dirigenti pubblici ancora pensano che comprare un po’ di tablet conferisca un titolo di modernità.
Un rappresentante del Governo inglese, certo non giovane ma straordinariamente competente, ha detto con chiarezza che l’education è la priorità: e ha detto che occorre formare gli insegnanti per avvicinarli anche ad un mondo del lavoro dove già si usano nuove tecnologie e nuovi modelli. Poi è arrivato un giovane, straordinariamente competente, che si occupa di valutare l’adozione di nuove tecnologie in tutti i settori pubblici del Regno Unito, ed ha intrattenuto la platea sui modelli che rendono più efficienti le attività di apprendimento.
Sia chiaro, non è la tecnocrazia ad affascinarmi: una buona scuola è fatta di bravi maestri, appassionati, dedicati ai loro studenti. Però, spesso, la passione è direttamente proporzionale all’attenzione che uno riceve, agli strumenti che vengono messi a disposizione, al riconoscimento sociale. Ecco, al BETT tutto è dedicato all’insegnante, metà dell’audience era fatta da insegnanti venuti per confrontarsi, imparare, chiedere; e non in una triste aula magna con un burocrate ministeriale, ma in un confronto con grandi innovatori, studiosi, professori.
Io non avevo mai visto una responsabile ICT di una scuola, peraltro donna e poco più che trentenne: una che ci ha spiegato come tutte le attività suBlackboard inaugurate una decina di anni fa siano oggetto di una profonda revisione, che segue una metodologia oramai consolidata di confronto con il corpo docente, gli studenti e le novità sul mercato. Per inciso ha detto, sorridendo, che la sua maternità ha determinato un aumento del lavoro per tutti i colleghi, determinati a partire quanto prima con strumenti più efficienti.
Poi ho incontrato anche qualche rockstar, come Daphne Koller di Coursera, una professoressa di Stanford che ha portato a frequentare corsi universitari online 2,5 milioni di studenti da 123 paesi del mondo. Ecco, Daphne ha affrontato, molto bene perché è tostissima, un vivace contraddittorio con insegnanti, professori, digital manager di università, maestri-blogger: gente preparata, consapevole, contemporanea.
Ecco, quello che mi colpisce è la normalità, la consuetudine con queste materie: il BETT è parte di un sistema, non è un folkloristico raduno di visionari ma un passaggio obbligato per l’attività di migliaia di formatori. L’industria inglese dell’education è florida, le scuole investono, il dibattito pubblico è continuo: con tutte le posizioni, contraddizioni e difficoltà che il tema comporta, la tecnologia non risolve ma, se ben usata, aiuta.
La normalità: è normale per dirigenti pubblici venire qui, per le scuole adottare sistemi gestionali moderni, per i bambini usare le tecnologie che li circondano. E ne ho visti molti di bambini, ovviamente quelli delle scuole più capaci e più attente: venivano a ritirare dei premi, tutti felici per aver creato la migliore applicazione, un software utile alla comunità. Un po’ di demagogia, un po’ di competizione tra scuole, ma tutto mi sembrava comunque stupendo, ubriacante; lo so, poi riflettiamo anche sul modello sociale, sulle scuole elitarie, sulle sperequazioni etc. etc. Ma davvero possiamo continuare a non fare nulla, procrastinare, prendere tempo? Non dovremmo, forse, prendere il (tanto) buono che c’è altrove e trovare un senso nostro, riflettendo sui rischi di confondere “educazione” e “conoscenza”, sui rischi di omologazione dell’insegnamento, sulle troppe spinte alla creazione di fabbriche in batteria di iperspecialisti per le aziende?
Non ho risposto alla mia domanda, ma ho qualche idea in più: io vorrei per le mie figlie insegnanti appassionati, consapevoli del mondo che sarà e capaci di prepararle alle novità. Vorrei che insegnassero loro il meglio del passato con modalità e strumenti contemporanei, e vorrei che una delle mie figlie mi dicesse, sognante, “io da grande voglio fare la maestra, come mia nonna”.
Perché mia madre è stata una straordinaria maestra, che a tre anni dalla pensione, una decina di anni fa, mi chiese di comprarle un computer e di spiegarle qualcosa: “posso non capire quello che fanno a casa i miei studenti?” Sarebbe venuta volentieri con me tra gli stand del BETT, a farsi fermare ogni dieci metri da venditori di software che, speranzosi, chiedono “Tu fai il maestro, vero?”.

Wifi comunitario, libero

Alla base c’è una legge italiana, il Decreto legislativo n. 70 del maggio 2012, riguardo il codice delle comunicazioni elettroniche in attuazione delle direttive europee.
La questione è quella del wifi libero in Italia, che dopo l anon-proroga della Pisanu ha ritrovato un po’ di vita, anche se le autenticazioni avvengono sempre nei locali pubblici tramite invio di password su cellulare, il quale cellulare in Italia è attivato con una SIM individuale e registrata (altrove no), e quindi siamo sempre nella tracciabilità.
Ma ora si possono fare collegamenti tra privati su determinate onde radio, e quest non prevedono autorizzazioni, e sono libere.
Metto dei link
Così come in tutto il resto dell’Europa, i collegamenti radio tra privati sulle frequenze collettive (2.4 GHz, 5 GHz, 17 GHz) sono stati liberalizzati dal nuovo codice delle comunicazioni elettroniche entrato in vigore a giugno 2012, così come recita il sito dell’ispettorato delle comunicazioni della Liguria:

“Uso privato: non è prevista alcuna autorizzazione. Le apparecchiature sono comprese in quelle previste di libero uso ai sensi dell’art. 105, comma 1, lettera b del D.Lgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), così come modificato dall’art. 70 del D.Lgs. 70/2012.”

Più specificamente, il Decreto Legislativo 28 maggio 2012, n. 70 ha modificato il D.Lgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), a seguito del recepimento delle direttive europee 2009/140/CE e 2009/136/CE. A partire dall’entrata in vigore del Decreto (1 giugno 2012), non sono più soggette ad autorizzazione le reti RadioLAN-HiperLAN (wi-fi) ad uso privato, anche nel caso transitino al di fuori del proprio fondo.
Anche condividere la propria connessione WI-FI liberamente non è più illegale da quando il decreto Pisanu, che imponeva pesanti restrizioni e condizioni all’accesso ad internet, non è stato prorogato.

Open Source in Regione FVG, sito morto

Sono anni che parliamo di utilizzo di software opensource nelle pubbliche amministrazioni, ci sono anche le leggi nuovissime e meravigliose che ne stabiliscono la precedenza nell’adozione rispetto a soluzioni commerciali.
La Regione Friuli (trattino) Venezia Giulia ha promosso nel 2009 la realizzazione di CROSS, un portale

“attivato nell’ottica delle nuove strategie di innovazione programmate con il Piano strategico della Regione FVG.
Il progetto, presentato dalla Direzione centrale organizzazione, personale e sistemi informativi e coordinato dal servizio eGovernment, come azione di innovazione tecnologica ICT, intende creare un Centro Regionale per l’Open Source Software (CROSS) con l’intento di favorire la diffusione del Software Open Source nelle PA e nelle imprese presenti sul territorio regionale. “

e tenete presente che questo copiaincolla dal sito non avrei nemmeno potuto farlo, perché a pie’ di pagina c’è scritto “Copyright ® 2009 Regione FVG”. Che ridere.

Ma il problema è questo: perché questo sito è morto? Ha pubblicato una cosetta come fotografia del territorio rispetto alle soluzioni informatiche adottate (con errata corrige), ha segnalato un’altra cosetta in un convegno, ha fatto un po’ da vetrina domanda-offerta. Proprio adesso che sarebbe utilissimo, e servirebbe un regìa regionale per l’attuazione dell’Agenda digitale declinata contestualmente su necessità e peculiarità regionali.

Cambiamento

Un articolo di Carlo Mochi Sismondi su ForumPA.

Che questo sia un anno di discontinuità non c’è bisogno di dirlo: cambierà il Governo, molti Governi regionali e locali, il Presidente della Repubblica, si darà finalmente inizio (speriamo) alle attività dell’Agenzia per l’Italia digitale per recuperare l’enorme divario che abbiamo accumulato rispetto agli altri Paesi avanzati, ci dicono persino che finirà la crisi!
Mi sto preparando a questi cambiamenti leggendo con attenzione non Nostradamus, ma i programmi elettorali delle forze politiche che, chi più chi meno, concordano tutte sulla necessità di innescare una ripresa basata sulla crescita e sull’innovazione.
Eppure ho la netta impressione che in queste analisi e in questi programmi la realtà sia uscita dalla porta di dietro e che non stiamo cogliendo il punto. Mi pare quindi che abbiamo bisogno di un terzo occhio e di un nuovo paradigma. Questa volta permettetemi quindi un approccio meno contingente, proponendo un necessario spiazzamento e candidando FORUM PA a raccontare questo punto di vista.
Non sto parlando certo di un occhio mistico, ma un terzo occhio è necessario perché tutto quel che potrà costruire il futuro mi sembra sia fuori dal perimetro in cui gli occhi della politica (e anche dei tecnocrati) sembrano cercarlo.
Provo a fare qualche esempio richiamando alla mente in estrema sintesi cose già dette e proponendone qualcuna nuova:
  1. La PA non può riformare se stessa: la riforma della PA non è dentro il sistema, ma riguarda la sua capacità di governare con la rete: ne consegue che pretendere che l’apparato si riformi da solo, magari con qualche iniezione di nuovo e illuminato diritto amministrativo, è una fatica di Sisifo, come la storia delle riforme legiferate e abortite ha sin qui ampiamente dimostrato. Ne consegue che da una parte dobbiamo seriamente ripensare ai perimetri dell’azione pubblica, dall’altra dobbiamo inserire nuove competenze, ma soprattutto nuovi modi di pensare dall’esterno. La necessaria trasformazione della PA da apparato autoreferenziale a strumento di attuazione delle politiche e di risposta ai bisogni è impossibile restando all’interno della PA.
    Ne consegue che la ministerializzazione della dirigenza pubblica, specie quella apicale, sarebbe la iattura peggiore: quel che ci serve non è una nuova classe di burocrati modello ENA francese (per altro se ne sono accorti anche i cugini d’oltralpe), ma manager flessibili e innovativi, specializzati nella difficile arte del coaching e della negoziazione, che sappiano far lavorare assieme pubblico, privato, privato sociale, terzo settore e cittadinanza organizzata e che siano misurati sui risultati oggettivi non tanto del loro lavoro come singoli (output) ma delle loro organizzazioni (outcome).
  2. L’innovazione non nasce dove la stiamo cercando: ossia non nasce, armata come Atena dalla testa di Zeus, nelle Università e negli istituti, ma nasce da un disobbedire, da un “uscir fuori” che è sintesi hegeliana tra una tesi data dai risultati della ricerca e dall’impegno della migliore tecnocrazia e un’antitesi data dalla tenace volontà dei prosumer (ossia i consumatori che nell’economia 2.0 sono anche produttori di servizi) di usare le innovazioni come gli pare per raggiungere i loro propri obiettivi. In parole povere l’innovazione diventa cambiamento sociale e quindi nuove opportunità di vita solo quando incontra la creatività di chi la usa. Solo così riesce a sviluppare le sue potenzialità rivoluzionarie.
    Ne consegue che l’innovazione, come la conoscenza, è tale solo se diffusa e disponibile: la cosiddetta “free knowledge society” non è roba da fricchettoni, ma l’ecosistema dello sviluppo sostenibile.
    Nel campo dell’innovazione della PA questo vuol dire sviluppare ogni occasione di vera Partnership-Pubblico-Privato che abbatta il muro tra domanda e offerta e promuova un lavoro collaborativo di co-progettazione.
  3. Le città e le comunità intelligenti non si identificano con le loro istituzioni: se possiamo immaginare smart city, non ha senso immaginarle chiuse nei loro Municipi.
    Come giustamente fa notare Mauro Bonaretti “La città è un insieme ben più ricco e articolato del Comune inteso come singola organizzazione pubblica. Comprende i cittadini, le imprese, il terzo settore, le associazioni di rappresentanza, gli intermediari finanziari, le public utilities, le fondazioni bancarie, le altre istituzioni pubbliche e private. Limitare il dialogo tra l’offerta di tecnologie e il Comune è restringere a un perimetro troppo ristretto la rete degli interessi in gioco. E’ pur vero che sempre più ai Comuni è richiesto un ruolo di governance (regista e catalizzatore delle politiche pubbliche), di tessitore principale di una rete diffusa di attori protagonisti per il successo di obiettivi condivisi. Ma è pur altrettanto vero che progetti così ambiziosi come quello di infrastrutturare la città di sistemi permanentemente interconnessi, interattivi e di interesse generale, non possono vedere coinvolta la sola responsabilità dell’attore pubblico.”
    Ne consegue che i progetti per le smart community non si vincono “dentro” l’amministrazione della città, ma in un più ampio spazio di co-progettazione con tutti i portatori di interesse.
  4. La crisi dell’informatica non si risolve dentro l’informatica: se i mercati dell’hardware e del software decrescono irrimediabilmente, con altrettanta certezza sono in crescita tumultuosa i mercati dei servizi digitali a valore aggiunto, della gestione dei cosiddetti big data, dei contenuti digitali, ecc.
    Ne consegue che se vogliamo sostenere la nostra ICT non dobbiamo chiedere alla PA di comprare più informatica, ma di creare le condizioni favorevoli per lo sviluppo di imprenditoria innovativa (non solo start-up).
  5. La crisi della politica non si risolve dentro la politica, né tantomeno dentro la sua caricatura controdipendente che è l’antipolitica. Come la cronaca di questi giorni dimostra è estremamente difficile che la politica sia in grado di autoemendarsi. Quel che la farà cambiare sarà una robusta inserzione di vera trasparenza che abiliti il controllo sociale e l’empowerment dei cittadini. Solo abbattendo l’asimmetria informativa di creano infatti le condizioni per la cittadinanza attiva che, come la nostra Costituzione impone, deve essere favorita da tutte le articolazioni della Repubblica.
Potremmo continuare l’esercizio all’infinito: la crisi della sanità, stretta tra meno soldi e più bisogni, non si risolve dentro la sanità, ma sulle nostre tavole, nei nostri stili di vita, nelle nostre palestre…; la crisi della sicurezza non si risolve dentro le forze dell’ordine, ma con la sicurezza partecipata…. ma mi fermo perché credo che il concetto sia chiaro.
E allora? Allora purtroppo non possiamo che constatare che la realtà è molto più complessa delle facili formulette in cui cerchiamo di ingabbiarla. Ma per fortuna anche molto più ricca.
L’immediata conseguenza di questo approccio è che se non possiamo trovare le cose “dentro”, dobbiamo cercarle “fuori”. Ma per uscire fuori dobbiamo aprire le porte, fare entrare aria nuova, accettare la contaminazione, accettare di considerare la trasparenza, la collaborazione, il co-design, la partecipazione non come attributi, ma come sostanza costituente del nostro operare. Qui forse sta l’essenza del cambiamento necessario: aprire la porta alla ricchezza delle relazioni, dare spazio alla partecipazione civile, trasformare la guerra in “competizione cooperativa”. Ci vengono qui in aiuto i concetti e le definizioni di “sussidiarietà orizzontale”, di “economia civile”, di “big society”, di “economia della felicità” , di “gratuità ed economia del dono”, di “innovazione sociale”.
Forse qui sta la novità che cercavamo: l’Italia ha su questa attenzione ai beni relazionali e alle reti di collaborazione una tradizione antica. Sarà ora di darle una spolverata, di dotarla delle tecnologie abilitanti che ora possiamo permetterci e di riprenderla come stella polare di un nuovo e meno effimero sviluppo.

Trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni

Roberto Scano per IWA sintetizza il decreto del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 2013, su obbligo trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni
Il Consiglio dei Ministri n. 66 del 22/01/2012 ha approvato, su proposta del Ministro della pubblica amministrazione e semplificazione, due decreti legislativi che attuano la legge 190 del 2012 (“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”).
Il primo provvedimento riordina tutte le norme che riguardano gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle PA e introduce alcune sanzioni per il mancato rispetto di questi vincoli. Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:
  1. viene istituito l’obbligo di pubblicità: delle situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il secondo grado; degli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche; dei dati, in materia sanitaria, relativi alle nomine dei direttori generali, oltre che agli accreditamenti delle strutture cliniche.
  2. viene data una definizione del principio generale di trasparenza: accessibilità totale delle informazioni che riguardano l’organizzazione e l’attività delle PA, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche. Il provvedimento ha infatti lo scopo di consentire ai cittadini un controllo democratico sull’attività delle amministrazioni e sul rispetto, tra gli altri, dei principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza dell’azione pubblica.
  3. la pubblicazione dei dati e delle informazioni sui siti istituzionali diventa lo snodo centrale per consentire un’effettiva conoscenza dell’azione delle PA e per sollecitare e agevolare la partecipazione dei cittadini. Per pubblicazione si intende la diffusione sui siti istituzionali di dati e documenti pubblici e la diretta accessibilità alle informazioni che contengono da parte degli utenti.
  4. si stabilisce il principio della totale accessibilità delle informazioni. Il modello di ispirazione è quello del Freedom of Information Act statunitense, che garantisce l’accessibilità di chiunque lo richieda a qualsiasi documento o dato in possesso delle PA, salvo i casi in cui la legge lo esclude espressamente (es. per motivi di sicurezza).
  5. si prevede che il principio della massima pubblicità dei dati rispetti le esigenze di segretezza e tutela della privacy. Il provvedimento stabilisce che i dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari possono essere diffusi attraverso i siti istituzionali e possono essere trattati in modo da consentirne l’indicizzazione e la tracciabilità con i motori di ricerca. È previsto l’obbligo di pubblicazione dei dati sull’assunzione di incarichi pubblici e si individuano le aree in cui, per ragioni di tutela della riservatezza, non è possibile accedere alle informazioni.
  6. viene introdotto un nuovo istituto: il diritto di accesso civico. Questa nuova forma di accesso mira ad alimentare il rapporto di fiducia tra cittadini e PA e a promuovere il principio di legalità (e prevenzione della corruzione). In sostanza, tutti i cittadini hanno diritto di chiedere e ottenere che le PA pubblichino atti, documenti e informazioni che detengono e che, per qualsiasi motivo, non hanno ancora divulgato.
  7. si disciplina la qualità delle informazioni diffuse dalle PA attraverso i siti istituzionali. Tutti i dati formati o trattati da una PA devono essere integri, e cioè pubblicati in modalità tali da garantire che il documento venga conservato senza manipolazioni o contraffazioni; devono inoltre essere aggiornati e completi, di semplice consultazione, devono indicare la provenienza ed essere riutilizzabili (senza limiti di copyright o brevetto).
  8. si stabilisce la durata dell’obbligo di pubblicazione: 5 anni che decorrono dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui decorre l’obbligo di pubblicazione e comunque fino a che gli atti abbiano prodotto i loro effetti (fatti salvi i casi in cui la legge dispone diversamente).
  9. si prevede l’obbligo per i siti istituzionali di creare un’apposita sezione – “Amministrazione trasparente” – nella quale inserire tutto quello che stabilisce il provvedimento.
  10. viene disciplinato il Piano triennale per la trasparenza e l’integrità – che è parte integrante del Piano di prevenzione della corruzione – e che deve indicare le modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della performance.
  11. Altre disposizioni riguardano la pubblicazione dei curricula, degli stipendi, degli incarichi e di tutti gli altri dati relativi al personale dirigenziale e la pubblicazione dei bandi di concorso adottati per il reclutamento, a qualsiasi titolo, del personale presso le PA.

Italia connessa – Agende digitali regionali

Italia indietro sui servizi digitali. Questa volta ad analizzare lo stato di attuazione dell’agenda digitale europea, è una ricerca di Telecom Italia “Italia connessa – Agenda digitali regionali” presentata oggi a Bologna con la regione Emilia Romagna.
Il rapporto, secondo anticipazioni stampa, rende evidenti le forti differenze persistenti tra le diverse regioni in quanto ad innovazione tecnologica e sviluppo digitale, sottolineando il ritardo particolarmente forte per quanto riguarda lo sviluppo dei servizi digitale. L’analisi di fondo prevede il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati a livello europeo e nazionale a meno che le Regioni non accelerino e rinnovino i loro piani digitali.
Lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi fissati è in ritardo, ma sarebbe possibile ancora tenere fede agli impegni. La UE ha stabilito che tutti i cittadini dovranno avere accesso a reti a banda larga (almeno 1 megabit al secondo) entro fine anno, ma al momento il 10% delle abitazioni italiane non è ancora stato raggiunto. Il rapporto di Telecom ritiene, però, l’obiettivo UE raggiungibile entro l’anno a patto di agire in fretta. La situazione italiana è, al contrario, più grave a livello infrastrutturale per quanto riguarda la banda ultralarga (11% di copertura), ma c’è ancora un po’ di tempo per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione (entro il 2020, 100% di copertura con connessioni a 30 megabit e 50% a 100 megabit).
Gli obiettivi più difficilmente raggiungibili, secondo il rapporto, riguardano, però: utilizzo delle reti e servizi digitali. Il 75% dei cittadini dovrebbero utilizzare regolarmente la rete Internet entro il 2015, stando agli obiettivi europei, ma ad oggi lo fa soltanto il 47% degli italiani. Situazione ancora peggiore per l’e-commerce (terzultimi in Europa) utilizzato per gli acquisti dal 15% degli italiani contro un obiettivo fissato nel 50% entro tre anni. E altrettanto lontano appare l’obiettivo per le aziende (33% entro il 2015). Soltanto l’11% delle piccole e medie imprese acquista tramite rete e addirittura solo il 4% vende attraverso il canale digitale. Se i servizi digitali commerciali non decollano, non lo fa, però, neanche l’amministrazione digitale (penultimi in Europa, circa il 22% dei cittadini ha utilizzato servizi di e-government).
Il rapporto, come si accennava, si concentra particolarmente sull’apporto delle regioni all’Agenda Digitale, riscontrando forti differenze tra i vari enti territoriali. I ritardi sono forti e mentre alcune regioni hanno varato piani, esplicitamente riferiti all’Agenda Digitale Italiana o più genericamente allo sviluppo dell’ICT, altre ci stanno ancora lavorando. L’implementazione di molte delle novità introdotte per l’amministrazione digitale è, inoltre, scarsa e fortemente disomogenea. A questo vanno ad aggiungersi ritardi forti, rispetto alla media nazionale, di alcune regioni riguardo all’utilizzo delle rete e dei servizi digitali, che danno il quadro di un forte digital divide territoriale. La maglia nera per l’utilizzo di Internet va alla Puglia (57% non usa regolarmente), mentre quella per il più ridotto utilizzo di servizi di e-commerce alla Campania (6%).
Ritardi gravi, quindi, che possono essere colmati soltanto con forti interventi a livello sia nazionale, che regionale. Interventi che potrebbero, però, non arrivare in tempo visto che come sottolinea Franco Bernabè, amministratore, delegato di Telecom Italia, il tema dell’Agenda Digitale è sostanzialmente assente dal dibattito politico-elettore. “Non mi sento di rimproverare nessuno . Siamo ancora nel pieno di un’emergenza che, dopo il salvataggio del sistema finanziario, adesso impone la ripartenza dell’economia. E’ questa la vera priorità, del resto solo restituendo respiro alle imprese si potrà riattivare un ciclo di investimenti ad ampio raggio, incluso ovviamente l’Ict”. Il manager non riterrebbe una cattiva idea quella di un ministero dedicato alla tematica. “Spetterà al nuovo Governo stabilire le priorità, ma parlare di un nuovo Ministero delle Comunicazioni e dell’Agenda digitale o comunque di un Ministero dell’Industria con una forte delega avrebbe senso. In altre parole, assegnare una responsabilità politica per i grandi fattori di competitività dell’economia italiana, l’economia digitale al pari di infrastrutture ed energia, sarebbe un grande passo avanti”.
Bernabè ritiene più di tutto prioritari, però, l’approvazione dei provvedimenti attuativi del decreto crescita 2.0 messo e il coinvolgimento degli enti territoriali, vanno “mobilitate le Regioni, le Province, i Comuni”.
Gerardo Di Meo

Rasol (sì, ruzzle)


C’è questo gioco che si chiama Ruzzle, e ci sto giocando anch’io sul tabletto.
Ne parlo perché è un esempio di spread, più che altro. Ha trovato una decina di milioni di account in qualche giorno, e il tutto può essere fatto partire da dicembre, al massimo.
E trovo su un sito una notizia simpatica: facendo in qualche modo reverse dei flussi di propagazione, il creatore ha scoperto che il tutto è partito da una cittadina americana, e poi via per il mondo.
E a me vine in mente uno di quegli stagni dove ci sono le bollicine che emergono, e seguendo a ritroso le onde sull’acqua scopriamo l’origine.
E’ come un tag RFID, che però si porta dietro il progetto e la storia del fenomeno culturale, del meme. Tracciare tutto, scoprire cosa pensiamo e cosa facciamo.


Grazie a Google Analytics, Skagerwall ha poi scoperto che la febbre di Ruzzle ha cominciato a diffondersi dalla città di Collins, in Lousiana (Usa), l’8 dicembre scorso. “Possiamo solo ipotizzare che un gruppo di adolescenti abbiano iniziato a sfidarsi condividendo il gioco coi loro amici“.