Archivi categoria: Cittadinanza digitale

Analisi sociale

Un’analisi quantitativa dove è possibile trarre indicazioni predittive, e osservare i sentimenti delle masse, correlarli ai comportamenti. In questo caso si tratta delle elezioni in Sicilia, ma al di là del contenuto quello che vediamo nel trattare i big data sono nuove metodologie e nuove grammatiche per rendere significativo quello che prima non poteva neppure essere percepito. L’alba della nuova percezione di sé delle collettività.
E forse un programma didattico per le scuole andrebbe preparato, su questi argomenti, per diffondere tra gli studenti quello che da sempre è appannaggio della scuola, ovvero saper leggere la realtà.

http://www.techeconomy.it/2012/11/05/elesicilia-twitter-le-reti-e-la-correlazione-tra-buzz-e-risultati/

Habemus Agenda (quasi)

(fonte: Apogeonline)
Habemus Agenda (quasi)
di Simone Aliprandi
È ora di chiudere le discussioni su che cosa significhi apertura di dati e formati all’interno della Pubblica Amministrazione.
Precisamente giovedì 18 ottobre il Presidente Napolitano ha promulgato il testo definitivo del decreto legge comunemente chiamato Crescita 2.0con il quale vengono attuate le riforme della cosiddetta Agenda digitale.
Questo fondamentale e tanto atteso provvedimento tocca davvero molti ambiti della legislazione italiana in materia di innovazione e digitalizzazione del paese (identità digitale, dati aperti, trasporti, istruzione, sanità digitale, digital divide, moneta elettronica, giustizia digitale, ricerca, smart community, startup innovative, nuove infrastrutture…) e porta succulente novità (tra cui – udite udite! – la previsione di specifiche sanzioni per i funzionari della Pubblica Amministrazione che non rispettano i criteri già stabiliti sette anni fa dal CAD, Codice dell’amministrazione digitale). In un’ottica di sintesi, desidero segnalare le non poche novità in materia di openness.
La più vistosa è relativa ad una ulteriore modifica dell’articolo 68 del CAD (oltre a quella recente di cui abbiamo già parlato): viene infatti modificato il testo del comma 3 rendendo più precisa e opportuna la definizione di formato aperto (quella precedente era infatti troppo generica e lasciava spazio a troppe interpretazioni strumentali); ma soprattutto viene cristallizzata una definizione legislativa di dati aperti:
sono dati di tipo aperto i dati che presentano le seguenti caratteristiche: 1) sono disponibili secondo i termini di una licenza che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali; 2) sono accessibili attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti […], sono adatti all’utilizzo automatico da parte di programmi per elaboratori e sono provvisti dei relativi metadati; 3) sono resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, oppure sono resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione […].
Altro passo interessante del decreto è quello che interviene sull’articolo 52 del CAD e sancisce il principio per cui i dati e i documenti pubblicati con qualsiasi modalità dalle pubbliche amministrazioni senza l’espressa adozione di una licenza d’uso vengono considerati alla stregua di dati di tipo aperto. Nella sezione dedicata alle comunità intelligenti vi sono inoltre vari riferimenti al già noto concetto di riuso di sistemi e applicazioni, che ne esce ulteriormente chiarito e rafforzato.
Bisogna infine rilevare in tutto il provvedimento una spiccata attenzione per l’aspetto (a me molto caro) dell’interoperabilità e degli standard aperti, che sembra ormai essere entrato pienamente nelle corde del legislatore italiano.
E ora? Non è finita! Il decreto sarà vigente per sessanta giorni, periodo entro il quale il Parlamento dovrà convertirlo in legge ordinaria; dunque c’è ancora la possibilità che vengano effettuati emendamenti. A tal fine è stato aperto un apposito wiki sul sito degli Stati generali dell’innovazione, in cui tutti possono scrivere commenti e avanzare proposte; il tutto verrà poi sottoposto all’attenzione di alcuni parlamentari impegnati in tal senso.
Io ho già in mente che cosa proporre: un comma che riformi l’articolo 5 della legge 633 del 1941 e finalmente eviti confusione sulla titolarità di diritti di privativa su tutti gli atti ufficiali dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, in qualsiasi forma essi compaiano.

Consultazione pubblica del Miur sui principi fondamentali di Internet

Consultazione pubblica del Miur sui principi fondamentali di Internet

Dal 18 settembre al 1° novembre è attiva la consultazione pubblica sui principi fondamentali di Internet, sulla piattaforma online http://discussionepubblica.ideascale.com. Il documento “Principi generali di Internet”, elaborato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, rappresenta l’inizio di un dibattito pubblico sulla governance di Internet, vale a dire sui processi, attività, valori e tecniche di gestione della Rete e di buon comportamento nella Rete stessa. La consultazione riguarda cinque temi fondamentali (principi generali, cittadinanza in rete, consumatori e utenti della rete, produzione e circolazione dei contenuti e sicurezza in rete), avviene esclusivamente per vie telematiche ed ha una durata di 45 giorni.
E’ aperta a tutti i cittadini, organizzazioni private, espressioni della società civile organizzata o istituzioni pubbliche che vogliano inviare un contributo al dibattito. La consultazione servirà a definire e preparare la posizione italiana sui principi fondamentali di Internet in vista del settimo incontro dell’Internet Governance Forum, che si terrà a Baku, Azerbaijan, dal 6 al 9 novembre 2012. L’Internet Governance Forum è l’organismo delle Nazioni Unite che discute del futuro della governance della Rete, e che prevede la partecipazione in condizione di parità di governi, imprese private e società civile.

Re-framing della collettività

Quelli della Decrescita e i movimenti ecologici mondiali dicono che bisogna ri-colonizzare l’immaginario, per spostare la nostra percezione e quindi progettualità e azioni lontano dalla visione capitalistica/consumistica così come propalata dalla fine della seconda guerra mondiale.
Quelli che si occupano di giornalismo e di editoria dicono che la circolazione fluida della conoscenza, compresi tutti i nuovi fenomeni di crowdsourcing informativo, fact-checking, produzione dei contenuti digitali aumentati e distribuzione su dispositivi elettronici, ha bisogno di fare un salto di qualità, deve rendersi conto che il contesto mediatico è radicalmente cambiato, e bisogna adeguarsi adottando nuovi punti di vista e competenze digitali.
Quelli che seguono l’innovazione nella Pubblica Amministrazione sottolineano come sia necessario ora con sforzo immenso ri-progettare la stessa organizzazione lavorativa, ottimizzare grazie a strumenti di comunicazione conversazionali l’efficienza della macchina passando necessariamente per un cambio di mentalità degli stessi amministratori (funzionari o politici), verso una postura di democrazia e di governo del territorio di tipo partecipativo, abilitato e favorito dalle tecnologie digitali.
Quelli che si occupano dell’Agenda Digitale, delle start-up nel settore ICT, delle smartcities, dei territori connessi, sta ora lottando per ridisegnare le priorità del territorio, sventolando i vantaggi che una buona cablatura può offrire, insieme a pratiche di trasparenza strumenti di sensoristica, partecipazione diretta dei cittadini. E le priorità vanno riordinate nella testa di ognuno e nella cultura di una collettività.
Quelli che fanno consulenza per le imprese, avendo capito quanto le modalità digitali odierne di comunicazione interna e esterna modifichino i comportamenti e la forma stessa dell’azienda per come essa si percepisce sul piano delle relazioni interpersonali e della socialità mediatica, avendo compreso quanto sia importante nel social web marketing lavorare sulla narrazione, sulla partecipazione e sulla appartenenza a una community, sulla sentiment analysis e sulla reputazione, devono gestire il cambiamento del gruppo di lavoro reimpostando dentro la testa dell’imprenditore tutta una visione del mondo, dove oggi i mercati sono conversazioni.
Forse si è capito che bisogna lavorare sul contesto, non solo sul messaggio.
Tutto questo è un re-framing cognitivo, per una collettività, per un’enciclopedia. Serve una nuova cornice dentro cui leggere il mondo, e solo dentro quella realtà mentale sarà possibile progettare iniziative di innovazione sociale adeguate ai nostri tempi, che rispettino gerarchie di obiettivi misurati sulle necessità attuali dei cittadini e dei consumatori.
Una colossale opera semiotica, per rinominare il mondo. 
Programmi narrativi, dove per agguantare i nuovi Oggetti di Valore diventa necessario innanzitutto manipolare lo spazio cognitivo dell’Eroe (ognuno di noi, in fondo) mostrandogli i vantaggi e i benefici di un nuovo mondo possibile dove tutti siamo connessi. Riuscendo a motivare l’Eroe, inneschiamo l’azione e il cambiamento. 
Questa cosa deve sicuramente accadere a livello individuale, però le scuole devono formare cittadini digitali, e la Pubblica Amministrazione in quanto cosa pubblica deve subito adeguarsi e diventare nativamente conversazionale.
Magari come pubblicitari, bisognerebbe indurre un bisogno, perché forse non ci siamo bene accorti che qui tutto è cambiato. Usare strategie di narrazione, appunto. Far leva sulla desiderabilità, sulla convenienza, sull’estetica e sull’etica, sui benefici sociali, perfino sul progresso della specie umana. E diffondere una nuova percezione della realtà, dove la socialità digitale è uno dei fondamenti di qualunque ragionamento.
Eppure basterebbe che riflettessimo (lo dovrebbero fare alle scuole medie, questo) su quanto ci ha cambiato avere in mano uno smartphone connesso, le possibilità oggi praticabili da ognuno di noi nella partecipazione digitale a finalità civiche o anche di produttività e di consumo.
Ci vorrebbero cartelloni sugli autobus (elettrici)  con su scritto “E’ CAMBIATO IL MILLENNIO. Guardati attorno, sei connesso”
Insomma, tutti dovrebbero parlare di questo. Tv, radio, giornali, al bar: mi piacerebbe che per un anno tutti parlassero di quanto è cambiato il mondo.

Nel frattempo, l’Agenda Digitale del Veneto

Focus Group per l’Agenda Digitale del Veneto

Dotarsi di un’Agenda Digitale, vale a dire di uno strumento programmatico per la promozione della conoscenza, dell’innovazione, dell’istruzione e della società digitale, rappresenta una priorità sancita a livello europeo, ora rilanciata anche a livello nazionale in Italia. Nel Veneto ciò significa dare continuità e nuovo impulso a processi pianificatori intrapresi da tempo.

Per questo la giunta regionale il 7 agosto scorso ha autorizzato la realizzazione dell’Agenda Digitale del Veneto e, a tale scopo, è stato individuato un “focus group” di esperti che si è insediato oggi a Palazzo Balbi e  che contribuirà alla redazione di questo importante documento programmatico.

Componenti Focus Group

  • Marco Camisani Calzolari, CEO di Speakage e docente IULM
  • Michele Vianello, Direttore Parco Scientifico VEGA
  • Stefano Micelli, Docente Economia Ca’ Foscari e VIU
  • Riccardo Donadon, CEO di H-Farm
  • Carlo Mochi Sismondi, Presidente di ForumPA
  • Stefano Quintarelli, Direttore dell’Area Digital del Gruppo 24 ORE
  • Ernesto Belisario, Presidente Associazione Italiana per l’Opengovernment

La stesura di un’Agenda Digitale del Veneto non è nella mia visione un punto di arrivo,  ma  èun assetto e una modellazione organica degli interventi che già abbiamo messo in cantiere per il rilancio della cultura ed economia digitale nel nostro territorio. L’Agenda Digitale del Veneto rappresenta quindi un punto di partenza per implementare questa prima fase e sapersi orientare all’interno di nuovi scenari di grande impatto economico e sociale.

In questi miei  primi due anni di mandato, la Regione ha dato attuazione a un ampio programma di lavoro su queste tematiche, comprendendo tra l’altro:

  • l’abbattimento del DigitaI Divide Infrastrutturale con la diffusione della Banda Larga, progetto per il quale sono stati messi a disposizione 40 milioni di euro ed è prossimo  un ulteriore finanziamento;
  • l’abbattimento del DigitaI Divide Culturale con la creazione di luoghi (Centri P3@) infrastrutturati orientati a soddisfare le esigenze di connessione, ma soprattutto di acculturazione informatica, in tutti i comuni veneti. Attualmente con 2 milioni di euro ne sono stati già aperti 167 ma la Regione si adoperando per raggiungere la totalità dei comuni del territorio veneto;
  • la diffusione del modello del “cloud computing” attraverso il finanziamento di 23 progetti delle PMI venete che operano nel campo dell’ Information & Communication Technology. Su questo ambizioso progetto, prima esperienza assoluta a livello nazionale, la Regione ha messo a disposizione 2.3 milioni di euro e, attualmente sta operando per stimolare la domanda verso questi servizi, offrendo incentivi alle PMI che non appartengono al settore dell ‘ICT, con altri 2 milioni di euro;
  • la diffusione della cultura della trasparenza e del dato aperto con più di 100 dataset nel portale veneto degli Open Data e molti altri che si stanno aprendo, anche grazie alla collaborazione con gli Enti e le Agenzie pubbliche di tutto il territorio veneto.

Facendo tesoro di questo bagaglio di progetti  è stato disegnato il proseguimento di un percorso con cui saranno definite le strategie digitali del Veneto per i prossimi anni. Servirà anche al rilancio di quei settori produttivi che, adottando il paradigma digitale, potranno competere a livello globale dimostrando ulteriormente il loro talento e l’indiscussa creatività che li ha sempre contraddistinti.

I temi da affrontare sono di primaria importanza come le start-up d’impresa, le reti di nuova generazione, le smart-cities e molto altro ancora. Con l’Agenda Digitale ci attende una sfida epocale che sono certo potremo affrontare mettendo in prima linea capacità e risorse per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati per fare del Veneto una regione di primissimo livello nel campo delle comunicazioni tecnologiche”.

Martedì 18 settembre 2012 | Palazzo Balbi | Venezia

Vice Presidente e Assessore al  sistema informatico ed e-government
Regione del Veneto On. Marino Zorzato

Fonte: marinozorzato.it

Le scuole digitali, subito

Un articolo sulle difficoltà del progetto nazionale per la Scuola digitale, l’ho trovato su Agenda digitale
Subito dopo incollo le indicazioni del ANSAS del sito ministeriale Scuola-digitale per l’iniziativa Cl@assi2.0 (e smettiamola con questa @ nel nome, so nineties), giusto per dare un’occhiata alle tendenze diffuse più aggiornate rispetto alle metodologie didattiche mediate, e valutare appieno la distanza, avere orizzonti più ampi, osare. Perché l’azione di Cultura digitale tutta (dalle competenze digitali in classe per una cittadinanza piena, alle elementari fome di alfabetizzazione, alla riduzione del digital divide con banda ultralarga, all’adozione di dispositivi mobili connessi, alla ideazione e promozione di format di narrazione adeguati al contesto tecnologico e mediatico dell’apprendimento, all’organizzazione scolastica) sulla Scuola è necessaria e impellente, niente meno.
Scuola digitale ostacolata da classi senza internet e dal caos sui nuovi libri

 di Martina Pennisi

 Il ministero dell’Istruzione si accorda con le Regioni per attrezzare gli istituti. Le aule connesse però sono ancora troppo poche. E manca un modello condiviso di editoria digitale

Mentre procede il piano del Miur sulla Scuola digitale, emergono tutti gli ostacoli da superare per raggiungere gli obiettivi. In particolare la lacuna fondamentale sono le connessioni internet nelle classi, come evidenzia uno studiodell’Università La Cattolica. E c’è ora il caso di 3.800 scuole che, per motivi economici, perderanno la connessione all’Spc dal 20 ottobre. Regna inoltre, ancora, la confusione sulla nuova editoria scolastica digitale.

Gli ultimi passi avanti

Il tutto mentre nei giorni scorsi c’è stata una storica stretta di mano con 12 Regioni e 40 milioni di euro messi sul piatto: il ministero dell’Istruzione presieduto da Francesco Profumo spinge sulla digitalizzazione della scuola, in attesa che l’argomento faccia capolino all’interno dell’Agenda digitale. Il decreto sulle norme volte ad aggiornare il Paese dal punto di vista tecnologico e dell’innovazione verrà presentato a fine mese, come annunciato dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera in occasione della presenza del rapporto sulle startup. Profumo ha cominciato a muoversi nell’area di sua competenza a fine dicembre 2011, lanciando il progetto La scuola in chiaro e rendendo disponibili i recapiti e le caratteristiche principali di 11mila scuole italiane. In luglio è stata la volta della presentazione del portale UniversItaly, per aggregare le informazioni sugli atenei nostrani. 
Il primo giorno dell’anno scolastico 2012/2013 è stato occasione per annunciare lo stanziamento di 31,836 milioni di euro per portare un computer in ogni classe delle medie (34.558) e superiori (62.600) e l’intenzione di consegnare un tablet a ogni insegnante del 64,5% delle scuole di Puglia (599 istituti), Campania (712), Sicilia (584) e Calabria (233). La stretta di mano odierna con le regioni del nord, che contribuiscono con 16 milioni, vede Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Toscana, Veneto e Umbria spendersi per portare nelle aule 5.906 lavagne interattive, fornire agli studenti 77.073 tablet, realizzare 2.764 Cl@assi 2.0 (una lavagna interattiva, un device per alunno e per insegnate, accesso alla Rete e a contenuti didattici digitali) e 17 Scuole 2.0 (produzione digitale di processi e contenuti, orari scolastici compresi). Rimangono fuori solo Sardegna, attiva autonomamente con il progetto Scuola Digitale, Veneto, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta.

I problemi

A fronte di un tale, e (pro)positiva, convinzione sul dispiegamento delle macchine sono due le valutazioni da fare: prima di tutto quella relativa alle connessioni a Internet degli istituti e, soprattutto, delle aule dei singoli istituti. E in seconda battuta sulla formazione dei docenti, che dovranno per forza di cose imparare a dialogare con i dispositivi di nuova generazione e trovare uno spazio agli stessi nel processo didattico. Il primo àmbito non è di competenza diretta del Miur: trattasi di cablaggio degli edifici pubblici, che è già stato menzionato fra le priorità della più ampia agenda. Di lavoro da fare ce n’è, a fronte di un 7% delle scuole con tutte le classi in grado di navigare e un 10,96% che si connette solo da alcune aule, parlando delle medie, e un 7% circa delle superiori dotato di collegamento wireless. La percentuale degli istituti cosidetti secondari con accesso alla Rete in tutte le classi sale al 13%. I dati sono contenuti in una ricerca dell’Università Cattolica di Milano del 2009/2010, commissionata da Scuola digitale. L’ufficio statistico del Miur accorpa tutti gli istituti e individua un 73% di scuole connesse, anche solo in biblioteca e segreteria, e un 33% in cui il segnale arriva nelle aule. L’Adsl è presente nel 44,8% dei casi. Riavvolgendo il nastro al Programma per l’informatica e la telematica voluto da Luigi Berlinguer, correva l’anno 1998 e si tratta dell’ultimo sforzo significativo prima di quello in esame, si parte dal 39,4% degli istituti collegati. Mentre ora si apprende che 3.800 scuole perderanno internet il 20 ottobre. Lo rivela una nota della Direzione generale per gli studi, la statistica ed i sistemi informativi del Miur; comunica la fine del progetto Spc scuole: “Ridotti i fondi stanziati per un’iniziativa che è interamente a nostro carico”. “Spc è un progetto finito e riguarda solo servizi in più, di segreteria. Non c’entra con la didattica”, ribatte Giovanni Biondi al nostro sito. E’ il responsabile di questi temi per il Miur. “Nell’Agenda prevediamo un piano di cablature e connessione delle scuole”. Altre scuole in digital divide dovrebbero essere coperte dal piano nazionale banda larga del ministero allo Sviluppo economico (ora in fase di approvazione; risorse comunitarie di 1,08 miliardi di euro che serviranno principalmente a dare banda larga di base alle case).
La variabile internet è determinante, come tiene a sottolineare il professore dell’Università meneghina Bicocca Paolo Ferri e consulente per l’innovazione del Miur, perché “senza Internet, senza la banda larga le macchine non servono. Il cablaggio di scuole e uffici pubblici deve essere la priorità assoluta”. L’approccio di Profumo, “che si è trovato senza soldi e al cospetto di una situazione a macchia di leopardo”, è da considerarsi positivo in termini di “attenzione al tema” e in un contesto in cui non si assiste a un “intervento strutturale da 12 anni”, la riforma Berlinguer appunto. La formazione dei docenti è il secondo aspetto su cui è necessario concentrarsi: “Qualcosa è già stato fatto, 4-500mila insegnanti sono stati formati in questi anni, ma bisognerebbe permettere l’incentivazione contrattuale nei confronti di chi si dimostra ricettivo”. “Se non”, provoca Ferri, “introdurre una carriera dell’insegnamento, ma la Cgil non lo permetterebbe mai”. Con la stessa urgenza, passando al terzo intervento auspicabile, bisogna “occuparsi dei contenuti”. Fra le voci evidenziate dal Miur è presente quella dedicata all’Editoria digitale scolastica e, secondo quanto stabilito da Tremonti nel 2009, i libri pubblicati dal 2011/2012 devono essere misti. Manca però un modello comune agli editori: negli Stati Uniti, spiega Ferri, “il libro digitale viene venduto al 50% del prezzo di copertina con funzioni aggiuntive”. Così facendo si è anche superata la riluttanza dei medio piccoli, il 40% del nostro mercato, che temono di rimetterci economicamente nella transizione al digitale. Profumo ha messo a disposizione 10mila euro a progetto per una ventina di spunti, ma “c’è il problema dei diritti d’autore da affrontare: il bando prevede che i contenuti realizzati siano di proprietà della scuola e possano essere sfruttati da terze parti”. Sulla possibilità che siano gli insegnanti a pubblicare i libri, l’iniziativa si chiamaBook in progress, Ferri è abbastanza scettico, “è uno scenario utopico e gli editori sono troppo legati al loro business tradizionale, non rendendosi conto che nell’arco di 5 o 6 anni i contenuti digitali saranno la maggior parte”. Così si spiegano anche alcune disavventure su cui, con il nuovo anno scolastico, si cimenta l’ironia dei blogger.
L’aspetto che desta meno preoccupazione è quello legato alla penetrazione dei dispositivi: “Hanno un costo ormai ridotto e l’80% dei genitori italiani ne possiede uno. E secondo i dati Istat, la percentuale degli insegnanti ad avere il computer è pari al 95%”. Oltre a essere una buona notizia in termini di alfabetizzazione digitale, quantomeno potenziale, potrebbe essere il punto da cui partire per organizzare una rivoluzione strutturale con le poche risorse economiche disponibili. Secondo un dossier de Lavoce.info servirebbero 10 miliardi di euro per portare la didattica nostrana al livello di quella britannica, banda larga ovunque, lavagne interattive e quattro o cinque computer connessi per aula. Una soluzione intermedia, spiega Ferri, dovrebbe partire dal “cablaggio delle scuole supportato dallo stato”, passare per “agevolazioni per le famiglie che investono in tecnologia”, tenendo conto della buona diffusione di partenza; e “trovare un accordo solido con gli editori”. La rondine di questi mesi non fa (ancora) primavera, ma ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Le altre sono da ricercarsi nel decreto di fine settembre
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Da Scuola-digitale.it

Per il raggiungimento degli obiettivi previsti dal progetto Cl@ssi 2.0, che ha, a livello internazionale, dei “progetti gemelli”- in Spagna il progetto Escuela 2.0 e in Inghilterra il progetto CAPITAL – è necessario tenere presente alcune tendenze diffuse negli ultimi anni nell’ambito dei servizi e degli strumenti a supporto dell’apprendimento. Questi infatti si presentano come applicazioni di facile uso che non richiedono specifiche competenze e rendendo quindi indipendente l’utente. Tra queste tecnologie rientrano anche le Lavagne Interattive la cui rapida diffusione ha dimostrato l’alto  potenziale delle ICT nel guidare il cambiamento degli ambienti di apprendimento.
Terminati i processi di diffusione delle tecnologie su larga scala a scuola, anche a livello europeo, è urgente verificare se e quanto le tecnologie siano state integrate all’ambiente di apprendimento e se la loro presenza abbia apportato delle modifiche/cambiamenti alle metodologie didattiche al fine di sostenerne  il processo di stabilizzazione.
Alcune tra le tendenze diffuse (EU Digital Agenda, Marzo 2010, 2020 Vision – Report of the Teaching and Learning in 2020 Review Group) rivelano che:
  • I modelli pedagogici, costruttivista e sociocostruttivista,  includono le ICT come strumenti per potenziare la didattica tradizionale che privilegi un approccio attivo, compiti aperti che mirino alla riflessione sul processo ed alla personalizzazione dei percorsi di apprendimento.
  • Un ulteriore concetto ormai ampiamente condiviso, anche se ancora poco sperimentato realmente, riguarda il ruolo dell’insegnante che si configura come il punto chiave nel processo di trasformazione delle azioni di apprendimento. La presenza sempre più diffusa e naturalizzata nella scuola da qui a dieci anni delle tecnologie renderà necessario all’insegnante sviluppare e mettere in campo competenze oggi ancora timidamente espresse.
  • Gli spazi dell’apprendimento a livello strutturale probabilmente resteranno immutati, ma la differenziazione dei modelli di apprendimento sarà orientata prevalentemente alla  collaborazione tra studenti e alla personalizzazione dei contenuti/percorsi sia per il modello classe tradizionale che per modelli diversi da questa con il supporto delle ICT  (es. classe diffusa).
  • I vincoli strutturali sono stati superati in questi anni dall’estensione dello spazio classe con ambienti di apprendimento virtuale (VLE) e sistemi di gestione dei contenuti, LMS (Learning Management System), a cui si sono associati strumenti del Web 2.0.
  • Sul fronte contenuti didattici digitali si rileva la produzione di contenuti autoprodotti dall’utente che potrebbe restare la tendenza più diffusa se si trovassero standard descrittivi adeguati.
  • La grande diffusione delle lavagne Interattive Multimediali e di superfici interattive in generale avvierà l’ampliamento del numero di device tecnologici (tablet, netbook, ebook, risponditori…) che orienteranno l’attività didattica sempre più verso la collaborazione.
  • La valorizzazione dell’apprendimento informale sarà un ulteriore fattore chiave. In questa direzione l’uso di giochi, ambienti immersivi e augmented reality  richiederà ulteriori approfondimenti di ricerca per far si che questi vengano considerati come potenziali scenari di apprendimento.
  • Gli esiti di alcuni progetti in paesi europei ed extraeuropei hanno rivelato che la formazione degli insegnanti sia metodologica che tecnologica rivela l’estrema importanza della qualità della stessa e della necessità di identificare nuovi modelli di formazione continua adeguati alle esigenze della popolazione insegnante (OECD – Education at a glance).
  • La presenza diffusa delle nuove tecnologie sia in forma di strumenti (risponditori..etc) che in forma di applicazioni web 2.0 (wiki, blog, contenuti digitali o altro) consente di attivare processi di valutazione degli apprendimenti e di identificare le preferenze degli studenti. L’uso di questi strumenti probabilmente modificherà la valutazione formativa, mentre la valutazione sommativi manterrà un approccio basato sulla misurazione degli apprendimenti a partire da prove oggettive di valutazione (es. OCSE-PISA e INVALSI)
  • Un ultimo elemento chiave da non sottovalutare è il ruolo dei genitori sempre più coinvolti e partecipi nel processo di crescita e formazione dei figli. Questi ultimi si mostrano favorevoli all’adozione di nuovi strumenti.
L’azione Cl@ssi 2.0 intende offrire la possibilità di verificare come e quanto, attraverso l’utilizzo costante e diffuso delle tecnologie nella pratica didattica quotidiana, l’ambiente di apprendimento possa essere trasformato.
La logica del progetto tende a valorizzare l’attuazione di più modelli di innovazione che possano generare un contagio nel territorio anche tra quelle scuole che non partecipano all’iniziativa. In quest’ottica si auspica che si realizzi una casistica eterogenea di modelli di miglioramento nell’ottica dell’autonomia scolastica. In tal senso il processo di miglioramento che il progetto vuole promuovere comprende più livelli, dall’aspetto organizzativo a quello aspetto didattico nella gamma di azioni del processo insegnamento/apprendimento che, a partire dall’analisi dei bisogni della scuola, prevedano l’integrazione delle tecnologie (sia in termini strumentali che metodologici). Il focus non ruota attorno alla tecnologia in senso stretto, ma alle dinamiche di innovazione che può innescare.

AAA Direttore Agenda Italia Digitale cercasi

Qui di seguito, alcuni degli obiettivi dell’Agenda per l’Italia Digitale, quelli riportati dal bando per la selezione del Direttore generale.

Animo, ragazzi, che siamo nel 2012, e queste cose potevano essere tranquillamente progettate e pian piano realizzate nel corso degli ultimi dieci anni.

  • la realizzazione degli obiettivi dell’Agenda digitale italiana, in coerenza con gli indirizzi elaborati dalla Cabina di regia di cui all’articolo 47 del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in legge con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, nel quadro delle indicazioni dell’Agenda digitale europea, di cui alla comunicazione della Commissione europea COM (2010) 245 definitivo/2 del 26 agosto 2010;
  • la diffusione dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, allo scopo di favorire l’innovazione e la crescita economica, anche mediante l’accelerazione della diffusione delle Reti di nuova generazione (NGN);
  • l’elaborazione di indirizzi, regole tecniche e linee guida in materia di omogeneità dei linguaggi, delle procedure e degli standard, anche di tipo aperto, per la piena interoperabilità e cooperazione applicativa tra i sistemi informatici della pubblica aministrazioe tra questi e i sistemi dell’Unione Europea;
  • l’assicurazione dell’uniformità tecnica dei sistemi informativi pubblici destinati ad erogare servizi ai cittadini ed alle imprese, garantendo livelli omogenei di qualità e fruibilità sul territorio nazionale, nonché della piena integrazione a livello europeo;
  • il supporto e la diffusione delle iniziative in materia di digitalizzazione dei flussi documentali delle amministrazioni, ivi compresa la fase della conservazione sostitutiva, accelerando i processi di informatizzazione dei documenti amministrativi e promuovendo la rimozione degli ostacoli tecnici che si frappongono alla realizzazione dell’amministrazione digitale e alla piena ed effettiva attuazione del diritto all’uso delle tecnologie di cui all’articolo 3 del Codice dell’amministrazione digitale;
  • la vigilanza sulla qualità dei servizi e sulla razionalizzazione della spesa in materia informatica, in collaborazione con CONSIP Spa, anche mediante la collaborazione inter-istituzionale nella fase progettuale e di gestione delle procedure di acquisizione dei beni e servizi, al fine di realizzare l’accelerazione dei processi di informatizzazione e risparmi di spesa;
  • la promozione e diffusione delle iniziative di alfabetizzazione informatica rivolte ai cittadini, nonché di formazione e addestramento professionale destinate ai pubblici dipendenti, anche mediante intese con la Scuola Superiore della pubblica amministrazione e il Formez, e il ricorso a tecnologie didattiche innovative;
  • il monitoraggio dell’attuazione dei piani di Information and Communication Technology (ICT) delle pubbliche amministrazioni, sotto il profilo dell’efficacia ed economicità proponendo agli organi di governo degli enti e, ove necessario, al Presidente del Consiglio dei Ministri i conseguenti interventi correttivi.

Progettare una smart-city

Un bell’articolo di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, su CheFuturo.it. Lo copio integralmente qui su NuoviAbitanti, mi piace molto. L’articolo tratta della progettazione partecipata di un Ecosistema digitale per la città di Trieste.

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Vi è mai capitato di riprogettare in una settimana il sistema di comunicazione urbana di un’intera città coordinando un gruppo di 15 futuri designer e architetti? Una città, fra l’altro, che avreste sempre voluto visitare ma dove la vita non vi aveva ancora portato? A noi sì, circa un mese fa. La città in questione è Trieste  e l’occasione è stata offerta da Insegna Trieste, un workshop intensivo promosso da ISIA Firenze in collaborazione con l’Amministrazione Comunale che ha coinvolto cinque atenei: l’ISIA di Firenze e di Urbino (design), lo IUAV di Venezia e l’Università di Trieste (architettura), l’Università di Nova Gorica (new media art). Per chi fosse interessato ad aggiornamenti in tempo reale, è attiva una pagina Facebook.
Il progetto ha preso da subito una piega interessante, trasformandosi in uno scenario di near future sulle smart city dove gli open data si mischiano con le retiwireless e le tecnologie ubique. Una città tanto più smart quanto più è capace di farsi piattaforma di espressione, relazione e comunicazione oltre che opportunità per la pluralità di soggetti che la popolano, la attraversano e la usano. In una parola: un nuovo ecosistema digitale urbano in cui agire e interagire, contribuire e condividere, produrre conoscenza e remixarla, fruire di informazioni e servizi, e crearne di nuovi. Il tutto accessibile sia dallo spazio fisico della città, sia da ogni angolo del pianeta, attraverso la rete.
1. La Città Piattaforma: teoria e pratica per una Human Centered Smart City
Lo scenario proposto è quello della Human Centered Smart City, in cui la città diventa un luogo sensibile, attivo, polifonico, libero, resiliente, ricombinante, emergente. La sua intelligenza si basa prima di tutto sulle persone, sulle relazioni e le interazioni. Prendendo spunto dalle architetture delle tecnologie Internet, si può infatti immaginare che una città si trasformi in una vera e propria piattaforma aperta, su cui costruire l’Ecosistema Digitale Pubblico. Qui la città diventa un sistema aperto e accessibile grazie ad infrastrutture tecnologiche quali il cloudcittadino, le reti WiFi e meshed, i network di sensori capaci di registrare i dati ambientali in tempo reale, la mobilità, la comunicazione, l’uso dell’energia, le forme di espressione, informazione e comunicazione digitale a disposizione di persone e organizzazioni.
Nel progettare un sistema di comunicazione urbana per la città, ci siamo ben presto resi conto che sarebbe stato impossibile affrontare questo compito in maniera significativa senza assumere un approccio olistico, orientato all’innovazione radicale e sistemica. È così che abbiamo affrontato il nostro compito servendoci di uno strumento complesso: l’Ecosistema Digitale (DE, Digital Ecosystem). Nel DE, la Città Piattaforma prende corpo, realizzando un ambiente umano e tecnologico capace di aprirsi alla società civile per consentire di esprimere desideri, aspettative, visioni, opportunità, disponibilità, necessità e capacità. Il tutto cercando collaborazione, aggregazione, iniziativa, sostegno, scambio.
 Un framework per l’espressione, l’informazione e la comunicazione, in cui sono disponibili strumenti per creare contenuti e per ascoltare la vita digitale pubblica.
Il DE è come un social network di nuova generazione, capace di uscire fuori dallo schermo e collegare tanto i profili dei cittadini quanto tutte le cose che ci sono e avvengono in città. Di conseguenza, il DE permette alle persone di esprimersi (“ecco quello che mi piace fare a Trieste”), di coordinarsi (“chi vuole organizzare questa cosa con me in città?”), di fare business (“facciamo filiera su questo processo!”) e, più in generale, di trasformare saperi, capacità, opportunità e progetti in risorse disponibili per l’intero ecosistema.
Così, strumenti come Facebook escono dallo schermo del computer grazie alle tecnologie ubique e al Web 3.0 e si trasformano  in sistemi umani che appartiengono alla città e ai suoi cittadini: interconnettono persone, cose, aziende e istituzioni per creare benessere ed opportunità. Infine, c’è anche la trasparenza: nel nuovo ecosistema cittadino le informazioni sono distribuite sotto forma di open data, offerti in formati standard e accessibili che diventano una risorsa pubblica, un nuovo “commons digitale” a disposizione di tutti.
Ecco come si esprime Fabio Omero – assessore allo Sviluppo economico e Fondi comunitari, Turismo, Aziende partecipate e controllate del Comune di Trieste e promotore del progetto con Elena Marchigiani, assessore alla Pianificazione Urbana, Mobilità e Traffico, Edilizia Privata, Politiche per la casa, Progetti Complessi – secondo il quale la Città Piattaforma è anche un modo per rispondere alla crisi:
Mi ha colpito che a distanza di pochi mesi ci siamo imbattuti in due mondi apparentemente tra loro distanti, ma che alla fine hanno parlato lo stesso linguaggio. Mi riferisco al dottor Mauro Bonaretti, direttore generale del Comune di Reggio Emilia, che in un seminario organizzato dal nostro Comune ha proposto il concetto di rete tra pubblico, impresa, lavoratori e terzo settore per affrontare in questa situazione di crisi il governo dell’economia, della società e del territorio con un’idea sistemica e integrata della città. E mi riferisco al workshop dell’ISIA di Firenze e all’idea di Città Piattaforma emersa dai lavori: una città dove non solo le istituzioni, i grandi operatori e le piccole associazioni, ma gli stessi cittadini – nati, immigrati o solo in transito – mettono in rete i propri saperi, scambiano informazioni, rendono leggibile la città e in definitiva comunicano. Che poi queste reti intelligenti stiano dentro all’idea di smart city a cui il Comune – con grave ritardo – sta lavorando, è solo un’altra coincidenza. Ma essendo la terza, non è più un caso, non è nemmeno più un indizio: è ormai una prova“.
2. Il workshop
Per entrare nel vivo del progetto, è interessante seguire lo sviluppo del workshop, che Stefano Maria Bettega, Direttore di ISIA Firenze, riassume così:
L’esperienza triestina rappresenta una sperimentazione esemplare per molti aspetti. Didatticamente efficace: ibrida i saperi svincolandoli da una logica strettamente disciplinare; mette a confronto studenti provenienti da diverse strutture; obbliga alla finalizzazione del lavoro con il decisivo contributo di una committenza (l’amministrazione comunale di Trieste) che mai come in questo caso ha svolto ruolo di stimolo e indirizzo rispetto al rispetto del mandato progettuale. Le necessità della PA nel settore del design non sono ancora riconosciute in modo strutturato se non recentemente con il fenomeno open data. È merito degli amministratori triestini quindi l’aver intercettato un bisogno reale e intrapreso una strada innovativa che sono certo possa portare alla realizzazione di economie e all’ottenimento di risultati di qualità, in un processo di ricerca e produzione che coinvolge in maniera attiva la componente accademica”.
Simone Paternich, docente ISIA e responsabile della collaborazione della città di Trieste con ISIA Firenze, sorride ricordando la genesi del nome: “Quando ad Aprile abbiamo incontrato gli assessori Omero e Marchigiani ci hanno illustrato la necessità del Comune di riprogettare la cartellonistica della città (le insegne), ma allo stesso tempo di evolvere l’idea stessa di insegna aprendola all’allestimento/arredamento urbano e alle tecnologie digitali. Da qui, nel titolo, l’abbinamento di “Insegna” (insegna come cartello e insegna come insegnare) al nome della città: Insegna Trieste“.
Il workshop, strutturato in 7 densi giorni, inizia con una una serie di incontri in cui sono invitati a parlare esponenti dell’amministrazione comunale e regionale, dell’Agenzia Turismo Friuli Venezia Giulia, del Consorzio Promo Trieste, delGruppo Eurotech Spa e di progettualità cittadine di matrice associazionistica. Discussioni su temi come turismo, caratterizzazione e identità della città di Trieste, strategie di comunicazione, approcci e sistemi tecnologici hanno offerto elementi rilevanti per la comprensione della città, aiutandoci a chiarire le esigenze progettuali e il contesto locale.
Trieste è stata dipinta come una città priva di centro, una città dove non esiste un attrattore unico capace di fungere da driver per il turismo e lo sviluppo, ma una molteplicità di centri. Una città il cui valore sta principalmente nella qualità della vita (benessere diffuso), nell’attività di centinaia di associazioni culturali e gruppi di cittadini, nelle spiagge, nei castelli, nella diversità culturale, nel patrimonio ambientale ed enogastronomico. Sviluppare la capacità di passare nei prossimi anni da “un turismo” a “tanti turismi” è presentata come altamente strategica. Tutto ciò coinvolge operatori di grandi dimensioni ma anche centinaia di piccole nicchie diverse impegnate a creare esperienze per turisti non convenzionali, appassionati di sport, cucina, fantascienza o qualsiasi altro segmento sia possibile immaginare.
L’associazione Manifetso2020 – con Marco Svara e Marco Barbariol insieme all’architetto Claudio Farina – ci ha accompagnato in un peculiare tour cittadino in cui abbiamo avuto l’occasione di attraversare Trieste e i suoi paradossi, coma hano sottolineato gli organizzatori. Enormi da opportunità per realizzare progetti come l’ex-opp (l’ex Ospedale Psichiatrico di S. Giovanni) e il complesso del Vecchio Porto (qui un articolo del Corriere per i cuiriosi), fino alla possibilità di incontrare operatori della cultura e dell’intrattenimento ed esponenti dell’architettura e della progettazione. Non limitandosi a luoghi e monumenti, la concezione del tour ci ha consentito di accedere ad una visione etnografica della città, con l’osservazione sul campo dei modi e dei ritmi della vita quotidiana triestina. Dall’andare al mare alPedocin o sui marciapiedi affollati di Barcola, allo spritz, alle innumerevolicommunity e gruppi che riempiono la città. A tour concluso siamo pieni di stimoli e informazioni e si entra nel vivo del workshop.
3. La progettazione
Per la progettazione abbiamo scelto un approccio basato sulle metodologie di co-creazione e abbiamo usato una sequenza di esperienze costruttiviste, seguite da sessioni di progetto, disegno e sviluppo collaborativo. Il primo passo è consistito nella definizione dell’obiettivo: un sistema di leggibilità e navigazione dello spazio urbano. Il progetto è cominciato, quindi, dall’immaginare come fosse fatta l’architettura dell’informazione di una città come Trieste. Di quali informazioni hanno bisogno le persone quando sono lontane dalla città? Quali mentre viaggiano per arrivare a Trieste? E quando giungono in città? Di quali informazioni necessitano quando vi si fermano per un minuto, un’ora, un giorno, un mese, un anno o per tutta la vita, seguendo le traiettorie del turismo, del lavoro, della famiglia, del desiderio, delle emozioni, delle passioni, o della scienza?
Come ci si orienta in città dal centro di una candida piazza, da dentro un parco, dalle mura di un castello, dal marciapiede del porto o da una larga strada che attraversa edifici di archeologia industriale abbandonati? Come è fatto un sistema di navigazione della città, capace di rendere leggibili, visibili e accessibili e interattive queste tipologie di informazione e le loro declinazioni? Per capirlo abbiamo applicato le metodologie dell’Architettura dell’Informazione (AdI) nella progettazione della nostra Human Centered Smart City: la Città Piattaforma.
Lavorando sull’AdI ci siamo confrontati innanzitutto con la necessitè di descrivere una “città semantica” in cui ogni elemento fosse collegato agli altri attraverso legami di significato. In maniera simile a come si fa progettando un sito web, ci si è domandati come poter realizzare un sistema di navigazione semantica per la città, articolato su tre livelli:
  • globale – navigare la città secondo i grandi temi, quali i servizi, la cultura, l’ambiente, la storia, il divertimento;
  • locale – scelto un tema: cosa offre la città a riguardo?
  • contestuale – “ok, sono qui: cos’altro c’è?”, per trovare servizi correlati, cose compatibili o simili, o anche solo vicine.
Questa strategia determina una visione innovativa della città, in cui le informazioni digitali e fisiche si incontrano in uno spazio pubblico nuovo, pensato per visualizzarle attraverso una molteplicità di media, strumenti e modalità differenti. Ad esempio, combinando i segni grafici classici (ad esempio, la cartellonistica) con le tecnologie che si insinuano nel tessuto urbano in modi diretti (ad esempio, attraverso l’uso di app per smartphone, chioschi digitali, QRCode, RFID e così via) e in altri più inaspettati quali le esperienze di interazione naturale e gestuale.
4. Risultati: il prodotto
L’ultima parte del workshop è stata, infatti, dedicata alla progettazione di alcuni concept che rappresentassero la visione globale del progetto. Il risultato non poteva che avere una forma Ecosistemica. Già dalla definizione del target è emersa la metafora della “Città della Coda Lunga”. Le caratteristiche stesse della città, assieme all’idea del passaggio “dal turismo ai turismi”, ci hanno portato a configurare il nostro target come la somma delle infinite nicchie, grandi e piccole, che generano la domanda e l’offerta di mercato, proprio come teorizzato a suo da Anderson nel suo noto articolo “The Long Tail”.
Trieste come “Amazon”, dunque: una piattaforma in cui operatori di ogni dimensione possano trovare uno spazio di esistenza e azione. Tutto ciò è abilitato dall’esistenza dell’Ecosistema Digitale (DE) che, come detto in precedenza, è stato immaginato come un social network pubblico di nuova generazione che esca dallo schermo del computer, capace di interconnettere persone, organizzazioni, luoghi e processi della città.
Accedendo alla piattaforma gli operatori possono pubblicare tutte le proprie iniziative all’interno dell’ecosistema: ogni elemento pubblicato – tra alberghi, eventi, ristoranti e quant’altro – viene corredato da un insieme di informazioni e metadati, che consentono di classificarlo nello schema dell’Architettura dell’Informazione della città. Gli operatori, inoltre, possono indicare le relazioni che intercorrono tra i vari elementi, contribuendo alla formazione della Città Semantica. All’altro capo del diagramma, le persone (tra cittadini, residenti e turisti) possono beneficiare di diverse modalità per navigare la città, inclusa una modalità casuale per perdersi in maniera intelligente nella città. Avete presente Stumbleupon? Pensatelo applicato ad una intera città che, se volete, potete navigare randomicamente.
Nel corso dell’esperienza in città, le persone possono di nuovo partecipare all’arricchimento dell’ecosistema, pubblicando valutazioni, feedback, emozioni o altri contenuti quali video e immagini. L’ecosistema fornisce infine agli operatori (ad esempio il Comune) anche una modalità di fruizione dashboard, tramite cui osservare la vita della città e modulare i parametri di comunicazione e interazione, al fine di ottimizzare le esperienze e coinvolgimento dei cittadini. Una volta definito il framework generale, abbiamo progettato diversi modi in cui l’ecosistema si manifestasse nello spazio fisico della città.
Siamo partiti dalla segnaletica urbana, capace di offrire alla vista una rappresentazione chiara del sistema di navigazione cittadina. I segni grafici utilizzati, inoltre, sono usabili attraverso smartphone. Sono, infatti, dei QRCode e dei marker per accedere alle informazioni digitali in tempo reale associate a luoghi ed eventi all’interno dell’ecosistema. Abbiamo poi immaginato diversi tipi di esperienze interattive. Alcune, come il grande schermo urbano mobile che permette di interagire con l’ecosistema digitale, sono da considerarsi dei landmark mobili della città. Uniscono alla suggestione visionaria la possibilità di attivare interessanti dinamiche di spostamento e diffusione dei centri di interesse della città, così da creare dinamiche di sviluppo diffuso (pensate ad un “Colosseo mobile” che l’amministrazione può spostare da una zona all’altra della città).
Altre, realizzano funzioni più espressamente dedicate alla pubblica utilità, fornendo esperienze interattive che consentano di utilizzare le informazioni in tempo reale in maniera accessibile ed usabile. E, infine, gli Experience Spot: questi dispositivi a basso costo sono disseminati per la città e permettono di realizzare micro-esperienze sensoriali capaci di ospitare informazioni utili tanto quanto piccoli segreti, sorprese e giochi. Distribuendo i piccoli supporti fisici degliExperience Spot e mettendoli in rete, la Città Piattaforma consente di ricombinare relazioni sociali e di creare reti distribuite in modo diffuso sul territorio triestino. Tutti i supporti sono collegati tra loro e hanno la possibilità di scambiare e pubblicare informazioni in tempo reale, generando una nuvola di dati che si estende su tutta la città.
Inoltre, un apposito kit consente alle persone di progettare nuove micro-esperienze, e di distribuirle sul territorio, anche organizzando innovativi modelli di business. Ma non solo: l’uso dei kit è insegnato a scuola: giocando da piccoli, e fino all’università, si impara ad usare la città, i suoi dati, le sue informazioni e l’intelligenza espressa dalla sua popolazione per inventare, costruire, visualizzare, remixare, attivare coordinare luoghi, risorse, visioni, desideri, emozioni ed aspettative. Il cerchio si chiude con la presenza di un “logo generativo”, a ripensare radicalmente il concetto di  identità visiva della città. Ad ogni elemento pubblicato nell’ecosistema viene associato in maniera automatica un segno, un marker univoco che permette sia di identificare l’elemento (due differenti elementi avranno markerdifferenti), sia di utilizzarlo per accedere in realtà aumentata alle informazioni digitali associate all’elemento e aggiornate in tempo reale.
Il marker è un segno grafico generativo che codifica in maniera visuale le principali informazioni dell’elemento pubblicato: il titolo, la location, la dimensione temporale e la sua caratterizzazione all’interno della architettura dell’informazione della Città. Un logo, ogni volta differente e unico, emerge dalla vita dell’ecosistema diventando una nuova risorsa per i suoi attori.
Ciò significa che, ad esempio, un operatore  può usarlo come certificazione (essere parte dell’ecosistema digitale di Trieste) e in altri modi interessanti. Pensiamo ad un evento: il marker-logo è fatto per essere facilmente riconoscibile da una app e viene stampato sul materiale informativo (poster, locendine etc). Inquadramdolo con lo smartphone, si accederà alle informazioni aggiornate in tempo reale in base al cloud cittadino e alle conversazioni sui social network che parlano di quell’elemento dell’ecosistema (che siano recensioni su Trip Advisor, conversazioni su Facebook e Twitter o immagini su Instagram). Il tutto previsto a livello di piattaforma cittadina.
5. Perchè questa esperienza è importante
Dall’analisi e dal racconto di questo progetto emergono una serie di riflessioni estremamente innovative riguardo modi di concepire, vivere, utilizzare una città. Queste mettono in luce alcuni elementi rilevanti nella definizione smart city, qui presentata nell’accezione di “human centered smart city”:
  • l’idea di Ecosistema Digitale come nuova infrastruttura pubblica cittadina: un ambiente umano e tecnologico accessibile in maniera ubiqua, che diventa unframework di espressione e di ascolto alla base della vita e dei processi della città;
  • l’idea di Città Piattaforma in cui non solo è possibile accedere ed utilizzare informazioni e servizi, ma soprattutto attivare i cittadini e gli operatori al fine di crearne e realizzarne di propri, sia direttamente che attraverso remix/ricombinazione di informazioni, servizi, competenze ed opportunità presenti nella città;
  • la Città-Cloud che, al pari di un sistema come Amazon, consente a operatori grandi, piccoli o piccolissimi di utilizzare e coordinare l’ecosistema per creare impresa, cultura, emozione, poesia, politica, divertimento. Non un centro singolo, ma le molteplicità potenzialmente infinite che riescono ad esprimersi attraverso la Città Piattaforma;
  • la città Open Source, nel senso che l’amministrazione rilascia le API (Application Programming Interfaces) cittadine e un vero e proprio kit per lo svilupposoftware (SDK), offerto ai cittadini come strumento per la libera creazione di applicazioni, esperienze, operazioni creative ed artistiche, di servizi, culture, coordinamenti, filiere nuove e inaspettate. Un elemento talmente importante da essere intgrato nell’intero ciclo di vita scolastico, proprio come si impara a leggere, a scrivere e a far di conto.
E sull’immagine di una classe di bambini intenta a smontare e rimontare il nuovo SDK cittadino insieme ai propri maestri, vi lasciamo con una frase di William Mitchell, nel suo bellissimo “The City of Bits”.
Le strutture civiche e le disposizioni spaziali che emergono nell’era digitale modificheranno in profondità la nostra possibilità di accedere ad opportunità economiche e ai servizi pubblici, le tipologie e il contenuto del discorso pubblico, le forme dell’attività culturale, l’esercizio del potere, e le esperienze che danno forma e tessuto al nostro quotidiano”.
Roma, 31 agosto 2012
ORIANA PERSICO E SALVATORE IACONESI

Obama sul web, scrive e risponde

Barack Obama su Reddit risponde realtime alle domande che gli vengono poste. Surprise chat. Chiedetemi quello che volete.
Dico, che idea di democrazia avete voi, adesso? Magari il fatto che accadano queste cose potrebbe instillare idee nuove di partecipazione civica e gestione della cosa pubblica, no?
La “democrazia” è un valore, è un concetto che vive nelle nostre teste. Se lo consideriamo auspicabile, adottiamo una forma di governo del territorio che con strumenti e attori sociali cerca di avvicinarsi il più possibile al valore ideale. Che credo sia il dare la possibilità a chiunque di esprimere la propria opinione sulla qualità del benessere sociale raggiunto, e poter suggerire ottimizzazioni nel funzionamento della cosa pubblica.
Ma cento anni fa le strade erano sterrate. La Pubblica Amministrazione, per come la pensavamo, era un’altra cosa. Giorni di cavallo, ecco come pensavamo, o treni per Roma. Perché le tecnologie della comunicazione condizionano la pensabilità della realtà. Certe idee nascono solo quando si apre una porta. E ci sono le Tecnologie della Democrazia. Anche inventare i partiti, come strumento del consenso della collettività, è tecnologia. Una volta servivano intermediari (i partiti), che coagulassero certi flussi di pubblica opinione, scuole di pensiero, organi di stampa. Lo strumento che abbiamo inventato, i sistemi elettorali. Mille possibilità. E parlo solo di quelle pre-Internet.
Ora parliamo col Presidente, lui ci risponde. Proponiamo leggi a una comunità, inneschiamo discussione, la proposta viene ritenuta valida nell’interesse della collettività, dalla collettività stessa nella sua partecipazione civica su piattaforme web municipali o governative. Si vota, anche connettendosi. Disintermediazione, una delle parole chiave del web. Quali modelli servirebbero, basati su qualcosa che funziona un po’ meglio di cavalli, telegrafo, telefono, televisione, telex, fax, telefono wireless. Che poi le tecnologie della Democrazie sono le Tecnologie della Comunicazione, usate con un fine. Si possono fare dei progetti pilota? Sperimentazioni locali, per vedere come varie soluzioni riescano o meno a interpretare correttamente il contesto, e permettere forse di fare un piccolo passo in avanti verso quell’ideale di democrazia?
Question:
We know how Republicans feel about protecting Internet Freedom. Is Internet Freedom an issue you’d push to add to the Democratic Party’s 2012 platform?
Answer:
Internet freedom is something I know you all care passionately about; I do too. We will fight hard to make sure that the internet remains the open forum for everybody – from those who are expressing an idea to those to want to start a business. And although there will be occasional disagreements on the details of various legislative proposals, I won’t stray from that principle – and it will be reflected in the platform.

Arredo urbano per aree connesse

Un’isola urbana, materiale e connessa con l’immateriale. Attrezzata, innanzitutto concettualmente, per abitare con dignità moderna i luoghi urbani. Esteticamente gradevole, o per lo meno il mio plauso per aver cercato di uscire da figuratività eccessivamente connotata di tecnologia e di futuristico, che spesso diventa una cosa fredda, disumana, disumanizzante.
Qui  http://www.mathieulehanneur.fr/projet_gb.php?projet=174#  l’idea progettuale dell’Escale Numérique, già installata sugli Champs-Elysées a Parigi. 
Via Mante, Eraclito.
 

Aggiungo una riflessione sulle smart-maps, “Self-Mapping. Mappare le città: fra geoblogging, pratiche di progettazione urbana ed etnosemiotica”, trovata qui su Augenblick, il blog di Ocula.

Social Identity Card

Un articoletto su ZDNet sulle carte di identità digitali rilasciate dai social, Facebook e Google+.
Toccherà farne una per ogni social? O qualcuno si metterà d’accordo? Un ente terzo? L’anagrafe mondiale?
Qui c’è uno su Panorama che dice che è ora di basta all’anonimato. Solito articoletto estivo.
Fate quello che volete, io voglio che l’anonimato resti possibile e garantito, come garanzia di democrazia, come perlustrazione libera di ciò che possiamo essere e diventare, e dieci anni fa non sapevamo potessimo essere in quanto umani connessi.
Al limite, anonimato protetto, ma ho dei seri dubbi, come Mante scriveva anni fa. E subito qualcuno scopra il sistema per eludere il sistema. E più software per criptare i messaggi, per tutti, quando abbiamo voglia.

La Rete come una sauna come una spiaggia

Una tipa, la vice-ministro della gioventù del Costarica.

Si mette in mutande e reggiseno, lei è proprio formosa, si stende sul letto talvolta ammiccando e manda un videomessaggio tramite Youtube al suo uomo, dice che lui le manca, che lo fa per lui, che lo ama. Un video pubblico, si può vedere anche qui da Pasteris, dove ho letto la notizia. Poi si è dimessa dall’incarico, e francamente non so perché. Robe di pubblico-privato, immagino, di reputazione, di moralità, di adeguamento dei comportamenti al ruolo sostenuto professionalmente. Adeguamento? C’è un codice da qualche parte, che stabilisce la giusta correlazione, quella appropriata. Le parole da pronunciare, i comportamenti da tenere in quel contesto devono essere ben formati, coerenti con un sistema di significazione stabile e stabilito, e nel corso del processo di comunicazione devono cadere nelle situazioni, trovar vita e senso, in modo da non contraddire alcune regole enunciative, da non compromettere la conversazione, in modo da garantire un riflesso sul discorso di quei valori che intendo trasmette insieme al mio dire. Cose che non vengono dette, ma accompagnano poi immancabilmente l’interpretazione. Veicolo un mondo nella mia visione del mondo, anche quando sto semplicemente chiedendo un caffè al bancone di un bar.

E una vice-ministro non può dire “ti amo” al suo uomo con un video pubblico in biancheria intima, e poi ragionare di politiche giovanili e comportamenti educativi. Capisco.

Ma la domanda è: la tipa è cretina? Si rendeva conto di quello che stava facendo? Ok, forse era un po’ brilla, ma sapeva giudicare le conseguenze delle sue azioni? Magari per lei è un comportamento abituale, metti che sono dieci anni che videochatta in webcam con amichetti, la sua soglia di praticabilità del gesto era bassa, per lei è una cosa normale.

Per milioni di persone su questo pianeta videochattare è una cosa normale, da anni. E quindi c’è una norma da qualche parte, che si è modificata.

Sì, voglio arrivare lì. L’ondata di moralità che vive nei pensieri del vice-ministro (spingendola a dimettersi o a accettare di) è la stessa che vive diffusa nei saperi condivisi della collettività del Costarica, e assomiglia parecchio alla nostra, visto che condividiamo molti fattori culturali – il Costarica ci è più comprensibile di Sumatra, per dire – e quindi possiamo a nostra volta esprimere giudizi sull’adeguatezza di quel comportamento, con codici simili. Ma quell’insieme di pensieri sillogismi argomenti mezzeverità esempiconcreti che costituisce il nostro concetto di “moralità” non si è adeguato alle nuove possibilità dell’espressione di sé offerte dai media digitali. Non si poteva mostrare in cinque minuti a tutto il mondo un video girato nella nostra camera da letto. Oggi sì, e a moltissimi piace, lo fanno quotidianamente, e sono cambiate le soglie di ciò che è ritenuto conveniente e sconveniente fare, di ciò che è pubblicabile. Si può fare, quindi si fa. Poter praticare quella forma dell’espressione, quella nuova parola che tutti possiamo pronunciare essendo ormai stabilmente entrata nel dizionario e nell’enciclopedia condivisa della collettività mondiale, significa trovare sul piano del contenuto qualcosa che ora può essere detto, una sostanza del contenuto che trova una sua forma nell’adeguarsi alle possibilità espressive, rivelando cose degli individui e del mondo che prima semplicemente non potevano essere dette, mancando le parole per dirle.

Una videochat pubblica o pubblicata è un elemento in più nella grammatica delle possibilità espressive della specie umana, e mostrerà lati dell’animo umano mai prima esplorati da nessuna arte o pratica sociale.

E quanti sono, al mondo, quelli che ancora dentro di noi chiamiamo esibizionisti? Pullulano in questi universi di discorso valori e configurazioni discorsive affettive legate alle aree semantiche del pudore, dello  smascheramento, all’identità personale e sociale svelata e rivelata, della reputazione, della normalità, del socialmente adeguato. Tutta roba che dovrà adeguarsi, perché i valori sono liquidi e si adeguano ai contenitori.

Un mondo fatto di gente che in mutande parla in pubblico, di cose pubbliche o di cose private. E nessuno si stupisce. D’altronde qualcuno diceva che se alle riunioni di governo o del CdA di un’azienda fossimo tutti nudi, le cose andrebbero diversamente. I finlandesi (tutti, li ho contati) si vantavano di questo: le riunioni di governo dentro la sauna, tutti nudi e tutti uguali. Non hai la camicia più costosa della mia, non indossi nulla per migliorare agli occhi degli altri il tuo prestigio, corone o scettri o pellicce o abiti di alta sartoria. E la Rete ci permette di andare mezzi ignudi dappertutto, e non genera panico sociale. Come se quel vice.ministro fosse andata in spiaggia esponendo esattamente gli stessi centimetri quadrati di pelle, e avesse pronunciato quel saluto affettuoso davanti a una videocamera di un tg nazionale, e nulla sarebbe successo, forse le avrebbero detto che sarebbe stato più consono indossare un pareo, ma in fondo non farebbe scandalo. La stessa gente che la mattina incontri in giacca e cravatta in ufficio potresti incontrala in mutande in spiaggia, e non sembra strano. Una donna piega una gamba per mettersi la crema solare, e fa un gesto che mai farebbe in ufficio, per timore di essere presa per esibizionista dall’ormone bollente. Cambia il contesto, tutto torna ok. Abbiamo dei codici, ci sorreggono, dislocano il significato e sono sensibili al contesto.

Quelli che si vogliono impegnare nel costruire la propria identità digitale arredano con cura i propri spazi, dai colori del blog alle immagini sui social, facendo personal brand reputation, che abbiano dodici anni o settanta, che ne siano consapevoli o meno. E’ un tratto della personalità aver cura dell’ambiente di vita, dipende da cultura personale e sociale in cui siamo cresciuti. Alcuni ci mettono molte energie, alcuni semplicemente pubblicano cose secondo i gusti personali, e poi la reputazione emerge nel tempo, come linea di melodia infinita del nostro vivere in rete. Ma non puoi millantare reputazione. Posso sapere cosa hai fatto in rete e fuori in passato, il tuo stile di conversazione sui social, la qualità delle tue pubblicazioni in Rete, la rete sociale in cui sei coinvolto. In Rete sei uno che esprime opinioni, sei un punto di vista e sei prezioso proprio perché unico, sei un nodo di soggettività che agisce conversazione, costruisci società della conoscenza, offri informazioni e riflessioni. Su queste basi io ti giudico, in Rete. Nel tuo partecipare, sostenere una posizione, controbattere, saper cercare collaborativamente nel dialogo il bandolo di una matassa di ragionamenti, su una BBS o su un forum o nei comment di un blog o su un social.

E per me, puoi anche essere nudo. Anzi, forse meglio.

Essere in grado di

Ok, le smartcity. Ma qui si tratta delle smartcommunity. Le comunità vanno enpowerate nella consapevolezza di sé, nella motivazione di singoli e gruppi a partecipare, vanno connesse e interconnesse sul piano tecnologico e relazionale, servono piazze strade caffè e salotti, occorrono dei luoghi di visibilità pubblica delle forme sociali digitali. E delle mappe, segnaletica, percorsi emozionali, palestre di cittadinanza.

Vanno diffuse delle abilità nella popolazione, va promossa una competenza in ogni cittadino riguardo al sapere fare (e magari, al sapere di saper fare), riguardo al saper fruire del territorio fisico dandone immagine e verbo sul territorio digitale, e saper partecipare a pubbliche discussioni che possano contribuire a migliorare la qualità dell’abitare.

Forme di alfabetizzazione digitale strutturata e formale, mediante agenzie formative e utilizzando i media tradizionali. Poi se molte cose sono in Rete e le persone scoprono la loro utilità o partecipano a qualsiasi iniziativa ludica o professionale, altre competenze nasceranno dalla semplice frequentazione e comprensione dei meccanismi tecnologici e sociali della Rete, perché nessuno ha imparato Internet (o anche a usare il computer) da un manuale d’istruzioni.

Quindi, rendere appetibile l’uso della Rete, per far andare la gente online, e disseminare competenze come effetto laterale. Un po’ come quando si dice che Facebook ha alfabetizzato (ahia) l’italia.

Un luogo pubblico

Cosa dovrebbe esserci, quindi sul web territoriale? Contenitori? Contenitori di narrazioni spontanee, nuvole di lifestreaming di singoli e organizzazioni sociali che s’intersecano e mostrano l’esperienza di quel territorio, nelle parole e nei punti di vista di quelli che lì ci abitano e ne danno rappresentazione, e di quelli che viaggiando lo attraversano, come preziosa fonte di sguardi e tracce di chi aggiunge la propria esperienza allo storytelling di un comunità locale.
E dovrebbero forse essere “pubblici”, promossi da Pubbliche Amministrazioni, questi contenitori? Contenitori per l’espressione libera di tematiche legate alla qualità dell’abitare, sforzo collettivo e partecipativo per l’ottimizzazione a volte semplicissima di un sistema territoriale, o per una modalità di dialogo con le istituzioni da parte di un normalissimo cittadino digitale. Palestre di cittadinanza digitale, e si intendono qui le scuole – presso cui simili percorsi di apprendimento sulle competenze digitali sono da considerarsi ormai necessari per la formazione dei futuri cittadini, oppure luoghi web pubblici e ufficiali come luogo di visibilità e conversazione di progettazioni sociali innovative. Spazi digitali progettati e arredati con sapienza, in grado di offrire esperienze di fruizione appaganti e motivanti, diffondere prassi concrete di civismo, ambienti digitali capaci di portare le collettività iperlocali a partecipare a discussioni e suggerire ai pubblici decisori luoghi cittadini di intervento, o migliorìe nei processi trasformativi e distributivi dell’informazione e dei servizi di un territorio.

Cultura digitale a scuola

Ma credo che l’elemento essenziale per costruire la nostra narrazione su scuola e nativi passi dal cominciare a raccontare di un ambiente di apprendimento aperto in cui gli spazi personali e sociali fuori dalla scuola, quelli ricchi di interfacce sociali come i social network, i wiki, ecc. stanno costruendo, siano incorporati nelle dinamiche educative e diventino un tema del dibattito pubblico e interno alle classi.


Da un bell’articolo di Boccia Artieri, con molti link interessanti, intitolato “Scuola 2.0 e nativi digitali”, si arriva alla notizia di una conferenza a Roma, “Un nuovo alfabeto per l’Italia” per affrontare la tematica della rivoluzione digitale nella Scuola.



Amministrare 2.0

L’Assessore per l’Innovazione di Udine, Paolo Coppola, ha tenuto una relazione al convegno ForumPA di Roma dei giorni scorsi illustrando la tematica “Amministrare 2.0”, sia dal punto di vista della cultura e delle competenze digitali richieste alla “macchina” della Pubblica Amministrazione e ai singoli cittadini, sia mostrando quanto Udine ha fatto finora e intende realizzare in futuro per costruire una vera e concreta comunicazione bi-direzionale tra Comune di Udine (qui l’elenco dei servizi 2.0 attivi sul sito comunale) e cittadinanza.

Punto cruciale del ragionamento pare essere la ricerca di forme di attivazione della partecipazione libera dei cittadini, mettendo a punto dei modelli e dei format di comunicazione che siano semplici e diano soddisfazione – qui si intende mettere l’accento sulle qualità “affettive” di coinvolgimento, quali meccanismi di gamification e risveglio del senso civico – e quindi riescano a suscitare una sorta di enpowerment della comunità locale, muovendo quest’ultima a esprimersi sulle scelte per l’amministrazione del territorio.