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Open Education

Segnalo, invitando alla sottoscrizione, la pregevole Dichiarazione di Cape Town per l’Educazione Aperta. Un altro passo fondamentale per la futura Società della Conoscenza.

Dichiarazione di Città del Capo sulla Istruzione Aperta:
sbloccare la prospettiva di risorse educative aperte

Siamo all’apice di una rivoluzione globale nell’insegnamento e nell’apprendimento. Educatori di tutto il mondo stanno sviluppando un ampio bacino di risorse educative su Internet, aperte e gratuite per tutti. Questi educatori stanno creando un mondo in cui ogni persona sulla Terra possa accedere e contribuire alla somma delle conoscenze dell’umanità. Inoltre stanno piantando i semi di una nuova pedagogia, in cui insegnanti e studenti insieme creino, diano forma e sviluppino la conoscenza, approfondendo le loro capacità e la loro comprensione mentre operano.

La leggibilità del mondo

Minicity, Citycreator, Zanpo, ma anche Popomundo e altre cose più tematiche/specifiche tipo MetaPlace. Quest’ultimo ad esempio serve per arredare il proprio appartamento in 3D sul proprio dominio usando tool collaborativi online (non solo disegnarlo come ho fatto io con 3Dxplorer su jannis.it) e fondamentalmente costruire un MMORPG tutti insieme.

Abbiamo una visione: fare in modo che tu possa costruire quasiasi cosa, e giocare a qualsiasi cosa, da ovunque.

Noto quindi come le città online siano in aumento, oppure ne siano ultimamente nate alcune forse più rapidamente usabili, e qualche buon meme ha sollecitato la curiosità di molti. Da diversi canali amici e conoscenti e sconosciuti mi dicono di cliccare e di fare un giretto e di giocare a “facciamo casetta” oppure “giochiamo al Sindaco”.

In molte di queste nuove webcittà ora l’interazione con i residenti avviene senza previa registrazione: quindi non solo i cittadini (coloro che iscrivendosi al socialweb in questione hanno manifestato una volontà di partecipazione, talvolta con impegno economico) ma anche i turisti semplicemente cliccando di qui e di là su vari oggetti contribuiscono all’allestimento dell’insediamento abitativo.
Quindi forse sta scemando questa necessità di doversi iscrivere (anche OpenID aiuterà, certo) a millemila community per ogni minima interazione sociale. Ci son cose (scelta d’interazione, stile, modelli) che ci connotano e ci narrano, e queste cose le facciamo sia come turisti sia come cittadini. La presenza lascia tracce.
Quindi potrebbero nascere delle città online per così dire “turistiche”, urbanisticamente e interattivamente disegnate per essere divertenti, e quindi altamente cliccabili, ma in modo esplicito per persone di passaggio. Pensare a chi non risiede significa in particolare tenere in considerazione i flussi, quindi porre attenzione alle stazioni e ai teleport, alla segnaletica stradale, ai luoghi sociali di scambio estemporaneo, agli eventi culturali online, ai questionari rapidi e anonimi.

Credo fermamente che il cervello di molti disegnatori di interfacce in questo momento sia in ebollizione. Per ogni metafora che prende vita digitale si aprono mondi abitabili prima impensabili.

Interessante anche l’evoluzione che stanno avendo i meta-aggregatori di GReader e altri (ne ho parlato qui): stanno nascendo luoghi web come ReadBurner oppure SharedReader dove senza alcuna registrazione voi fornite – se volete – il feed della pagina pubblica del vostro GReader per contribuire a far emergere folksonomicamente le notizie più condivise sul pianeta; nel contempo, potete ovviamente abbonarvi al feed del socialweb scelto, e ricevere nel vostro Reader le dieci cose più condivise oggi da migliaia di persone.
E nessuno ha detto che fossero cose importanti. Ma guarda caso emergono come cose importanti, se milioni di persone hanno ritenuto il contenuto meritevole di “passaparola”.

Una mossa educativa a questo punto dovrebbe concentrarsi sulla pratica di item-sharing, da intendere come la mossa minima del nostro essere al mondo, agendo almeno come (soggetti semiotici) inoltratori di informazioni e opinioni altrui, a nostro parere meritevoli di segnalazione; mostrare alle giovani generazioni come anche un semplice atto come cliccare un bottone dentro Google Reader diventa – come ogni tag che mettiamo, se inteso sistemicamente – un atto di scelta e responsabilità rispetto alla costruzione collaborativa di una narrazione polivocale degli eventi e degli accadimenti planetarii, che poi il web trasformerà in Storia dell’Umanità.

Esageriamo. Qui sappiamo che quello che sta cambiando è proprio il modo in cui stiamo scrivendo la Storia (o per lo meno le rappresentazioni mediatiche caratterizzate da produzione e distribuzione partecipate degli eventi storici).
Ed è ancora vero che la Storia la scrivono i vincitori? Ma i vincitori non possiederanno i luoghi dell’editoria; qui su Mondo 2.0 esistono storie, non Storia in senso 1.0.
Mi viene da pensare che in uno scontro di civiltà, di pianeti o etnie più che scrivere il testo ufficiale degli eventi, sarà più importante cancellare la memoria storica della collettività conquistata, inseguendo fino nei server più scassati ogni singola traccia mnestica elettronica, manifestazione di quella identità collettiva, un po’ come una volta (?) si distruggevano i templi altrui.

Tornando a noi, non lamentatevi di avere trecento feed da leggere se poi siete famosi per segnalare fuffa. In ogni caso, il meccanismo complessivo dovrebbe essere a prova di fuffa (sarà vero? o si tratta pur sempre di codici enunciativi e segni menzogneri e manipolabili con finalità marchettare?), tant’è che continuo ad avere fiducia nel fatto che la qualità emergerà dal giudizio di migliaia di persone (ad esempio, quel post meraviglioso su un blog che mi era sfuggito), se quelle persone riterranno l’item degno di condivisione. Atto (comunicativo) degno di menzione, reintrodotto nel circuito come un feedback carico di vissuto umano con cui migliorare il sistema stesso.

In fondo, vi è del numinoso in ogni relazione autentica con l’Altro, si sarebbe detto una volta.

 

Google Image Labeler – taggate, taggate

Il tag rivoluzionerà il mondo.
Il social tagging stravolgerà il modo stesso in cui pensiamo lo scibile, modificherà le nostre abitudini nell’andare alla ricerca di informazioni, condizionerà le gerarchie dei risultati delle ricerche: la pratica socialmente diffusa dell’etichettamento dei contenuti permetterà al contempo di superare alcune contraddizioni interne ai sistemi di catalogazione ad albero e di far emergere interessanti dimensioni “antropologiche” legate allo stile cognitivo e affettivo che guida ciascuno di noi, imbevuto della propria cultura, ad attribuire certi tag piuttosto che altri allo stesso oggetto culturale, etc.
Detto questo, passiamo al gioco vero e proprio.

Lo trovate qui, si chiama Google Image Labeler. Appena gli date l’ok (usate un nickname), il servizio web vi trova istantaneamente un compagno di giochi ovunque sul pianeta, e vi sottopone delle immagini prese dal web che dovrete taggare più velocemente che potete (avete due minuti), in maniera coerente con il contenuto della foto.

Quando voi e il vostro remoto compagno di gioco azzeccherete la stessa tag-parola, guadagnerete dei punti e andrete in classifica.

In pratica, Google ci utilizza aggratis come manovalanza per taggare le immagini e migliorare i risultati del suo motore di ricerca, però è divertente e interessante.

E se qualche insegnante di inglese delle medie mi sta leggendo, sappia che il Labeler di Google Image potrebbe essere una ottima risorsa didattica online per spingere i ragazzini (motivati già per il fatto di “andare in internet”, motivati dalla finta dimensione agonistica – in realtà è un gioco collaborativo win-win, e motivati dal fatto di poter svolgere l’azione in piccolo gruppo) a tenere in costante allenamento il proprio vocabolario in english, nella rapida ricerca di quelle tag che maggiormente corrispondano ai contenuti proposti.

http://images.google.com/imagelabeler/

 

De Vespa

Se pensate che stia per raccontarvi della Vespa intesa come mia amante che al momento riposa in garage, vi sbagliate; però se proprio volete ecco qui la roadmap dell’ultimo giretto, assaporato in slow-drive una ventina di giorni fa insieme al mio avvocato/batterista su Primavera ET3 dell’80 e al mio psicologo/chitarrista su Vespa moderna.

Quello che volevo dire in realtà riguarda BrunoVespa®, e alcune modalità interpretative del testo.
Cioè, quando dico testo, immaginatevi tutto quello che riuscite a pensare quando di colpo sentite o leggete la locuzione “BrunoVespa”.
Anzi, per fare le cose precisine, dovreste scrivere l’elenco di tutte le occorrenze della locuzione “Bruno Vespa”, sia come soggetto, sia come predicato; quindi provate a pensare l’insieme di tutte le frasi del tipo “BrunoVespa è/fa x”  e tutte le frasi composte secondo lo schema “x è/fa BrunoVespa”. Vabbè. Insomma tutto il pensabile vespiano (e non vespistico, badaben).

Ecco, ora mi vien da pensare che tutti i grandi libri dell’antichità ci sono arrivati grazie alle manine sante degli amanuensi nei monasteri medievali, i quali studiando i testi trovavano comodo prendere appunti proprio a margine del testo, anzi spesso ricopiavano anche i commenti che incontravano, e quindi tutto questa produzione testuale ad un certo punto è esplosa e i Commentari sono diventati un vero e proprio genere letterario a sé stante.
Fondamentalmente, l’interpretazione e la comprensione dei testi classici originali per quelli del 1042 avveniva sempre dentro quella nuvola di significati (l’insieme dei percorsi interpretativi possibili) formata congiuntamente dal testo e dai suoi commentari, e solamente la passione umanistica/filologica del Rinascimento italiano, trecento anni dopo, avrebbe pazientemente provato a districare il ginepraio di questi testi multipli e stratificati.

Quindi, siccome grossomodo tutti avete presente il testo-Vespa, provate a seguire Tamas e Bucknasy mentre commentano la diretta televisiva chattando.
E’ meraviglioso.

E’ giunta l’ora

ehIn fondo qui sul semioblog posso fare quello che voglio, sono contro le rigide demarcazioni tra luoghi per scrivere quick&dirty e i luoghi più macigni, che poi son pur sempre fluidi.

Spunto narrativo per romanzetto educativo
“Mamma, vado a fare un giro” disse mio figlio accendendo il computer. Ma dove andava, ogni giorno? Cosa faceva, con chi parlava? Decisi di indagare.

(di seguito, incollare una bozzaprogetto da proporre alle scuole, dove sia finalmente possibile intitolare un corso di formazione per insegnanti all’Educazione Civica 2.0, all’analisi antroposocio sui comportamenti degli Umana negli ambienti digitali, ai linguaggi alla partecipazione al’Abitare online, ai risvolti formativi, alla Media Education, etc.)

La trama continua con la madre che si iscrive a tutte le cose social web esistenti, e poi il figlio quando la famiglia va a fare una gita deve staccarla dal monitor col verricello del SUV.

Linux Day e Cultura TecnoTerritoriale

lnxTra un paio d’ore vado all’UniUD, per cercare di raccontare qualcosa di sensato sulla promozione sociale della Cultura TecnoTerritoriale, in particolare rispetto alle scelte informatiche nelle Pubbliche Amministrazioni scolastiche.
Se incontro il Rettore Furio Honsell, vi prometto che lo saluto con un “Magnifico Buongiorno”.

Comunque, qui trovate qualche ulteriore informazione, qui trovate il programma del convegno LinuxDay 2007.

E’ tardi

Delle nuove generazioni, digitali selvaggi, non mi preoccupo poi molto: troveran la loro strada, nomineranno innovativamente la realtà, qualcuno poi saprà brillantemente *implementare* brani di cultura pre-web nella cultura digitale, qualcun’altro deciderà lo stile di un’epoca. Credo che le potenzialità dell’intelligenza più raffinata sia distribuita a larghe manciate ad ogni generazione, e tutte le generazioni han detto la loro, a modo loro.

Loro saranno i primi in assoluto, noi gli ultimissimi, in questo Grande Passaggio, a abitare in un Mondo 2.0 planetariamente e digitalmente connesso (pla.di.co.).

Dovrei ricordar loro, a tutti quelli nati dopo la Guerra fredda, che ci sono migliaia di libri e di opere artistiche e culturali che sicuramente valgono la pena di essere lette, anche se sono state realizzate prima di internet o della televisione. Ma le scopriranno sicuramente, scopriranno le idee dei loro buoni e cattivi maestri, anche per nostro tramite, di noi della generazione di passaggio, quelli nati con l’inchiostro e morti coi pixel.
Ed ecco cosa temo: che molti di noi si autorelegheranno alla condizione di gutemberghiani e “industriali” sopravvissuti, incapaci di essere propositivi e attivi nella staffetta attuale tra industrialismo e attuale glocalismo biodigitale.
Perdere il senso del territorio: non saper gestire le nuove Appartenenze che comprendano anche la telepresenza e tutta la socialità in Rete.

Parole, parole, parole

Uff, è un po’ che non scrivo qui. come si suol dire, ho fatto cose, ho visto gente. Ho qualche bozza che aspetta.
Ma oggi nel mio aggregatore, uno dopo l’altro, c’erano questi tre post:

Sofi che mette online una tagcloud del discorso di Veltroni, Freddy Nietzsche che pubblica le frasi che più gli sono piaciute del discorso di Veltroni (WV ovvero VW ovvero Volkswagen), e questo articolo di linguistica applicata ai testi digitali di Elena Spezia presso il blog di Dino Buzzetti.

Vorrà dire qualcosa, no? di sincronicità qui si vive e si respira.

Google Reader -Jannis’ shared items

E svegliarsi la mattina

Un paio di mesi fa ho fatto una chiacchierata con studenti di Scienze Politiche a Trieste, già laureati, dentro un bel corso post-universitario dedicato alla progettazione sociale; mio scopo era dar loro dei suggerimenti e nuovi punti di vista sul Territorio e le collettività che lo abitano, mostrando le reti tecnologiche e comunicative secolari e recentissime duepuntozero, affinché la percezione prima e la progettazione sociale poi (il “leggere” e lo “scrivere” il Territorio) potessero essere potenziati dalla conoscenza dei nuovi comportamenti mediatici resi possibili dalle nemmeno-tanto-nuove Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Il momento clou è stato alla fine, quando ho chiesto un feedback dall’aula, provando a far liberamente esprimere i ragazzi (trentenni) sulle motivazioni del loro voler progettare interventi sociali, su quale cambiamento intendessero agire rispetto alle proprie collettività di appartenenza: si alza uno, peraltro sveglio, e forse per gusto di contraddizione mi risponde che secondo lui non è necessario sempre progettare interventi sociali finalizzati al cambiamento. Cioè, il tipo stava sostenendo che talvolta bisogna progettare per mantenere lo status quo. Mah.

Domani invece a Padova parlo per un’oretta alla Scuola di Dottorato di Ricerca in Filosofia, su tematiche attinenti agli ambienti digitali per la ricerca e la divulgazione.
Pensavo di raccontare qualcosa di BarCamp e di Pecha-Kucha e di altre nuove modalità sociali e socializzanti di far convenire delle persone in un luogo stabilito, cercando con il supporto del social web di moltiplicare la circolazione delle idee e l’instaurarsi di nuove reti amicali/professionali. Una parte dell’esposizione la dedicherò sicuramente ai supporti mediatici interattivi, come Twitter, la Twitter-bacheca, gli SMS, i wiki, webtv, chat laterali parallele, tutte cose che abbiam visto fiorire in questi ultimi mesi.
Dopo aver organizzato l’ActionCamp, dopo aver partecipato a CitizenCamp, TrainerCamp, VenetoExpoCamp, mi sono fatto alcune idee su come le buone prassi collaborative online possano efficacemente esondare fuori dagli schermi, per connotare di sé gli incontri reali di noi wetware.

Userò Tumblr per allestire dei supporti informativi ai miei sproloqui, per punteggiare il filo solitamente ingarbugliato del mio discorso: con le presentazioni sono arrivato al punto di saturazione.

Sistema bibliotecario di Ateneo filo3

La velocità del cambiamento: aspettando la rivoluzione

Uso una metafora termodinamica: siamo tutti in un pentolone messo sul fuoco. Tutti e tutto: ogni entità socioculturale, come le banche o gli ospedali o l’idea di rappresentatività democratica o le scuole o l’industria dell’informazione o insomma tutto ciò che è struttura sociale si trova dentro un gran calderone, dove lentamente “si viene cucinando” il destino delle umane genti, che qualche cuoco, provando di tanto in tanto ad assaggiare la pietanza, chiama “progresso”.

Ma quel fuochista che si chiama Tecnologia (ah, Prometeo) ha alzato il potere calorico della fiamma, proprio come quando si è capito che per fare l’acciaio dentro le fornaci il fuoco di legna non era più sufficiente e serviva il carbone;  ovviamente nel nostro caso il fuoco sotto la pentola sociale è dato dalle maggiori possibilità espressive consentite a ciascuno di noi in quest’epoca di reti comunicative e di facilità di produzioni contenutistiche.
Ciascuno di noi ha oggi una potenza di fuoco mediatica paragonabile ad una major di Hollywood o a una televisione degli anni ’80, potendo produrre e distribuire flussi comunicativi multimediali su dimensione planetaria.
Tutto questo non può che incrementare i moti convettivi all’interno del pentolone, si accelera la cottura dello spezzatino, può aumentare pericolosamente la pressione se non viene predisposta un adeguata valvola di sfogo sul coperchio/istituzioni di controllo. E credo che panem et circenses, sessodrogarock’n’roll non siano più sufficienti a tener buona la gente facendola sfogare, né vecchi strumenti come censura e imposizioni topdown possano essere utilizzati dal Potere (ah, che bel gergo sessantottino) in quanto perfettamente inadeguati alle reti di comunicazione orizzontali dentro cui oggi costruiamo il senso degli accadimenti sociali.
Bisogna riprogettare l’intera pentola, RAPIDAMENTE, prima di arrivare all’anomia.
Oddio, magari questo metodo di moltiplicare gli specchi in cui la cultura narra sé stessa e si ri-conosce potrebbe essere proprio la soluzione scelta da Gaia per liberarsi da questa specie umana incapace di realizzarsi ecologicamente, e quindi indirizzarla verso l’autoestinzione, ma sorvoliamo.

Cambio metafora: passiamo al sistema idrologico.
La tecnologia delle comunicazioni è il vento sempre più forte che muove le nubi ed il pulviscolo atmosferico, piove sempre di più sulle montagne, e ogni goccia è uno dei nostri pensieri che precipita nei blog del pianeta, e tutta quest’acqua scende per i mille rivoli dei torrenti e diventano fiumi che allagano la pianura, dove si trovano le città. Gli alvei odierni, i massmedia e le istituzioni sociali di controllo, non sono fatti per sostenere una tale massa di opinioni liberamente espresse: si alza l’umidità, piove ancor di più, si giunge al disastro. Non è difficile, son cose che càpitano, ogni tot secoli. Si chiamano rivoluzioni: nuove esigenze, sorte dal basso, producono cambiamento sociale.
Ma questo cambiamento che ci aspetta inesorabile nei prossimi anni possiede una nuova qualità rispetto a quelli che si sono succeduti da Neolitico in qua: la velocità, il ritmo della narrazione.
Nel post di Svaroschi che linko, Chris Anderson dice che il cambiamento non avviene al ritmo della tecnologia, ma al ritmo delle generazioni.
Sbagliato. Perché il cambiamento non dipende dalle generazioni, ma dalle idee che circolano tra le generazioni e all’interno di ogni generazione. Ovvero l’osservazione è giusta se viviamo in tempi in cui la maturazione e la distribuzione di nuove idee avviene in parallelo con la crescita delle nuove generazioni (i tempi di diffusione delle idee su supporto cartaceo, per esempio, via cavalli e postiglioni), ma è sbagliata se riferita alle peculiarità di questa nostra epoca, dove la tecnologia incide massimamente proprio sulle possibilità comunicative e sulla circolazione delle opinioni.
Il problema è che occorrono forze notevoli per avviare una rivoluzione sociale, e storicamente quando è accaduto che certi giovani avessero in sé contemporaneamente idee nuove, energia e spinta al cambiamento, gli assetti sociali sono cambiati.
Ora invece viene richiesta una rivoluzione ad una generazione avanti con gli anni, che è già scesa a patti con l’esistente, dove pochi comprendono cosa sia Mondo 2.0.
Oppure si tenta di preconizzare una società planetaria liquida, dove cambiamenti strutturali macroscopici possano essere realizzati ogni pochi anni, quindi una forma delle collettività in grado di agire cambiamento più volte nel corso della stessa generazione.
Una ri-fondazione delle strutture sociali tutte non è ulteriormente procrastinabile, lo sappiamo.
Una società organizzata secondo strutture messe a punto tra il Seicento e L’Ottocento, come quella in cui ancora sostanzialmente viviamo, non può reggere il dilagare di nuove consapevolezze e istanze sociali, a cui urge dare risposta e manifestazione concreta nei modi stessi con cui regoliamo i comportamenti individuali e collettivi.

Vassar storie(s): La velocità del cambiamento

Giretto

Amo l’aggregatore, ma non mi può tenere qui inchiodato tutto il giorno. Allora nel tardo pomeriggio ho preso la Vespa, e sono andato a fare un giretto.
Poi verso le otto e mezzo di sera sono andato al Visionario, dove era prevista una serata dedicata alla presentazione del linguaggio pubblicitario – grafica e spot – nell’Europa dell’Est, tra la caduta del muro e oggi. Interessante. Una farfalla tropical grande come il mio palmo mi svolazzava intorno, poi si è fermata sul muro al mio fianco.
Ho chiacchierato un po’ con Honsell di un progetto per un evento culturale da allestire per quest’estate (riguarda un po’ le un-conference, ma vi racconterò meglio più avanti), poi sono andato ad una festa sulla collina del Castello di Udine dedicata all’interculturalità, visto che domani qui comincia Vicino/Lontano, e piena zeppa di studenti universitari, e la musica la metteva su Marco, alias DJ Abdul: melodie mediorientali con la cassa dritta in quattro.
Mi sono stufato dei giovani, e sono andato al Nofun/LaCantina, dove suonava un gruppo che mi ricordavano gli Incubus, bravi e soprattutto ben mixerati da Gaetano, tant’è che cassa e basso uscivano fuori moltissimo bene. Mirko ha sempre la solita faccia, confermo. Allora appagato mi preparo praticamente da solo al banco un pastis con goccia di menta, e riemergo all’aria aperta per rollarmi un cicca e fumarmela in santa pace seduto sulla Vespa, chiacchierando con gente che vedo da vent’anni e non so nemmeno come si chiama.
Senonché con aria gnogna mi si avvicina un tipo sui vent’anni, con i capelli ossigenati color giallo pannocchia, e mi racconta con sguardo fisso che prende medicine e dipinge molto, gli han dato tre TSO in due anni, lo hanno definito borderline (ma lui preferisce la parola sborderline), ed era simpatico proprio. Mi ha detto che alla sua prima crisi maniacale stava guardando la TV e parlava con i personaggi, perché era dio in persona, ma alla seconda crisi qualche mese dopo non si sentiva più dio, era solo un amico di dio. Il tipo passa parecchio tempo in Rete, perché fa “stamp” delle schermate e poi ci dipinge sopra, dentro o fuori il computer; gli ho consigliato di aprire un blog, e buttare fuori tutto.

Come una piccola etichetta cambierà la forma dello scibile

Riprendo un post di Federico Fasce. Sottoscrivo.

Quello che la folksonomy aggiunge alla descrizione del campo semantico di un termine è proprio lo zeitgeist, la fotografia del significato di una parola in un dato momento della storia dell’uomo. E mi pare un significato non di poco conto. Forse bisognerebbe iniziare a registrare il timestamp dell’inserimento di una tag (e alcuni lo fanno, vedi flickr) per avere una migliore idea dell’evoluzione di un significato nel tempo.

Kurai

Della moglie di Frankenstein ovvero la tecnologia umanizzata

Prendo spunto da un post di Bookcafè, il quale a sua volta richiama un articolo di Repubblica.

“Gardner sostiene che il 21simo secolo appartiene alle persone che sono in grado di pensare in un certo modo e che chi non è in grado di sviluppare queste capacità è destinato a soccombere – professionalmente e socialmente – in un mondo sovrabbondante di informazioni, dove per fare la scelta giusta occorre farsi guidare da capacità di sintesi o da intuito ben allenato.”Gardner ha certo un’idea di quale sia quel “certo modo”, ma comunicarlo a quanto pare è difficile per tutti. Senso della sintesi o intuito, visione olistica e sincretica di chi vede gli alberi e il bosco nello stesso momento, di chi segue una scia olfattiva con la stessa sicurezza con cui di solito con gli occhi seguiamo la segnaletica stradale. Passerà ancora del tempo prima che nasca una epistemologia esplicita per “navigare nel mare di Internet”, e una teoria filosofica capace di comprenderne appieno il senso antropologico. Tra l’altro, avete notato?, questa metafora del web come mare è già vecchia: non si tratta più di un luogo dove andare e da cui poi tornare a casa sulla terraferma, come marinai con una rete piena di informazioni… si tratta come oramai sappiamo di un luogo in cui ci si diverte e si lavora, si chiacchiera, si costruiscono cose che riguardano persone e comportamenti, un ambiente di vita dove si abita permanentemente, ciascuno con il suo stile nomadico o stanziale, oppure una mescolanza delle due cose.

Ecco, metafore. Queste sì oggi ne servirebbero, capaci di far comprendere, in modo decisamente olistico, la radicale differenza di un mondo planetariamente connesso, capaci di far comprendere a molti, in termini professionali, la rivoluzione epocale che la specie umana sta affrontando, dove queste nostre generazioni per prime abitano i nuovi territori online. Per chi pratica ad esempio formazione sulle TIC – in azienda, a scuola, negli Enti locali – questa competenza va resa disponibile, va raccontata e mostrata e suscitata negli altri.
Quali metafore narrative usare per causare un simile cambiamento di comportamento percettivo, per innescare un nuovo abito comportamentale?

Per illustrare il nostro essere Nuovi Abitanti ho visto Gaspar Torriero a CitizenCamp proporre la metafora del pesce del Devoniano, ovvero la prima creatura un po’ evoluta che abbia provato ad avventurarsi sulla terraferma, e la similitudine regge, almeno per la sua capacità di sottolineare la radicale diversità dei nuovi ambienti di vita.
Per quanto riguarda invece il funzionamento del meccanismo, l’idea della “conversazione” sembra suggestiva, ultimamente. L’argomento qui riguarda l’idea-meme della “conversazione” quale modo migliore di intendere i sistemi complessi, si tratti del mercato o di internet, dei territori, della collettività in presenza o online.

Tratteggiare le dinamiche online comunicative e comportamentali come conversazioni vuol anche dire renderle più normali alla percezione, farli rientrare in un mondo manipolatorio dove le regole per agire sono da me ben conosciute in quanto parlante.
Diciamo che si tratta di una ri-naturalizzazione, tenendo però ben ferma l’idea che la “naturalità” è artificio, ars e techne che nascondono le tracce del loro passaggio.

La manovra retorica scelta, quindi, ci fa scegliere uno stile nei percorsi formativi, dove cerchiamo di avvicinare l’alieno oggetto/competenza da suscutare/trasmettere ai destinatari, vestendolo di conosciuto.

Tutto ciò può andar bene per suggerire dei modelli di funzionamento dei comportamenti umani complessi, ma ho dei dubbi sulla bontà di questa manovra retorica quando riferita alle tecnologie e alle tecnologie TIC in particolare.. Soprattutto se questa strategia mira esplicitamente a rinaturalizzare l’oggetto in un contesto percepito come naturale.

Il nostro non è un mondo naturale, è un mondo tecnologico, da millenni. Il nostro pensiero sostiene le proprie impalcature utilizzando tecnologie dell’intelligenza.
Perché seguitare a voler vedere le cose come aliene, per poi dover ri-camuffarle da naturali per renderle fruibili?
Preferirei alquanto, per rigor di logica e per bellezza estetica del fare, che fosse piuttosto pronta da subito, fin dalle scuole elementari, una competenza nelle persone, che le abitui a vedere e a riflettere sul carattere costruito degli ambienti di vita, sulle loro peculiarità di trasformazione e distribuzione/connessione di energia materia ed informazione.

Questo andrebbe raccontato: noi viviamo in un mondo tutto tecnologico, tutto intorno a noi è frutto di secoli o di giorni di continuo lavoro umano sull’ambiente, sugli oggetti e sulle persone. I manufatti, l’ambiente antropico, il linguaggio della tecnologia, la cultura tecnologica tutta reca una propria epistemologia, dove il mondo è tecnologico, io sono innanzitutto Homo Technologicus, ed il pensiero che pensa questa modernità fatta di ubiquità (oggi in almeno tre posti: quello fisico, quello creato dal cellulare che mi rende raggiungibile sul pianeta, quello del web dove allestisco identità e partecipo a conversazioni) è naturale, è connaturato al mio pensiero.
I fossi dei campi e i libri, le filiere produttive ed il cibo, gli alberi che vedo dalla finestra e lo schermo che ho davanti agli occhi sono tutti oggetti tecnologici. E la mia mente usa “tecnologie” per nominare e gestire la realtà. Io sono un artefatto.

Pensare invece di vivere in un mondo naturale, dove qua e là spuntano oggetti da cui proprio non è possibile levare la patina di “marchingegno tecnologico”, porta a camuffare questi ultimi, con una mossa che chiamo “la moglie di Frankenstein”, con vaghe caratteristiche emozionali o cognitive di tipo conosciuto, perché si tratta di umanizzare il mostro. L’alieno, per meglio dire.
Voler vedere la tecnologia come Altro da me, proprio la tecnologia che è ciò che fonda il mio essere umano, per poter poi avvicinarla nominandola malamente.

Nel campo della formazione al significato delle TIC tutto questo mascheramento della tecnologia costringe la sceneggiatura del formatore a considerare una prima parte destruens, volta a smantellare panico e pregiudizi, per poi costruire il clima friendly: un giro dell’oca. “Non preoccupatevi di conoscere l’html, sui blog è proprio come scrivere, al massimo fate copiaincolla da Word”.
Procedure per riposizionare l’oggetto nella mente dei discenti, degli interlocutori, camuffandolo e mentendo per renderlo digeribile. Quanta fatica, e quale errore pedagogico, nell’allontanare la comprensione dei fondamenti epistemologici della Cultura Tecnologica.

La tecnologia è la cosa più umana che c’è.
A volerla umanizzare ci si complica la vita.
Meglio lavorare sul contesto che sul messaggio.
Finché la scuola e gli insegnanti continueranno a pensare YouTube come informatica, non ne verranno a capo, tra l’altro: vedete a cosa porta una falsa coscienza?

Rivoluzione digitale

Nessun altro fatto storico, salvo la rivoluzione neolitica e quella industriale, è stato così profondamente, così drammaticamente, così inequivocabilmente rivoluzionario come la rivoluzione digitale. La rivoluzione digitale ha creato una irrevocabile discontinuità nel processo storico. Dopo la rivoluzione digitale il mondo non è stato più e non potrà più essere quello di prima. E il cambiamento è avvenuto nel giro di poche generazioni. L’origine dei nostri affanni, della nostra insicurezza, della nostra angoscia, è tutta qui.

Istituzioni, abitudini, gusti, strutture, idee, modi di essere e di pensare, modi di amare e di odiare, consocenze e sentimenti che servirono l’uomo e le sue società per secoli e millenni, sono di colpo divenuti inutile retaggio, gravoso bagaglio archeologico, peggio ancora ostacolo alla vita della società, nata dalla rivoluzione digitale. I termini del problema umano sono tutti drammaticamente mutati in ogni aspetto e ad ogni livello della vita: nell’arte come nella politica, in economia come in medicina, per l’individuo come per la società, nei rapporti tra uomo e natura, a livello biologico. Nulla e nessuno è stato risparmiato. E il tutto è avvenuto e continua ad avvenire con una rapidità tale per cui il nostro adeguamento sia fisico sia psicologico è arduo e penoso. La vecchia casa va in frantumi travolta da poderose anonime forze innovatrici che però non ci danno il tempo di riflettere e di pensare con chiarezza e con raziocinio a come costruire la casa nuova e renderla abitabile preservando la nostra condizione di uomini.

Gli è che la rivoluzione digitale, emersa da uno sviluppo filosofico ed economico, si attuò essenzialmente come e traverso un progresso tecnologico. Ed il progresso tecnologico, per sua natura cumulativo, impone ora tempi e dimensioni che sono al di là della misura dell’uomo – almeno dell’uomo quale ancora è oggi, frutto di secoli e millenni di civiltà preindustriale. D’altra parte tecnologia e ricchezza di per sé non determinano il proprio uso. Possono venire usate per costruire. E possono venire usate per distruggere. Mai l’uomo ha potuto produrre come oggi. E mai ha potuto distruggere e uccidere come oggi. La tragica antinomia insita nel suo essere mai assunse, nei secoli dei secoli, valori così tragicamente disparati. E’ questo l’altro aspetto del fenomeno che aumenta la nostra angoscia, alimenta i nostri dubbi, accresce la nostra insicurezza in mezzo alla nostra crescente, frastornante ricchezza. Per capire quel che siamo, quel che godiamo e quel che soffriamo, i problemi che ci assillano e le ricchezze che ci circordano dobbiamo far capo alla rivoluzione digitale. Chi vanta i grandiosi risultati raggiunti e chi si preoccupa dei grossi problemi da risolvere, chi fa del passato la ragione del proprio ottimismo e chi fa del futuro fonte del proprio pessimismo, chi vede rosa e chi vede nero, tutti devon far riferimento alla rivoluzione digitale per spiegare la ragione dei successi o degli interrogativi, dell’ottimismo o del pessimismo, dell’orgoglio o della paura. E bisogna fare il punto lì, alla rivoluzione digitale e penetrarne l’intima essenza e la logica interna anche quando si vuol cercare di affrontare razionalmente il domani immediato così pieno di luci e di ombre, di grandiose promesse e di incognite spaventose.

C.M. Cipolla, introduzione a P. Deane, La prima rivoluzione industriale, Bologna, 1971

Ok, ho fatto il solito giochino: ho sostituito a questa famosa prefazione di questo famoso libro la parola “industriale” con “digitale”.

Overload

Non ce la faccio a stare dietro a tutto.
In queste ultime settimane il mio aggregatore sforna feed a bizzeffe, le conversazioni si intrecciano frenetiche, la blogosfera è esplosa, molti strumenti di supporto al blogging hanno moltiplicato i canali comunicativi e i contenuti, ci sono in giro decine di mashups interessanti, i vari barcamp diventano luoghi prioritari di frequentazione professionale, tre ore buone ogni mattina diventano il tempo necessario per restare aggiornato e tentar qualche commento.
Da qualche parte tre mesi fa, forse complici i primi barcamp, forse twitter, forse chissà cosa, si è prodotta una scintilla, un’accelerazione del sistema, un incremento dei link e dei meme, una svolta operativa e costruttiva.
Prima i blogger parlavano, ora si incontrano e fan nascere cose.Guardate Ritalia.it: come diceva qualcuno (scusatemi: è sempre colpa delle centinaia di feed in poche ore) il wiki dedicato alla riprogettazione del portale turistico italiano è già un manifesto dell’intelligenza professionale italiana, è forse il movimento culturale italiano più importante degli ultimi tempi. Dall’incontro a Milano nascerà la postura mentale del fare cultura web in Italia dei prossimi anni, i modi le cornici i contenitori di un pensiero finalmente abbastanza maturo per informare di sé la qualità della comunicazione italiana.

Adesso vado a scrivere un progettino e a curare un po’ le mail di lavoro: tra un paio d’ore tornerò, e decine di feed nell’aggregatore mi faranno l’occhiolino.

CitizenCamp

Il primo Barcamp a cui ho partecipato l’ho organizzato io; ma la circostanza in cui ActionCamp ha avuto luogo, ovvero nel corso di più giorni, presso la manifestazione Innovaction di Udine, in un padiglione fieristico arredato da MTV, mentre nelle sale a fianco Negroponte, Derrick de Kerckhove, Fitoussi, Ridderstraale, Padoa-Schioppa, Martin Bauer e Oliviero Toscani to name but a few giocavano a “tocca a me parlare”, ha reso impossibile lo svolgimento canonico della de-conferenza in programma. Avevo già stigmatizzato questa peculiarità di ActionCamp, puntando fin dal wiki a far leva sulle libere relazioni interpersonali, sulla chiacchiera informale e sul concetto di capannello di persone. Credo però di aver salvaguardato comunque gli aspetti fondanti di questa modalità camping di diffusione della conoscenza e dello scambio di idee tra le persone, tant’è che ho conosciuto in quell’occasione diverse persone qui del nord-est, teste ben funzionanti con idee ed approcci nuovi e stimolanti.

Per l’appunto, al CitizenCamp di Casalecchio/Reno ci sono andato in macchina con Enrico: chiacchiere interessanti già a 140km/h. Appena parcheggiato abbiamo incrociato Sergio, poi siamo entrati alla Casa della Conoscenza, edificio civico e biblioteca bello quanto il suo nome, in legno acciaio e vetro. Ho conosciuto Antonella, da tutti giustamente lodata per il lavoro organizzativo, Gaspar, Vitta, Antonio Sofi e altri, che leggo e a cui ora posso associare uno schema corporeo, oltre che rappresentarmeli mentalmente secondo il loro stile di scrittura su web.
Gli interventi sono stati all’altezza della fama dei loro autori, posso confermare; ho anche registrato qualche metro di video, magari riesco a montare un rap della giornata.

Ma vi parlerò di quello che non mi è piaciuto.
1. Troppo casino. Nel senso di rumore, confusione, openspace, suddivisione degli spazi tra luogo (luoghi) dell’esposizione e luogo della chiacchiera. Sarò stato io di umore strano, ma non sono riuscito né a concentrarmi bene nell’ascolto dei relatori né a godere del libero scambio di opinioni nelle pause.

2. Non ritengo buona cosa, per un BarCamp, allestire due o più sale di esposizione. Un BarCamp serve a diffondere idee con un meccanismo agile e nuovo, non può impostarsi come un convegno istituzionale, dove magari ad un certo punto appariranno anche i famigerati “workshop del pomeriggio”.
Visto che il pubblico, tolti i relatori, era formato da cinquanta partecipanti forse, chi ha parlato nella sala grande aveva spesso davanti un gruppetto davvero sparuto di persone, anche solo quattro o cinque. Nella saletta piccola invece parlavano i pezzi grossi della blogosfera, che già si conoscono tra loro magari da anni, fondamentalmente davanti ad un pubblico di amici o conoscenti. Atmosfera ottima, ma a spese della qualità complessiva dell’evento. Mi è sembrato che in modo informale e certo inconsapevole venissero allestiti meccanismi di inclusione-esclusione, basati sulle frequentazioni amicali di alcuni relatori (ed è naturale che questo accada) ma ingigantiti dalla suddivisione dell’area dedicata al CitizenCamp in due diversi luoghi di conferenza (e questo poteva essere previsto ed evitato).
Mi spingo più in là: credo che gli interventi nella platea, più simili a studi di caso, siano stati in generale più pertinenti rispetto al tema “politico” della Cittadinanza Digitale, rispetto alle relazioni presentate nella sala piccola, maggiormente centrate su aspetti tecnici o rivolte a fenomeni comunicativi mediatici o economici indubbiamente significativi, ma non perfettamente tarati sul titolo dell’evento.
La soluzione è senza dubbio da ricercare nell’unitarietà del BarCamp, dove tutti dovrebbero essere in grado di sentire tutti gli interventi, perché le buone idee possono venire da ogni luogo e non esiste la suddivisione in serie A e serie B, quando si tratta di Conoscenza. Certo una struttura espositiva sulla falsariga dei Pecha-Kucha potrebbe giovare: 20 slides per 20 secondi ciascuna, quindi 6 minuti e 40 secondi per ogni relatore più eventuale dibattito (se ci sono poi molte domande e risposte, l’intervento è interessante per manifesta folksonomy) potrebbe essere il tempo giusto per raccontare la propria idea, e permettere lo svolgimento ritmato in un unica sala capiente e ben attrezzata.

3. Bisognerebbe inoltre ufficializzare l’apporto dei “remoti”, renderlo visibile e auspicato. Non è giusto che chi segue da casa o dall’ufficio il Barcamp debba sentirsi un lurker. Magari proiettare sul muro vicino al relatore gli interventi spediti in twit, sms, chat, skype genera un delirio (ho già provato) e l’approccio va progettato e inscatolato per bene, però degli strumenti di partecipazione collaborativa a distanza possono senza dubbio essere predisposti e proficuamente impiegati.
L’altra mattina seguivo l’interessante conferenza a ReggioEmilia sugli utilizzi di Moodle magnificamente disponibile in audiovideo su web (qualcuno conosce un sw opensource tipo Breeze di Adobe?), e Pasteris mi ha fatto ridere, mentre eravamo in chat pubblica su Skype, perché mi diceva che io e lui sembravamo i due vecchietti che guardano e commentano il Muppett Show.

E adesso non mi rimane che capire se riuscirò ad essere anche a Vicenza per il TrainersCamp.
Se smisto due impegni, potrei farcela.

Report su Telecom

In molti oggi si sono dichiarati delusi – segnalo Gaspar, Bonacina e Aghost – dalla puntata di Report dedicata agli intrallazzi della Telecom e compagnia bella, andata in onda ieri sera.
A mio parere, si trattava di una trama così fitta e arzigogolata che al solo concepire una sceneggiatura in grado di descrivere ed argomentare tutti i retroscena, le piste parallele, i personaggi, le ipotesi, gli autori si sono resi conto che sarebbe servito Ariosto come copywriter e Orson Welles come regista.
Inoltre, come due volte affermato dalla Gabanelli, i dirigenti Telecom e altri personaggi chiave si sono rifiutati di fornire testimonianze o giustificazioni: conseguentemente lì a Rai3 han dovuto allungare il brodo con i filmati stile “Chi l’ha visto”, con i portinai e le signore affacciate alla finestra con il telefono in mano, per avvisare subito la cognata che un cameramen di Report le aveva inquadrate.
Però un appunto lo vorrei fare: perché non sono state sviluppate delle presentazioni grafiche, anche solo con mappe concettuali delle relazioni tra le persone o le società coinvolte, oppure con qualche disegnetto animato sui flussi di soldi ed intercettazioni?
Con misura, buon senso ed eleganza, avrebbero potuto contribuire alla comprensione della ragnatela intessuta da questi faccendieri di denaro pubblico.