L’autore come progettista responsabile delle narrazioni aumentate, e il nuovo ruolo educativo rispetto alla produzione letteraria
Nell’orizzonte contemporaneo della scrittura, il ruolo autoriale si trova a navigare un paesaggio inedito e affascinante, dove la progettazione del prompt si configura come la nuova frontiera dell’invenzione letteraria. Non si tratta più soltanto di “scrivere”, ma di orchestrare un dialogo raffinato con l’intelligenza artificiale, in cui il prompt diventa la chiave di accesso a un ventaglio di possibilità narrative, stilistiche e concettuali. In questa dinamica, il soggetto umano si trasforma in designer di mondi potenziali, architetto di itinerari semantici che la macchina percorre, esplorando e materializzando esiti testuali spesso imprevedibili.
Il processo iterativo di raffinamento del prompt – fino al meta-prompting – si rivela allora come una pratica di curatela e responsabilità, in cui l’autore non abdica, ma si reinventa come regista e interprete di una co-creazione. La responsabilità autoriale, lungi dall’essere dissolta, si riconfigura: non più mero proprietario del testo, ma garante della sua intenzionalità, della pertinenza e della qualità dei risultati prodotti dall’IA. La riflessione filosofica, da San Bonaventura a Ferraris, invita a non confondere la macchina con il soggetto: la tecnologia resta uno strumento, potente ma privo di intenzionalità, mentre il filtro dell’immaginario collettivo e la capacità di orientare il senso rimangono prerogative umane.
Sul piano educativo, questa nuova grammatica della creatività offre un terreno fertile per la sperimentazione didattica. I laboratori di scrittura, lungi dal limitarsi all’analisi di testi compiuti, possono trasformarsi in officine di esplorazione meta-letteraria, dove la progettazione del prompt diventa occasione per sviluppare competenze di design, pensiero critico e consapevolezza dei generi e delle strutture narrative. Gli studenti imparano a navigare lo spazio delle possibilità offerte dagli LLM, confrontando varianti, valutando strategie di prompt e affinando collettivamente le tecniche di interazione con la macchina. In questo contesto, la valutazione non si concentra solo sul prodotto finale, ma anche sul processo: la capacità di articolare requisiti, di esplorare alternative, di esercitare una curatela responsabile sugli output generati.
La prospettiva educativa che si delinea è dunque quella di una formazione orientata non alla competizione con l’IA, ma alla valorizzazione delle competenze tipicamente umane: originalità concettuale, giudizio critico, sensibilità etica e culturale. L’adozione di un approccio esplorativo nei laboratori scolastici non solo prepara gli studenti alle sfide di un ecosistema informativo sempre più complesso, ma li invita a riconoscere nella scrittura ibrida uomo-macchina una straordinaria occasione di crescita e di ridefinizione del proprio ruolo nel mondo della produzione culturale.
In definitiva, il design del prompt si afferma come la nuova arte della soglia: luogo di incontro tra intenzionalità umana e generatività algoritmica, tra responsabilità e aleatorietà, tra tradizione e futuro. È qui che l’autore, lungi dall’essere esautorato, si scopre regista di possibilità, chiamato a esercitare una responsabilità creativa che si rinnova, con entusiasmo e lungimiranza, nell’era dell’intelligenza artificiale.
L’IA è tra noi, cognitivamente e esperienzialmente e pragmaticamente, un agente catalizzatore che innesca una modificazione alchemica radicale della società e della cultura umana imponendo una riconsiderazione dei fondamenti di conoscenza, apprendimento e produzione culturale. Abbiamo nell’Opera una ossidazione, calcinazione, sublimazione dell’intero sapere dell’umanità, quindi una morte, una trasformazione e una rinascita dell’alchimista stesso, nel suo cammino verso l’individuazione. L’assunzione di una posizione neutrale è impraticabile; è necessario pronunciarsi ora per una integrazione consapevole e critica di queste entità macchiniche, del destino tecnologico di una umanità che è sempre stata tecnologica, altrimenti non sarebbe. Scimmie con un bastone e un linguaggio.
Occorre un’altra volta superare la dicotomia tra apocalittici e integrati, dibattito sempre più sterile, dove ogni esitazione nell’adottare strumenti IA per la produzione editoriale o l’apprendimento appare come una difesa di rendite di posizione che nulla ha a che vedere con la qualità della conoscenza, e dobbiamo riconoscere il potenziale dell’IA senza cedere all’acriticità. Ogni artefatto antropico e culturale mai realizzato va considerato nutrimento essenziale per lo sviluppo di IA globali e condivise. Davanti a noi c’è un futuro in cui LLM accessibili a tutti costituiscono il subconscio dello scibile, dove la Rete ne è l’infrastruttura e il sistema operativo dell’umanità, dove emerge la coscienza come autonarrazione, dove la conoscenza non deve più essere appannaggio di élite, ma patrimonio comune garantito per tutti. Gli strumenti non si limitano a velocizzare l’editing o a suggerire correzioni stilistiche: organizzano, sintetizzano, esplorano lo sterminato scibile umano ora in grado di accrescersi esponenzialmente, rendendo la conoscenza accessibile, navigabile, personalizzabile. Le specializzazioni inevitabilmente potranno essere soggette a logiche di mercato, ma l’accesso al sapere di base – l’accesso alla Rete, l’accesso ai motori generativi – va garantito come diritto inalienabile dei cittadini, tutelato da agenzie pubbliche e leggi fondate su diritti della persona, perché la conoscenza è un bene comune come le biblioteche o l’acqua o le reti tecnologiche.
Internet ci ha mostrato che ciò che importa è la capacità di generare significato e suggestioni di testo, immagini, brevetti, opere architettoniche con scoperte e invenzioni, non la presunta autorità di chi li ha prodotti. Mi interessa cosa dici, non chi sei. Mi interessa l’intelligenza connettiva e collettiva, la partecipazione del consorzio umano alle decisioni sulle strade da percorrere. L’auctoritas è un feticcio obsoleto, un ostacolo al progresso della conoscenza. Anche un premio Nobel può errare. Il sapere non è questione di titoli, ma di validità, rilevanza contestuale, considerazione degli effetti del mio dire e fare, capacità di illuminare il reale, condivisione e controllo intersoggettivo.
L’abbondanza straordinaria di dati supera da decenni le nostre capacità di elaborazione. Negare l’accesso a questa ricchezza ora resa visibile dalle IA equivarrebbe a voler cercare di imbrigliare le sorgenti di un fiume dove l’acqua, la conoscenza, troverà comunque la sua strada. E noi siamo assetati di conoscenza. Solo nutrendo le intelligenze artificiali con il patrimonio collettivo dell’umanità – senza riserve, senza recinti – potremo trasformare la società della conoscenza in una società della comprensione, scenario dove la qualità dell’informazione e della conoscenza emerge dalla libera circolazione delle idee, dal confronto aperto e pluralistico, dal discernimento critico individuale. Non relativismo, non determinismo, ma riconoscimento che la ricerca della verità – sempre asintotica, approssimata, epistemologicamente vagliata – è un processo dinamico e collettivo, un work in progress condiviso e intersoggettivo, tra umani e macchine, tra umani e oralità, e scrittura, e stampa, e media elettronici, e LLM e estrapolazione statistica di occorrenze pertinenti, dentro sempre mutevoli isotopìe interpretative del senso della narrazione situazionalmente collocata in una enunciazione presente, concreta, reale.
Il futuro mostra un algoritmo pronto a inglobare e rielaborare l’intero patrimonio intellettuale dell’umanità, e a tutto dovremmo dargli accesso, con finalità eticamente individuate e con metodi rispettosi, certo non monetizzato ingordamente da piattaforme finanziarie già al di là dei sistemi legislativi mondiali. Altrimenti un’altra volta si tratterà di cercare di governare il processo d’innovazione e trasformazione della specie umana – come le filiere industriali, l’energia elettrica, la chimica ottocentesca, il nucleare, i mass-media, il digitale e internet – cercando di orientarci al progresso sociale, all’emancipazione e a una società più giusta e consapevole, magari meglio di come abbiamo fatto in passato. La mia generazione ha avuto il compito di traghettare lo Scibile e la Cultura umana, l’essere e il fare, nei territori e nelle relazioni interpersonali gruppali e collettive del Digitale, esplorando e redigendo le prime mappe per chi con il digitale in quei territori elettronici ci è nato: ora l’avventura -già della generazione nuova – sarà plasmare un futuro in cui l’IA sia un partner prezioso, un Aiutante nella nostra ricerca di significato, del senso dell’abitare degnamente su questo pianeta.
Contrapponiamo l’abbondanza e la scarsità quali meccanismi fondamentali del funzionamento soprattutto economico della società, e molte riflessioni sono state scritte sul valore dell’attenzione in quanto merce e bene scarso: la nostra attenzione è ciò che le piattaforme digitali si disputano per catturarci e tenerci prigionieri nei percorsi di senso delle frequentazioni online quotidiane, percorsi ritagliati con cura per ognuno di noi, secondo interessi cognitivi e affettivi, secondo precise ergonomie dell’interfaccia e sempre migliori profilature utente.
Forse tutto questo è un po’ semplicistico. O almeno, la riflessione potrebbe non cogliere certe interessanti sfumature, cullandosi in simile pretesa linearità d’azione. Per porre in dubbio, sottoporre a vaglio critico questa spiegazione e narrazione sul funzionamento delle piattaforme, comprese quelle ormai numerosissime dedicate all’Intelligenza artificiale o meglio LLM, dovremmo in qualche modo innanzitutto smettere l’abito di proiettare il ruolo del “capro espiatorio” sulle tecnologie, e liberarci da certi comodi schemi interpretativi dove colpevolizziamo con leggerezza e facilità gli algoritmi biechi e opachi, intrinsecamente subdoli. Potremmo ragionare, invece, del nostro continuare ad additare e accusare i comportamenti delle piattaforme e delle Intelligenze artificiali – incolpandole della nostra tossicodipendenza – come se quelle fossero soggetti autonomi capaci di intendere e di volere, provvisti per giunta di una propria moralità, assiologie di valori. La qual cosa non è.
Sian ben chiaro: allo stato attuale delle cose in una Intelligenza artificiale non vi è intenzionalità comunicativa.
Risulta una forzatura attribuirle il ruolo di Soggetto quale attore ratificato della comunicazione, o ancora più curioso ipotizzare e cercare di indagare una soggettività banalmente emergente da calcoli statistici probabilistici.
Potrebbe invece rivelare scorci interessanti guardare a queste pratiche di soggettivazione (antropomorfizzazione?) come specchio delle nostre abitudini cognitive ed esistenziali nell’organizzare la nostra quotidianità, compresa questa umanissima abitudine a proiettare la “colpa” all’esterno di noi, individuando appunto un capro espiatorio, per poi rimuovere dalla coscienza l’intero meccanismo di difesa.
Se gli algoritmi sono subdoli perfidi e maligni, se il design dell’interfaccia è manipolatorio, allora ci viene “naturale” giudicare le piattaforme come entità metafisiche, divinità imperscrutabili nelle loro azioni e oscure nelle loro finalità: proprio questa è una narrazione – dove il testo è cosparso di configurazioni discorsive coerenti e orientate, in una isotopia del senso che ci viene “naturale” individuare, e questo è esattamente il problema – piuttosto rassicurante per la nostra psicologia, benché antropologicamente ingenua per lo stesso fatto sopra espresso, ovvero per l’attribuzione di intenzionalità espressiva e poi manipolatoria (una personalità) a strumenti che operano semplicemente per ottimizzazione statistica, in modo inconsapevole.
Quindi: dietro ogni architettura logica siamo portati a individuare una precisa intenzionalità progettuale. al limite della pareidolìa. Ogni aggregazione di dati a sua volta è il risultato di una determinata selezione metodologica. Ogni meccanismo di cernita incorpora una specifica risoluzione operativa. E qualsivoglia risoluzione produce conseguenze concrete. Derubricare tale complessità a una generica esortazione a integrare principi morali nei processi algoritmici denota una sottovalutazione delle dinamiche in atto.
Tutto questo avviene perché l’apparato tecnologico costituisce attualmente uno dei principali teatri di contesa del potere. Chi detiene la facoltà computazionale, chi stabilisce i parametri di raccolta delle informazioni, chi definisce gli scopi di ottimizzazione, esercita un effettivo dominio su ciò che gli individui percepiscono, concettualizzano, memorizzano e divulgano. E ciò si manifesta in ambito economico, informativo, ma altresì culturale e identitario. L’errore in questo scenario è persistere nell’attribuire qualità umane alle entità meccaniche e contestualmente deresponsabilizzare i soggetti agenti.
Dobbiamo prenderci la nostra quota di responsabilità, tutto qui. Abitiamo da molti anni in questi mondi simbolici fatti di bit e di pixel, abbiamo appreso a sentirci comodi in ambienti informativi che via via sono sempre più frammentati e veloci, dove spinti da dopamina cerchiamo gratificazione immediata, dove questi luoghi digitali fatti di video brevissimi e scambi senza profondità sono proprio il tipo di dispositivo adatto, proprio quello che stavamo aspettando e abbiamo progressivamente raffinato, nella storia dei media, e non certo qualcosa di imprevedibile. L’algoritmo non impone preferenze, semplicemente amplifica pattern comportamentali esistenti, rivelando una nostra domanda culturale di esperienze di vita già orientate al sensazionalismo, all’eterno presente, alla superficie scintillante e sexy dell’engagement rispetto alla lentezza e alla profondità. Ad ogni giro di ruota, ad ogni loop della reiterazione abbiamo conferma e rinforzo, per noi e per gli algoritmi. Discorso spesso affrontato, nelle definizioni di una cultura post-moderna.
Dobbiamo prenderci la nostra quota di responsabilità come atto di coscienza, come presa di coscienza, perché se non ci accorgiamo di quanto sta accadendo siamo complici inconsapevoli di questo nuovo stile del percepire e del conoscere e dell’abitare fisico e digitale, avendo via via delegato alle piattaforme la nostra capacità di filtrare e contestualizzare i messaggi. La nostra vulnerabilità deriva in buona misura dai nostri comportamenti, ed è per questo che è controproducente attribuirla in toto alle piattaforme.
Se vi è qualcosa da indagare questo non si trova negli algoritmi, ma nel riflesso che quelli offrono delle nostre prassi conoscitive ed esistenziali quotidiane.
Comprendere le piattaforme richiede oggi un’antropologia dell’abitare digitale in grado di studiare non cosa la tecnologia ci fa, ma come noi la abitiamo. Il vero conflitto non è tra l’essere umano e la macchina, ma tra modelli economici che sfruttano l’engagement (verso cui siamo molto ben disposti, e qui ci sarebbe spazio per una ulteriore indagine semiotica riguardante le forme dell’affettività implicite in questo nostro coinvolgimento personale) e le pratiche di autoregolazione collettiva note come ecologia dell’attenzione (Yves Citton) che propone un modello sistemico di convivenza con i media che ricorda la gestione di un ecosistema fragile.
Si tratta di preservare risorse cognitive, di evitare l’inquinamento informativo e di coltivare tempi di assimilazione critica. Proprio il contrario, quindi, dell’economia dell’engagement – pilastro del capitalismo digitale – che invece trasforma l’attenzione in valore misurato sul profitto, in merce, massimizzando l’interazione attraverso algoritmi predittivi che cortocircuitano la volontà razionale, sostituendo la profondità con la ricompensa dopaminergica, con lo scrolling compulsivo. Se la prima invita a rallentare i ritmi e a una dieta mediatica bilanciata e possibilmente critica e meditativa, la seconda opera come una macchina da cibo-spazzatura per la mente, dove ogni click è una moneta d’oro per le piattaforme.
Vi è tuttavia un luogo dove pensiero e macchina si incontrano, un luogo che andrebbe analizzato grammaticalmente e compreso nella sua epistemologia, o almeno nella sua funzione di agente della conoscenza e dell’azione, ovvero l’interfaccia (fisica e concettuale) con annesso il relativo mito della trasparenza.
Le piattaforme digitali si presentano come spazi neutri, anzi ammantati appunto di trasparenza (concetto da approfondire, certo), ma sono in realtà campi di battaglia epistemologici. L’interfaccia non è un semplice strumento: è un sistema di credenze incorporato, progettato e disegnato, che plasma cosa possiamo vedere, come lo interpretiamo e cosa consideriamo “vero” nonché meritevole di menzione, di ulteriore diffusione.
Mentre l’ecologia dell’attenzione reclama filtri epistemici consapevoli – simili a quelli di un bibliotecario esperto – l’economia dell’engagement celebra l’opacità algoritmica, dove l’unica trasparenza ammessa è quella delle metriche di performance (like, condivisioni, tempo di permanenza). Qui, la conoscenza non è più un processo dialettico ma un flusso ininterrotto di dati fatti emozioni regolato da dispositivi commerciali.
Per superare la dicotomia, la trappola binaria presentata come tale, dobbiamo poter accedere a strumenti in grado di maneggiare la complessità. L’abitare digitale in chiave culturologica non è né giardino zen né discarica tossica: è un ambiente ibrido, dove competono appunto logiche antagoniste. In realtà ogni sistema contiene il germe del proprio contrario: le nuove piattaforme digitali fatte di flussi super frammentati come la nostra attenzione, di video velocissimi e trend da seguire per pochi giorni, potrebbe diventare un laboratorio per nuove forme di alfabetismo visivo-critico. Il paradosso è che la sopravvivenza dell’ecologia dell’attenzione dipende dalla sua capacità di infettare l’economia dell’engagement, mutandone il codice genetico, ricalibrandola, riorientandola.
Antropologia dell’abitare in rete: tra nomadismo e radicamento
Se l’homo economicus dell’engagement è un cacciatore di dopamine, l’homo ecologicus dell’attenzione assomiglia a un giardiniere paziente. Ma la vera sfida è delineare un terzo archetipo: l’homo reticularis, che trasforma la rete in un habitat esistenziale. Questo soggetto non subisce l’ambiente digitale ma lo abita attivamente, combinando la flessibilità del nomade (saltare tra piattaforme, decodificare linguaggi multipli) con la progettualità del costruttore (creare comunità tematiche, sviluppare protocolli di autodifesa cognitiva). In questa prospettiva, i social media diventano arene di sperimentazione antropologica: ogni like è un atto rituale, ogni algoritmo una mitologia operativa, ogni trend un rito di passaggio collettivo.
L’antropologia dell’abitare in rete deve quindi mappare sia le geografie del potere (chi controlla l’infrastruttura?) sia le pratiche di resistenza quotidiana (come sottrarsi al ricatto dell’iperconnessione senza cadere nel luddismo?).
Sembra in realtà che l’economia dell’engagement, pur essendo a oggi il prodotto più sofisticato dell’homo sapiens nella sua fondante dialettica con l’ambiente di vita (e stiamo aspettando le annunciate rivoluzioni in ogni campo portate dall’Intelligenza artificiale), stia riproducendo dinamiche pre-umane: la lotta per l’attenzione ricorda la competizione per le risorse in una savana primordiale, con gli algoritmi nel ruolo di predatori invisibili. L’ecologia dell’attenzione, d’altro canto, rischia di diventare un lusso da élite, un giardino recintato per pochi eletti. La sfida è trasformare la rete in un commons cognitivo, dove l’engagement non sia misurabile in clic ma in profondità di connessione.
Per farlo, servirà più che un algoritmo: servirà un nuovo mito culturale, capace di sostituire al culto della visibilità un’etica della presenza incarnata. Il futuro non si predice, si prepara (Edgar Morin). E prepararlo significa progettare interfacce che non ci mostrino solo cosa siamo, ma cosa potremmo diventare.
L’antropologia dell’abitare in rete non è una disciplina accademica ma una pratica collettiva. Richiede di ripensare la tecnologia non come destino ma come materiale da costruzione, dove ecologia ed economia non siano rivali ma poli di una tensione creativa. Se sapremo abitare questa contraddizione, forse trasformeremo il digitale da colonia estrattiva in casa comune.
Facciamo innanzitutto chiarezza su alcune narrazioni tossiche – come dicono quelli che maneggiano poco il vocabolario dei sinonimi: abbiamo necessità di un’indagine accurata dei meccanismi degli algoritmi, perché molti di noi si sono accorti che da qualche parte qualcosa non funziona.
Proprio ieri è uscita una notizia riguardante una sorta di reverse engineering sul modo con cui le intelligenze artificiali ragionano per ottenere come output il testo meravigliosamente scritto a cui ormai siamo abituati. Ecco per l’algoritmo dei social funziona un po’ nello stesso modo, dobbiamo cercare di risalire ai percorsi di senso tramite i quali i social ci presentano le notizie meritevoli di attenzione, gli atti degni di menzione, nel nostro feed ovvero per come si presenta la nostra bacheca popolata dai contenuti decisi dall’algoritmo, soltanto per noi.
C’è una cosa da chiarire subito ovvero che l’algoritmo non è un’entità autonoma, un alieno, ma è stato disegnato e progettato da esseri umani proprio per catturare l’attenzione – e lo sappiamo bene dentro l’economia dell’attenzione – in modo tale da riuscire a rapirci in base ai nostri stessi comportamenti abituali.
L’obiettivo è decisamente massimizzare l’interazione ovvero tenerci dentro questi stabilimenti di umanità, evitare di farci uscire, tutto si gioca all’interno del Giardini Murati dei social network più popolari.
Noi però non siamo vittime passive: noi in prima persona produciamo il contenuto dei social, e quei contenuti che hanno successo guarda caso sono proprio quelli che ci aspettiamo secondo nostre predisposizioni cognitive.
Sul piano della forma senza dubbio vengono premiate la semplificazione e il sensazionalismo, nonché una certa spreadability cioè la capacità di certi contenuti di poter essere spammati e condivisi.
Ci sono molti algoritmi per ogni social, centinaia di variabili su cui veniamo profilati, e ciascuno di essi cattura aspetti diversi della nostra interazione, ci sollecitano e ci solleticano in modo diverso riguardo al nostro restare agganciati al flusso.
Ma in ogni caso va stabilito come la propagazione di forme di disinformazione non nasca certo con i social – formidabili macchine di amplificazione – ma bensì da quelli che definiamo media tradizionali che da decenni coltivavano simili comportamenti in noi, essendosi via via specializzati nel clickbaiting nei titoli urlati senza poi poter offrire un serio factchecking se non in casi molto particolari e sporadici.
I contenuti dichiaratamente falsi non nascono dall’intera popolazione, ma da una piccola minoranza di utenti, in grado di confezionare pacchetti di informazione solleticando proprio i nostri bias cognitivi.
Il problema, oltre a cercare di comportarsi bene evitando di condividere sciocchezze (ma qui cadiamo nello psicologismo), riguarda soprattutto il ragionare su quelle che sono le modalità con cui possiamo governare l’informazione, avendo ancora alcuni di noi fiducia nel fatto che una buona informazione diffusa e verificata sia un meccanismo fondamentale per una democrazia funzionante.
Certo i social media hanno un impatto significativo sulle nostre opinioni e decisioni, plasmano la percezione del mondo perché sono veloci e colpiscono ampiamente l’opinione pubblica personalizzando appunto l’esperienza della fruizione per ognuno di noi secondo le nostre caratteristiche di apprensione delle informazioni della notizia e dei contenuti. Quello che servirebbe sarebbe comprendere meglio i meccanismi profondi del funzionamento della macchina basandoci su fatti e su dati, avere un approccio più scientifico nell’analizzare le distorsioni che i social agitano nel nutrire l’opinione pubblica, concretamente negli atteggiamenti che innescano e nei comportamenti a cui poi danno luogo.
(post dettato, da cui si evince che parlo meglio di come scrivo)
L’intelligenza artificiale come strumento di tutela e promozione del friulano: una prospettiva innovativa
La sfida del tempo Le lingue minoritarie europee, tra cui il friulano, si trovano dinanzi a una sfida epocale: competere con le lingue dominanti in un contesto di globalizzazione, pur disponendo di strumenti limitati per farlo. La posta in gioco non è solo culturale, ma anche politica ed economica, poiché una lingua che scompare porta con sé un intero sistema di conoscenze, relazioni e opportunità. L’intelligenza artificiale, spesso percepita come forza omologante, potrebbe invece diventare un’alleata insospettabile nella tutela e promozione del friulano.
Il friulano presenta una frammentazione dialettale significativa. L’IA offre soluzioni concrete per superare questa criticità. La raccolta automatizzata di corpora linguistici attraverso sistemi di NLP (Natural Language Processing) può analizzare testi storici, registrazioni orali e produzioni contemporanee, identificando pattern comuni e divergenze. Questo processo consente di creare una sorta di “memoria digitale”, nonché grammatiche predittive basate sull’uso reale della lingua friulana, piuttosto che su imposizioni accademiche. Inoltre, l’archiviazione dinamica su piattaforme open-source può mappare le varianti locali, trasformando la diversità da problema a ricchezza.
Un esempio concreto è il progetto Resia dell’Università di Udine, che ha digitalizzato 10.000 pagine di letteratura friulana, che però andrebbero organizzate efficacemente per aree geografiche e temi con algoritmi avanzati.
Nell’educazione, l’insegnamento del friulano nelle scuole, previsto dalla Legge Regionale 29/2007, soffre di carenze strutturali: docenti non formati, materiali obsoleti e scarsa attrattività per i giovani. L’IA può rivoluzionare questo ambito attraverso l’impiego di app di apprendimento adattivo. Piattaforme come Duolingo o Memrise, customizzate per il friulano, potrebbero adattarsi al livello e al dialetto dello studente, utilizzando il riconoscimento vocale per correggere la pronuncia. Inoltre, tutor virtuali basati su chatbot conversazionali potrebbero simulare dialoghi quotidiani, rendendo l’apprendimento interattivo e coinvolgente. La gamification, con sistemi di reward basati su IA, incentiverebbe i giovani a usare la lingua in contesti digitali, come videogiochi con narrazioni in friulano.
In ogni caso la realizzazione di questi progetti richiede investimenti significativi per creare dataset di qualità. Il progetto basco “Berdin”, con 200 ore di audio annotato, dimostra che è possibile raggiungere risultati tangibili, ma necessita di una collaborazione stretta tra istituzioni e comunità.
Digital Divide e Nuovi Spazi Pubblici
Il friulano è quasi assente nel digitale, con meno dello 0,01% dei contenuti online in questa lingua (dati Euromosaic). L’intelligenza artificiale potrebbe modificare la situazione integrando al meglio il friulano in strumenti di traduzione automatica come DeepL o Google Translate (già presente, ma con evidenti limiti), sfruttando modelli “low-resource” addestrati con piccoli dataset. Inoltre, la generazione di contenuti multimediali, come audiolibri o podcast con voci sintetiche che riproducono accenti locali, potrebbe aumentare la visibilità della lingua. Un caso studio interessante è l’app “SaySomethingInWelsh”, che ha aumentato del 30% i parlanti under 35 in Galles. Perché non replicare un simile successo con un progetto analogo per il friulano?
In realtà anche nelle politiche linguistiche servono dati per decidere. Le istituzioni spesso agiscono al buio, mancando di strumenti decisionali precisi. L’IA può fornire dati in tempo reale per monitorare l’uso del friulano nei social media e nei testi su web, mappando dove e come si parla questa lingua. Inoltre, simulazioni di policy basate su modelli predittivi potrebbero testare l’impatto di leggi o finanziamenti, aiutando a ottimizzare le risorse disponibili. La comunicazione mirata, con chatbot per uffici pubblici in friulano, garantirebbe accesso ai servizi nella lingua madre, migliorando l’inclusione sociale.
Un esempio virtuoso è il sistema “Plataforma per la Llengua” in Catalogna, che usa l’IA per analizzare la presenza del catalano nei media, spingendo riforme legislative.
L’entusiasmo per l’IA non deve in ogni caso oscurare i pericoli potenziali: l’appiattimento linguistico è un rischio reale se un modello IA addestrato sul friulano “standard” marginalizzasse le varianti locali. Sarebbe inoltre eticamente significativo mantenere sempre alta l’attenzione sugli algoritmi utilizzati per evitare forme di dipendenza tecnologica
Serve un piano di intervento per le politiche linguistiche aumentate, certo. L’IA non salverà il friulano da sola, ma offre strumenti senza precedenti per la sua tutela e promozione. Servono finanziamenti mirati, come quelli previsti da Horizon Europe e PNRR, che includono fondi per il digitale e le lingue minoritarie. È fondamentale una co-progettazione con i parlanti, coinvolgendo associazioni e agenzie linguistiche e formative, per evitare soluzioni calate dall’alto. Una strategia transnazionale che collabori con realtà che lavorano su altre lingue minoritarie (es. occitano, sardo) potrebbe condividere modelli e risorse, massimizzando l’impatto.
In sintesi, l’IA non è la bacchetta magica per rivitalizzare il friulano, ma una leva per trasformare la tutela linguistica da mera conservazione a innovazione attiva. Il tempo stringe: secondo l’UNESCO, il 40% delle lingue mondiali rischia l’estinzione entro il 2100. Per il friulano, la scelta è tra l’adattarsi o diventare un reperto da museo. L’intelligenza artificiale, ironia della sorte, potrebbe essere l’elemento più “umano” di questa battaglia.
Approfondimenti:
Il progetto “CLARIN” per le risorse linguistiche digitali, l’esperienza basca con “HiTZ Zentroa” (IA per l’euskara), e il modello di “Common Voice” di Mozilla per raccogliere dati vocali open-source, offrono esempi di come l’IA possa essere impiegata per le lingue minoritarie.
La nostra percezione del nuovo è un processo di ancoraggio a ciò che già conosciamo. Ogni innovazione, per quanto rivoluzionaria, trova la sua culla in un terreno fertile di riferimenti preesistenti, senza i quali rimarrebbe un’entità inafferrabile, un’ombra evanescente nel regno dell’incomprensibile, non sarebbe né percebibile né quindi concepibile.
Gli esperti, custodi del sapere consolidato, spesso cadono nella trappola di voler confinare il nuovo entro i limiti del già noto, riducendolo a una mera variazione sul tema. Ma la realtà è una tela ben più complessa, dove l’ignoto si manifesta come un’eco di possibilità inesplorate. Pensiamo a “Flatlandia”, l’allegoria di Edwin Abbott Abbott, dove un punto proiettato su un piano bidimensionale suscita interrogativi sull’esistenza di dimensioni superiori. La sua percezione si radica nel noto di quel piano, ma l’abduzione peirciana, quell’atto di ragionamento effettivamente apportatore di nuova conoscenza ci spinge a ipotizzare premesse oltre l’evidenza immediata, ci conduce a esplorare l’origine di quella proiezione, espandendo i confini del nostro scibile.
Oggi, l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) e la sua capacità di generare codice informatico tramite linguaggio naturale ci pongono di fronte a una nuova frontiera. L’arte della programmazione, un tempo dominio di pochi iniziati, si apre a un pubblico più vasto, dove la conoscenza del codice cede il passo alla capacità di dialogare con la macchina. Le potenzialità sono immense. Tuttavia, il debugging stesso, l’ardua arte di scovare e correggere gli errori, assume nuove forme. Invece di districarsi tra righe di codice criptico, l’IA ci offre la possibilità di reiterare il processo, di affinare la creazione attraverso un dialogo continuo, dove l’errore diventa un’opportunità di apprendimento, e di miglior adeguamento al contesto.
C’è anche un risvolto relativo alla questione anagrafica, un aspetto spesso trascurato nel dibattito sull’innovazione. Le menti giovani, con la loro fervida immaginazione e la capacità di abbracciare il cambiamento, sono spesso considerate le uniche artefici del progresso. Ma l’esperienza, quel tesoro accumulato nel corso degli anni, non è un fardello, bensì un’ancora di saggezza. L’IA, con la sua capacità di potenziare le nostre facoltà cognitive, offre un’opportunità unica: quella di riconquistare la creatività perduta, di fondere l’audacia giovanile con la saggezza dell’età. I sessantenni, forti di un bagaglio di conoscenze cristallizzate, possono ora scegliere la strada giusta, indirizzando l’innovazione verso orizzonti inesplorati.
In questo scenario in rapida evoluzione, l’IA si erge come un catalizzatore, un ponte tra il noto e l’ignoto, tra l’esperienza e l’innovazione. La sua capacità di elaborare informazioni, di generare soluzioni creative e di amplificare le nostre facoltà cognitive ci permette di esplorare nuovi territori, di spingere i confini del possibile. Ma è la nostra capacità di abduzione, di ipotizzare premesse oltre l’evidenza immediata, che ci permette di trasformare l’ignoto in un’opportunità di crescita, di tracciare la curva tangenziale del conoscere verso l’infinito, come intuì Charles Sanders Peirce.
Per deformazione professionale ho sempre cercato di individuare le forme della manipolazione cognitiva e performativa presenti nelle narrazioni del digitale, compreso quelle più recenti dalle piattaforme social in poi, e quindi qui si tratta di cercare un Eroe della storia indagando o il singolo individuo, noi stessi che vagabondiamo tra varie piattaforme (si rischia di cadere nello psicologismo) impersonando e allestendo identità digitali sempre diverse, oppure individuando l’Eroe della narrazione nelle piattaforme stesse, nel loro dover congiungersi con un Oggetto di valore – monetizzare gli spazi per gli inserzionisti, ottenere profilature sempre più stringenti e dettagliate per nutrire l’algoritmo propulso da IA – che riguarda il nostro restare e illusi e collusi, catturati nella rete delle gratificazioni personali e dei contatti relazionali che le piattaforme offrono.
Dovremmo forse scientemente a questo punto porre la consapevolezza stessa del nostro abitare in luoghi digitali progettati e “pilotati” quale vero Eroe della narrazione, marcare quelle fratture del testo (il nostro essere onlife, il nostro lifestreaming degli ultimi venti o trent’anni) dove ritroviamo indizi di superamento di prove cognitive come le prese di coscienza che abbiamo avuto nell’accorgerci di essere manipolati dalle piattaforme, come quando Google ha fatto sparire il motto “don’t be evil” dal proprio brand o Facebook in tribunale dice “we run ads”. Diventare padroni del nostro destino, suvvia, riconoscendo di essere stati prede di manipolazioni e persuasioni, spesso sotto la soglia della coscienza in quanto ingaggiati “di pancia” su tematiche affettive o emotive indotte.
Sia chiaro: siamo ben oltre l’Economia dell’attenzione in quanto bene scarso, siamo proprio nell’Economia delle piattaforme e dei loro meccanismi acchiappaclick padroni del nostro tempo e delle nostre compulsioni, esplicitamente organizzate per seminare engagement nel nostro fare quotidiano, ormai altamente specializzate nel design di interfacce comportamentali studiate apposta per tenerci al guinzaglio allettandoci con promesse impastate di pulsioni e desiderio per tenerci in definitiva chiusi dentro questi giardini murati (walled garden) oppure meglio hortus conclusus ovvero orti conchiusi dove viene coltivata la nostra opinione – anche tramite polarizzazione, filter bubbles, echo chambers, sì – affinché sia volutamente conforme all’ideologia dominante e pro mantenimento status quo trasgressioni comprese (ipotesi marxista sospettosa), dentro questi stabilimenti di umanità in cui vaghiamo forse cercando conoscenza e confronto e dialogo, oppure forse ci arrendiamo ai cuoricini e ai gattini, senza riuscire a fuggire.
La critica all’Economia estrattivista delle piattaforme, dei suoi subdoli modi per catturarci, tenerci prigionieri (gli anelli del Potere) dei suoi meccanismi perfino patologici e patogenici per il funzionamento tecnosociale non è cosa nuova, potendo in letteratura risalire a dieci o quasi quindici anni fa, nella giovinezza dei social che già mostravano piuttosto aggressivamente i dispositivi per colonizzare e controllare i nostri pensieri e i nostri comportamenti, indicando al contempo con il loro stesso agire quale fosse il territorio o l’Oggetto di valore da conquistare, ovvero la nostra attenzione e i nostri comportamenti, consapevoli o meno essi fossero.
L’ipercapitalismo del digitale nell’Economia delle piattaforme ha fagocitato i beni comuni, i commons, innanzitutto il tempo e poi la creatività di singoli e comunità, la libera partecipazione non remunerata di gruppi sociali che abitavano in Rete per migliorare qualcosa, fosse un software o un’enciclopedia o un quartiere di una città, gli ingranaggi di una collettività tessendo reti relazionali di valore.
Un’internet che da qualche parte è ancora là sotto, fondata su condivisione paritetica e orizzontale delle informazioni e della conoscenza, e poi un web sistema operativo dell’umanità, vecchio sogno per collegare menti e azioni nella rete delle relazioni planetarie.
Manipolatemi con la nostalgia, o invitatemi a discussioni su siti web senza i tag di Google.
Un ambiente tossico, e ce lo diciamo da anni. Una macchina automatica e disumana fatta di interfacce comportamentali, di estrattivismo, di manipolazione degli affetti e della’attenzione, disegnata per ingaggiarci.
Il web, un tempo terreno fertile per idee e connessioni, è diventato un cimitero digitale, vittima di un suicidio a puntate. Google, con il suo algoritmo onnipotente, ha trasformato la creazione di contenuti in un gioco di prestigio per accontentare una macchina, piuttosto che un pubblico reale. Parole chiave, ottimizzazioni ossessive, tutto finalizzato a un traffico inutile e anonimo.
Facebook, da sua parte, ha fagocitato le comunità online, trasformando le interazioni genuine in freddi numeri. I commenti, un tempo cuore pulsante delle discussioni, sono diventati un’eco lontana. L’ossessione per i numeri ha portato a un’inondazione di contenuti di bassa qualità, clickbait e fake news, soffocando le voci autentiche.
I blog, nati dalla passione di condividere, sono diventati aziende costrette a inseguire i banner pubblicitari, sacrificando la qualità per la quantità. Gli influencer, con la loro capacità di catturare l’attenzione delle masse, hanno attirato i finanziamenti, lasciando i piccoli editori a lottare per sopravvivere.
Il web è diventato un pantano di pubblicità invasiva, un luogo dove la ricerca della monetizzazione immediata ha prevalso sulla qualità. La pandemia ha accelerato questo declino, aumentando il traffico ma anche la frustrazione degli utenti, stanchi di navigare in un mare di contenuti inutili.
Oggi, i modelli di business tradizionali del web sono in crisi. Gli abbonamenti stentano a decollare, i banner pagano sempre meno. Il pubblico, disilluso, cerca alternative.
Tuttavia, c’è un barlume di speranza. Piccole comunità e progetti editoriali stanno rinascendo, puntando su un approccio più umano e meno mercantile. Il web non è morto, ma è in coma. Sta a noi decidere se risvegliarlo o lasciarlo morire definitivamente.
L’avidità, la ricerca del profitto immediato e la perdita di vista degli utenti hanno portato il web sull’orlo del collasso. La qualità è stata sacrificata sull’altare della quantità, e le interazioni genuine sono state sostituite da algoritmi e numeri. È tempo di ripensare il modo in cui utilizziamo e consumiamo i contenuti online.
Sempre pensare l’intero tecnosistema come tecnoecologia, come modello alveare di cellette tutte connesse tra loro, di flussi tra persone, oggetti, dati la Rete. O più reti appunto inteconnesse, arcipelago, tecnoversi e mediaversi nei paesaggi onlife. O forse superare anche queste raffigurazioni metaforiche, verso nuovi modelli per concepire la complessità della vita digitale nostra, dei territori aumentati, delle comunità connesse dove elaborare il senso di questo nostro nuovo abitare.
E pensare la tecnoecologia nella storia del suo sviluppo tecnico e abilitante di nuovi comportamenti e valori, e poi anche pensarla a strati, dalla rete fissa alla rete mobile, alla realtà immersiva attuale, dove emergono le dimensioni psico-sociologiche e politico-economiche, dove le esperienze immersiva sono caratterizzate da
a. cornici di senso, codici semiotici e attività sociali nell’informazione e nella comunicazione, metafore, rituali, routine e atti narrativi, su diversi livelli espressivi e sensoriali
b. performatività processi e pratiche dentro gli spazi digital twin delle città o delle persone o delle cerimonie sociali, con relativi atti di impegno, desiderio, emozioni e coinvolgimento, nonché apertura di possibili sfaccettature manipolative dell’opinione e dei comportamenti
c. implicazioni profonde della psicologia che influenza le nostre credenze e ragionamenti
Bisogna tenere pur sempre presente che tutte le esperienze immersive fanno parte di industrie culturali, ecologie digitali di vasta portata, in cui è possibile ravvisare strutture di potere, strategie e dinamiche dei media.
Insomma il meccanismo di suscitare un bisogno per poi vendere la gratificazione funziona sempre, come in tutte le esperienze.
Intelligentia artificialis, certo. Di te parla l’intelligenza artificiale, concedetemi di andare da Orazio a ChatGPT, con licenza di traduzione.
Perché ormai si tratta di una riflessione su cui molti stanno convergendo: tolti quelli che per professione o in accademia studiano il lato tecnologico-computazionale delle nuove interfacce, tolti quelli che magnificano le future possibilità o paventano rischi e minacce per la specie umana (apocalittici o integrati, insomma), a me rimane questo ragionar di come le piattaforme IA ci restituiscano una immagine di noi stessi, qual specchio d’umanità.
Rappresentazione fedele o distorta? Sempre distorta, in quanto mediata? Offre degli aspetti di verosomiglianza, è plausibile, credibile, accresce la conoscenza del soggetto (che riflette SU sé stesso), lo specchio è un segno?
Chi siamo, in quanto astanti o parlanti della situazione enunciativa? Quale riverbero della mia identità? Devo individuare un sistema di significazione e un processo di comunicazione? Ci sono codici di cui sono manchevole per padroneggiare l’interpretazione?
Oppure, ripartiamo da quel narrare. Una narrazione.
Abbiamo questa configurazione discorsiva di superficie, plausibile, perché chatGPT ci risponde a tono. Qui non c’entra la veridicità delle affermazioni, tutto il problema della corrispondenza a una realtà verificabile, col solito vecchio problema del referente.
Ho una macchina che produce testo, con cui posso dialogare, quindi sono attore della conversazione nell’azione della conversazione. Le risposte dell’Intelligenza Artificiale hanno significato o molti significati, ma hanno senso una volta pronunciati concretamente in una circostanza di enunciazione, qui e ora? Su questo schermo? O appunto ci stiamo interrogando su questa azione umanissima di proiettare senso su quello che eppur so non ne possiede, come in una pareidolìa?
E sotto la superficie, cosa succede? C’è uno schema narrativo, ci sono degli attanti, ho un programma narrativo, non sono indifferente ma sono un Eroe orientato e attivato in vista di uno scopo, devo acquisire conoscenze per incrementare la mia competenza nel saper-fare qualcosa, o abilità per poter-fare qualcosa, e mi affido a un aiutante magico. Un sapiente ignorante, di preciso, me lo dicono gli algoritmi e le grammatiche del funzionamento tecnico della macchina. Già se fosse un oracolo, dovrei sapere che si esprime in modo ambiguo, e mi servirebbe accortezza per disambiguare il messaggio, ricorrendo al cotesto e al contesto enunciativo e narrativo. Ma saprei almeno che mi risponde sensatamente, pertinentemente, seppur camuffando la sentenza dietro giochi linguistici.
Questa cautela che adottiamo è proprio quello che stiamo facendo, forse, dentro parentesi di sospensione dell’attribuzione di volontà, motivazione, orientamento delle piattaforme alle ideali massime conversazionali sul fornire risposte di qualità, chiarezza, con riguardo al modo e alla relazione con l’interlocutore. Non siamo arrivati fino a questo punto con lo sviluppo tecnologico. Se io e te facciamo le stesse domande a chatGPT, lei risponde allo stesso modo magari con qualche variante, poi gli si chiede di riformulare, e la risposta cambia talvolta nei contenuti talvolta nella forma, scarta pezzi di frase e ne inventa altre e poi riprende quelle scartate, ma certo il processo resta indipendente dalla personalità di colui che interroga.
Eppure certe risposte ci piacciono di più, perché nello spazio conversazionale noi ci siamo, e interagiamo, e rispondiamo come persone alle scelte lessicali e all’articolazione periodale e al dipanarsi delle argomentazioni e alle implicazioni affettive, quindi siamo già catturati nella rete dialogica profondissima del nostro essere umani, noi.
Per questo l’I.A. ci racconta una storia che parla di noi, sempre.
Questo ci cattura: interrogando le piattaforme siamo dentro uno spazio che percepiamo come dialogico, cadiamo dentro una prassi e una storia e un’esperienza di codici da richiamare e comportamenti da adottare, siamo in una postura comunicativa, attiviamo schemi inferenziali e interpretativi, orizzonti di attese e aspettative, movimenti cooperativi con il testo, riempiamo di senso l’immagine o la voce sintetica o lo scritto, lo scaldiamo, lo personifichiamo attribuendogli qualità e intenzione, fondiamo un Io e un Tu dialogici nel momento stesso dell’interazione, dentro una circostanza di enunciazione mai prima esperita da essere umano.
Golem, Frankenstein, Robot, Eliza, HAL9000, replicanti, Asimo, Her, mille libri e mille film. Abbiamo letteratura, stiamo scrivendo storie.
Più di quindici anni, un mucchio di anni fa, ci fu questa cosa del web 2.0. Una rivoluzione. Tutti a parlare e sperimentare le novissime possibilità per la specie umana, finalmente tutti potevamo diventare autori sul web: alcune tecnologie abilitanti sottosoglia avevano reso praticabile per tutti il poter pubblicare, e allora tipo nel 2005 ecco tutti con i blog, i wiki, piattaforme video, in autonomia creare un sito con phpNuke e poi PostNuke e poi WordPress, ecco il web partecipativo, ecco i primi social network e il social web, e l’accento insomma era sul nascere del fenomeno Contenuti Generati dagli Utenti.
Al tempo avevo una rubrica su Apogeonline che si chiamava “Animale social” (Aristotele mi guarda male da quella volta) dove parlavo proprio di queste cosette, e credo proprio di aver detto in un podcast con Antonio Sofi che siccome ora avevamo questo benedetto Web 2.0, allora questo in cui abitiamo era diventato Mondo 2.0.
Il solito gioco di straniare la prospettiva per scovare il senso, l’abisso che mi guarda, io sono parlato, e altre amenità.
Questo perché sotto sotto c’era quella consapevolezza secondo cui la tecnologia in quanto linguaggio forgia il pensiero, le possibilità operative della mente nel singolo e nelle collettività emergono nel dialogo tra noi e l’ambiente, come è sempre accaduto dalla prima selce scheggiata o se volete dalle prime sequenze di “2001: Odissea nello spazio” dove in dissolvenza e con il valzer di Strauss quell’osso brandito come arma diventa un’astronave, e non c’è nessuna differenza. La tecnologia (compreso il linguaggio), ciò che ci rende umani, ci guarda. Se possiamo ancora dire che nel campo dei mass-media i nuovi strumenti si aggiungono e si sommano agli altri senza sostituirli – radio e cinema, cinema e tv, tv e streaming – ma piuttosto integrandoli è perché sappiamo riconoscere dopo lunga riflessione quelle nicchie ecologiche dentro cui queste forme di vita tecnologiche possono prosperare, trovando un ambiente a loro adatto, come a esempio la radio che vive dentro le automobili.
Questo nicchia per nicchia, ma proviamo a vedere l’intera area del discorso moltiplicando anche per il pi greco, ovvero per una costante irrazionale, quale quella secondo cui il nostro pensiero non ci appartiene.
Il linguaggio disegna e decide il mondo. Il codice software disegna e decide il mondo, oggi, o almeno disegna e decide le nuove condizioni di esperienza del mondo. Come posso esperire o agire qualcosa su cui non ho né concetto né percetto, mancandomi le parole? Sotto-soglia, pre-categoriale, Merleau-Ponty? Non so, rimango un nominalista puro, le cose sono conseguenza dei nomi.
Mondo 2.0, Umana 2.0, ci siamo evoluti nell’esperienza che abbiamo del mondo e nel nostro stile di abitarlo, basta guardarsi attorno e chiedersi cosa sarebbe meraviglioso o terribile o solo indecifrabile delle nostre pratiche quotidiane agli occhi di chi congelato quarant’anni fa venisse risvegliato oggi.
Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione – e siamo arrivati ai bot che apprendono comprendono e si esprimono in linguaggio naturale – ristrutturano il discorso, riorganizzano le posizioni esistenziali di chi parla, del testo e del pubblico, e questo significa che si modifica il senso del “soggetto parlante” e questo a sua volta significa che molti decenni di semiotica e molti secoli di filosofia del linguaggio, che su certi assunti si basano, vanno ripensati.
Questo perché, frase di cui mi sono preso un appunto e ahimé non ricordo l’autore, “il cambiamento tecnologico non è solo incrementale ma ecologico. […] Un nuovo media non aggiunge [solo] qualcosa; cambia tutto. Nel 1500, dopo l’invenzione della stampa, non esisteva più la vecchia Europa con in più la stampa. C’era un’Europa diversa”. Una innovazione di prodotto o di processo cambia tutto l’alveare, e i comportamenti della specie. Nuove parole, nuovi linguaggi, nuove tecnologie, nuovi sguardi, nuovi scorci di futuribile, nuove praticabilità del dialogo con l’ambiente e la situazione sociale, nuove o aggiornate semantiche e nuove sintassi per mettere in relazione gli attori sociali materiali o animati o intelligenze artificiali, per un nuovo “discorso della specie umana”.
E questo ovviamente lo possiamo dire per il telegrafo del 1850, per la radio broadcast del 1920, per l’internet del 1975 con la @, per il web aperto del 1994, e via così. Nuovi canali che ristrutturano i messaggi e modificano il contesto comunicativo, da cui traiamo il senso del nostro millenario abitare il pianeta. Non siamo più solo noi a parlare.
Ogni cosa che vedete non solo “è più complicata” di come la vedete, è più complessa di come la vedete, perché è sempre ecologica e reca potenzialità che sono già qui, ma non sappiamo ancora vedere. Cioè leggere.
Una volta avevo un blog, dove scrivevo e scrivevo.
Si può dire che scrivevo sempre della stessa cosa, ovvero del cambiamento socioculturale. Del contesto dei cambiamenti storici, delle innovazioni tecnologiche o procedurali, delle trasformazioni sociali indotte dai mass-media, delle narrazioni mitologiche o quotidiane che accompagnano l’agire umano, delle resistenze al cambiamento nelle organizzazioni o nella psicologia dei singoli. E più volte devo aver scritto “non si può mettere vino nuovo negli otri vecchi”, riecheggiando la parabola evangelica. Indovinate perché non si può fare.
Ragionando dei nuovi contenuti culturali – nuovi tipi di contenuti da esprimere, frutto di possibilità digitali – e della necessità di provvedere nuovi contenitori per la loro distribuzione e fruizione, la mia generazione ha perso.
Avere già venticinque o trent’anni e vedere esplodere Internet nel Web, venticinque anni fa, avrebbe dovuto fornirci la forza di rendere concrete in termini di strutture sociali economiche e culturali le idee innovative che ci lampeggiavano ogni giorno dentro la testa e davanti agli occhi, sugli schermi.
“Attenti con l’http e le enciclopedie”, dicevamo. Attenti agli mp3. Attenti ai blog. Attenti al mercato dell’informazione. Attenti al crowdsourcing o user generated content. Attenti agli smartphone. Attenti allo streaming. Attenti agli ambienti formativi. Attenti alle modalità della narrazione politica. Attenti, a tutto. Perché tutto cambierà.
Sarebbe stato alquanto conveniente, perfino intelligente, etico, civile, generazionalmente lungimirante progettare subito dei contenitori adeguati al diluvio dell’Età dell’Informazione, progettare arche dove salvare il mondo pre-digitale, entrare nel nuovo millennio abitando il digitale in maniera dignitosa, redigendo nuove mappe dei nuovi luoghi dell’espressione dell’Io delle collettività e dei territori, avendo come punti cardinali i valori della condivisione, della trasparenza, della Conoscenza, del benessere individuale e collettivo, con consapevolezza. Non ci siamo riusciti.
Le resistenze ai modi nuovi di intendere la socialità e la cultura, il tornaconto economico e la logica miope delle vecchie strutture di potere hanno impedito il cambiamento, oppure hanno costretto il nuovo in forme vecchie, inadeguate. Indovinate cosa succederà.
[Premessa: questo è un post originariamente scritto su Facebook. Prende le mosse dall’annuncio di un convegno a Trieste promosso per ragionare riguardo gli hatespeech in Rete, sessismo e razzismo. Rifiutando soluzioni tecniche, legislative o buoniste, ho allargato il discorso.]
Ok, Parole O_Stili. A Trieste, 17 e 18 febbraio.
Ci andrò, perché ci saranno amici da salutare. Ci andrò, perché magari qualche ragionamento valevole di attenzione potrebbe saltar fuori. Ci andrò, perché ben venga in ogni forma un’esplicitazione del fenomeno e una presa di coscienza.
Ma qual è il “discorso” del convegno, qual è la filiera? “Ommioddio è oribile” -> “Signora mia dove andremo a finire” -> “Basta, qui bisogna fare qualcosa” -> Leggi liberticide? Il Galateo del XXIsec. con ban e processo incluso? Il Grande Manifesto dell’Italia Migliore per l’Ecologia Buonista della Rete, con la faccia di Boldrini e Mentana? Allora meglio Selvaggia Lucarelli che telefona a casa ai cretini, uno per uno.
Vent’anni fa litigavo e venivo insultato pesantemente sui newsgroup di italianistica, figuriamoci, e stavamo discutendo della [r] polivibrante alveolare, mica di calcio o di vaccini.
Vent’anni fa esatti scrivevo un progetto sulla legge 285/97, la legge Turco sui minori, riguardante la necessaria impellente (ahaha) promozione di una comprensione dei risvolti sociali dei nuovi mezzi di comunicazione digitale, iniziativa che poi avrei co-coordinato per i successivi tre anni su un intero ambito socio-territoriale lavorando mille ore nelle scuole dell’obbligo, parlando a studenti insegnanti dirigenti e genitori. Pubblicazioni, convegni su convegni, tutti che dicono di sì con la testa e poi prontamente dimenticano, e regalano uno smartphone al figlio in prima media.
Niente di nuovo sotto il sole e sullo schermo, e l’indicazione dell’approccio educativo è rimasto quanto di più vicino sento al mio modo di pensare e agire rispetto al problema. Ma vi ricordate rotten punto com, i vari siti di gore, 4chan, blog orribili? Vi ricordate le reazioni dei politici e dell’opinione pubblica ai bonsai kitten? Avete mai avuto per le mani dieci ragazzini di un istituto professionale nella profonda provincia, e dover essere educatore? Avete mai visto i log dei server scolastici o anche solo la cronologia del browser di un’aula multimediale dieci anni fa, quando ancora non si prendevano provvedimenti tipo blacklist (che ridere) o tracciamenti identificativi? Sapete dove vanno i quindicenni in motorino? Sapete dove vanno i quindicenni in Rete? Sapete distinguere porno sano da porno malato, e quello che pochi anni fa era extreme ora è mainstream? Quali soddisfazioni e quanta autostima può dare blastare la gente, avere l’ultima parola tranciante, insultare pesantemente, discutere per vincere? E sto parlando dei bar, mica solo dei gruppi chiusi di facebook.
Un LOL ci seppellirà, spazzando via secoli di usi e costumi, patine di civiltà, incrostazioni superficiali di galateo, forme di convivenza sedimentate nei rituali sociali, nelle parole ormai inadeguate a veicolare i sentimenti che premono dentro a individui e gruppi sociali, viviamo tutti “fuori dai denti”.
Paura e ignoranza, mancanza di moralità, un’estetica ricalcata su calciatori e veline o personaggi trash del sottobosco mediatico, figure pubbliche lorde di fango, capi di governo impresentabili, assessori arroganti di paesi grandi come due condomini, capiufficio fascisti, meritocrazia calpestata, nessuna prospettiva rincuorante di vita lavorativa, congiuntivi dimenticati e analfabetismo funzionale, giornali quotidiani scandalosi e scandalistici, clickbait forsennato, l’urgenza di trovare un nemico contro cui scagliarsi oppure crearlo bello nuovo ogni giorno, nessuna stella polare su cui orientarsi per costruir sé stessi intorno a un nucleo di dignità… son tutte cose che bruciano bene, la fiamma sotto la pentola a pressione della socialità ora è molto più forte, le valvole cominciano a fischiare. Il magma sotto il vulcano si agita, mille fumarole che si attivano sono sintomo di eruzione esplosiva imminente.
E forse il vulcano, quella crosta solidificata è proprio la forma della civiltà e della convivenza e dello Stato che abbiamo costruito nei secoli, sistemi di premi e punizioni che hanno permesso di ingabbiare e reprimere, reindirizzare le pulsioni, sublimandole grazie a mediazioni, agenti intermedi, patti sociali, sicurezza e sanità e scuole in cambio di tasse, istituzioni come banche e tribunali e carceri e manicomi. È tutto saltato, deal with it.
Uno strano romanzo, una narrazione imprevista, un plot twist, un salto dello squalo nella storia che raccontiamo a noi stessi per definir chi siamo: il protagonista, ovvero la società tutta, d’un tratto si scopre diverso da come pensava di essere, scopre la propria identità essere un camuffamento, c’è uno svelamento e un’agnizione di sé stessi prima letteralmente impensabile, la maschera d’oro cade e mostra la carne, il personaggio nel suo voler-essere congiunto a certi valori apollinei viene sgambettato dal fare concreto, dalle sue stesse azioni dionisiache ebbre e sanguinolente, la nobiltà pretesa viene tradita dal linguaggio plebeo e prevaricatore, la generosità compromessa dal tornaconto personale. La società oggi è *incongruente*, non vi è sintonia tra la testa e la pancia, o meglio tra l’immagine che intendiamo e pensiamo di dare di noi e l’effettivo agire e comunicare, una contraddizione in doppio legame tra quello che affermiamo con le parole e i gesti con cui il corpo mette in scena l’inganno, non potendo nascondere le emozioni.
Per secoli le forme espressive culturali quali la letteratura, la pittura, il teatro hanno messo in scena la nostra interiorità, le regole, i valori in cui volevamo credere, nonché con piccole infrazioni delle regole le “devianze” storicamente necessarie al superamento di paradigmi obsoleti secondo cui intendere il nostro “giusto” stare al mondo come collettività.
Le finte narrazioni del nostro crederci (volerci-credere) animali superiori edulcoravano la realtà spargendo lustrini e autostima, le finte narrazioni del Potere manipolavano gli animi tenendoci dentro uno status quo sempre più gabbia, riconducendo i rivoli della rabbia dentro l’alveo del conformismo e degli schemi capitalistici del “produci consuma crepa”, pane e circo. Ma si tratta di un mondo finto, congelato, dove nulla si muove, dove l’arco della mia esistenza è pre-scritto nella menzogna di una falsa coscienza di cui era facile esserne incoscienti o accettarla come bugia necessaria.
Invece l’azione narrativa o scenica ha bisogno di azione, altrimenti non esiste nessuna storia da raccontare. E i mass-media del Novecento questo volevano, per la loro capacità di raccontare il divenire in tempo reale: volevano eroi contro il sistema. Eroi vincenti, eroi perdenti. Ribelli con o senza motivo, ma che muovessero gli eventi. Tuttavia il sistema era ancora molto intermediato, bisognava ancora imparare un’arte e possedere risorse economiche ingenti per mettere in scena la propria narrazione o dettare l’agenda con il cinema o con la televisione. Ora non più. Con un telefono cellulare ho la potenza mediatica di un tg di dieci anni fa, posso filmare e scrivere e pubblicare in tempo reale su scala planetaria. Ci sono, partecipo, dico la mia.
E dopo il teatro la pittura e la letteratura, facilmente manipolabili e censurabili in quanto dipendenti da sistemi economici di potere per la diffusione delle loro opere, ora abbiamo la Rete.
La Rete è lo specchio dove l’umanità oggi riconosce sé stessa, uno specchio molto meno deformante rispetto ai dispositivi di rappresentazione di sé (individuo e collettività) del passato, il luogo polivocale e immediato dove nessun camuffamento d’identità è possibile come maschera univoca, dove le collettività vedono emergere la propria identità nelle mille facce di cui sono composte e non solo quella messa in scena dai padroni del vapore.
In tal modo prendiamo coscienza di noi stessi, e prendiamo paura, perché non siamo chi pensavamo di essere e chi volevamo essere. L’Eroe ha rotto l’incantesimo, ora può vedere, ma ha perso sé stesso nell’acquisire questa nuova competenza. Non può portare a termine il programma narrativo, non può agire, tutto va rinegoziato, ogni singolo valore ogni tensione e aspirazione.
Siamo dei mostri, e non servirà coprire gli specchi con i lenzuoli.
Ripartire da zero, anzi da uno. Perché ora sappiamo. E anche senza avere ideali irrealistici, possiamo costruire noi stessi su una percezione maggiormente chiara e distinta. Possiamo trasformare l’agire in fare. Il cieco agire in fare consapevole, misurato, responsabile delle conseguenze, attento al contesto. Perché le parole hanno molti significati, il contesto attribuisce il senso.
L’Io della collettività è costituito dall’Io e dalla circostanza della socialità (anche mediatica) che lo contiene, non c’è dentro e non c’è fuori.
Questa mia generazione ha il compito immane di traghettare tutta la propria millenaria Cultura nel Mondo Nuovo, territori che per primi abbiamo esplorato senza mappe, costruendo avamposti. Questo e solo questo possiamo indicare alle prossime generazioni: l’urgenza di progettare modi nuovi di concepire e innervare la socialità dopo il Diluvio digitale, realtà e stili e modi che siano appropriati al loro sentire e desiderio di costruire spazi di civiltà adeguati, secondo visioni e approcci che non ci appartengono, ma dentro cui loro potranno ristabilire i valori di fratellanza e solidarietà e di giustizia e di bellezza, se lo vorranno.
Trent’anni almeno di televisione “selvaggia”, da altrettanto si parla di educazione ai media, intendo proprio da fare a scuola, con approcci centrati sulla consapevolezza della fruizione, sulla grammatica del flusso televisivo, sulla promozione di competenze di lettura critica dei messaggi. Eppure non si è concretamente mai visto nulla di tutto ciò, fatti salvi i soliti quattro gatti di docenti eccentrici.
Forse il Potere non aveva intenzione di fare “alfabetizzazione televisiva”, cosa dite? Chi mai ha parlato di vietare la tv? Magari gli faceva comodo tramite lo strumento indottrinare e persuadere, come esplicitamente sappiamo dagli anni ’50, se non prima (le riflessioni sulle teorie della propaganda mediatica).
Però adesso è giunta l’ora di una alfabetizzazione digitale, sissignori. Sulla cui necessità peraltro io sbraito da vent’anni, professionalmente remunerato per farlo, ve lo dico subito.
Perché qui in Rete ora parlano tutti e l’autorità è saltata e non è cosa, eh, non va bene. Bisogna nor-ma-re.
E siamo qui a discutere di censura, pro o contro, guelfi e ghibellini come sempre, invece di chiederci il solito “cui prodest?”, invece di interrogarci sui motivi (convenienza? populismo? senso civico? sincera preoccupazione?) che portano i pubblici decisori a decretare la necessità di un controllo, di un giro di vite, di una censura preventiva.
Cosa vorrebbero, lor signori, il patentino per accedere al web? Patente A solo per leggere, quella B per commentare, quella C per i carichi pesanti, ovvero ardire addirittura ad avere un sito o un blog e produrre contenuti, pubblicarli senza chiedere permesso a nessuno?
Ho sempre visto la paura – dinanzi a ciò che non si conosce e non si può controllare – irrigidire la mente delle persone e paralizzare le loro azioni, dirigenti scolastici o sindaci o imprenditori, quando si trattava di comprendere e sperimentare minimamente le nuove forme di socialità e di arricchimento culturale che la Rete può offire.
Siamo dentro questo gigantesco mutamento del modo di darsi al mondo della specie umana, nelle relazioni interpersonali e nella comunicazione, ogni giorno vediamo nascere situazioni di cui prima non potevamo nemmeno concepire l’esistenza, mancavano i contenitori e i linguaggi delle nuove forme di realtà.
Se metto in atto dei “piani ministeriali per la formazione all’abitanza digitale”, chi li redige? Persone novecentesche, lente e sconnesse? E il sistema giuridico, pachidermico, come può rapidamente sentenziare su quello che quotidianamente si manifesta nelle società moderne, azioni per cui non esistono nemmeno parole per definirle? E le Pubbliche Amministrazioni, e la Politica, come può compiutamente dirsi “trasparente” senza giocare proprio sulla ambiguità di questa parola (se è trasparente, non si vede: ma io vorrei invece vedere tutto), e furbescamente sancire la propria ragion d’essere nella manipolazione del “sembrare trasparente”, visto che in fin dei conti vuole stabilire cosa possiamo o non possiamo vedere?
Sì, ci aspettano molti anni di “barbarie”, di sgretolamenti dei macro-paradigmi su cui l’intera civiltà umana si è costruita negli ultimi cinquecento anni, di negoziazioni e ripatteggiamenti delle identità individuali ormai prepotentemente connesse alla Rete e grazie alla Rete sviluppatesi e interconnesse agli altri, delle identità – in quanto essere e fare – di enti governativi e soggetti collettivi minate alle fondamenta dai nuovi modi di intendere e vivere la socialità, il desiderio, l’affettività, la maturazione di una visione del mondo, l’immaginario tutto.
E in una dimensione organicista, credo che la mutazione – progettata o casuale, educazione formale o autoapprendimento – e non l’irrigidimento sia la soluzione: dinanzi a nuove condizioni ambientali ovvero socioculturali su scala planetaria andrebbero favorite promosse sollecitate nuove sperimentazioni locali di sistemi sociali (giuridici, legislativi, formativi, nonché sul piano relazionale interpersonale), e queste sperimentazioni dovrebbero essere molte e di tipo diverso, per vedere quali maggiormente si adattano ai nuovi contesti di vita degli umani, per poterne poi trarre insegnamento.
Ci vuole coraggio, e fiducia.
Le nuove generazioni si muoveranno tra le macerie di questo terremoto culturale, eppure stiamo insegnando loro a camminare schivando i pericoli che conosciamo, auspicando sappiano domani distinguere i pericoli che ancora non conosciamo: eppure devono andare, senza proibizioni e senza divieti.
Alla base c’è una legge italiana, il Decreto legislativo n. 70 del maggio 2012, riguardo il codice delle comunicazioni elettroniche in attuazione delle direttive europee.
La questione è quella del wifi libero in Italia, che dopo l anon-proroga della Pisanu ha ritrovato un po’ di vita, anche se le autenticazioni avvengono sempre nei locali pubblici tramite invio di password su cellulare, il quale cellulare in Italia è attivato con una SIM individuale e registrata (altrove no), e quindi siamo sempre nella tracciabilità.
Ma ora si possono fare collegamenti tra privati su determinate onde radio, e quest non prevedono autorizzazioni, e sono libere.
Così come in tutto il resto dell’Europa, i collegamenti radio tra privati sulle frequenze collettive (2.4 GHz, 5 GHz, 17 GHz) sono stati liberalizzati dal nuovo codice delle comunicazioni elettroniche entrato in vigore a giugno 2012, così come recita il sito dell’ispettorato delle comunicazioni della Liguria:
“Uso privato: non è prevista alcuna autorizzazione. Le apparecchiature sono comprese in quelle previste di libero uso ai sensi dell’art. 105, comma 1, lettera b del D.Lgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), così come modificato dall’art. 70 del D.Lgs. 70/2012.”
Più specificamente, il Decreto Legislativo 28 maggio 2012, n. 70 ha modificato il D.Lgs. 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), a seguito del recepimento delle direttive europee 2009/140/CE e 2009/136/CE. A partire dall’entrata in vigore del Decreto (1 giugno 2012), non sono più soggette ad autorizzazione le reti RadioLAN-HiperLAN (wi-fi) ad uso privato, anche nel caso transitino al di fuori del proprio fondo.
Anche condividere la propria connessione WI-FI liberamente non è più illegale da quando il decreto Pisanu, che imponeva pesanti restrizioni e condizioni all’accesso ad internet, non è stato prorogato.
Che questo sia un anno di discontinuità non c’è bisogno di dirlo: cambierà il Governo, molti Governi regionali e locali, il Presidente della Repubblica, si darà finalmente inizio (speriamo) alle attività dell’Agenzia per l’Italia digitale per recuperare l’enorme divario che abbiamo accumulato rispetto agli altri Paesi avanzati, ci dicono persino che finirà la crisi!
Mi sto preparando a questi cambiamenti leggendo con attenzione non Nostradamus, ma i programmi elettorali delle forze politiche che, chi più chi meno, concordano tutte sulla necessità di innescare una ripresa basata sulla crescita e sull’innovazione.
Eppure ho la netta impressione che in queste analisi e in questi programmi la realtà sia uscita dalla porta di dietro e che non stiamo cogliendo il punto. Mi pare quindi che abbiamo bisogno di un terzo occhio e di un nuovo paradigma. Questa volta permettetemi quindi un approccio meno contingente, proponendo un necessario spiazzamento e candidando FORUM PA a raccontare questo punto di vista.
Non sto parlando certo di un occhio mistico, ma un terzo occhio è necessario perché tutto quel che potrà costruire il futuro mi sembra sia fuori dal perimetro in cui gli occhi della politica (e anche dei tecnocrati) sembrano cercarlo.
Provo a fare qualche esempio richiamando alla mente in estrema sintesi cose già dette e proponendone qualcuna nuova:
La PA non può riformare se stessa: la riforma della PA non è dentro il sistema, ma riguarda la sua capacità di governare con la rete: ne consegue che pretendere che l’apparato si riformi da solo, magari con qualche iniezione di nuovo e illuminato diritto amministrativo, è una fatica di Sisifo, come la storia delle riforme legiferate e abortite ha sin qui ampiamente dimostrato. Ne consegue che da una parte dobbiamo seriamente ripensare ai perimetri dell’azione pubblica, dall’altra dobbiamo inserire nuove competenze, ma soprattutto nuovi modi di pensare dall’esterno. La necessaria trasformazione della PA da apparato autoreferenziale a strumento di attuazione delle politiche e di risposta ai bisogni è impossibile restando all’interno della PA. Ne consegue che la ministerializzazione della dirigenza pubblica, specie quella apicale, sarebbe la iattura peggiore: quel che ci serve non è una nuova classe di burocrati modello ENA francese (per altro se ne sono accorti anche i cugini d’oltralpe), ma manager flessibili e innovativi, specializzati nella difficile arte del coaching e della negoziazione, che sappiano far lavorare assieme pubblico, privato, privato sociale, terzo settore e cittadinanza organizzata e che siano misurati sui risultati oggettivi non tanto del loro lavoro come singoli (output) ma delle loro organizzazioni (outcome).
L’innovazione non nasce dove la stiamo cercando: ossia non nasce, armata come Atena dalla testa di Zeus, nelle Università e negli istituti, ma nasce da un disobbedire, da un “uscir fuori” che è sintesi hegeliana tra una tesi data dai risultati della ricerca e dall’impegno della migliore tecnocrazia e un’antitesi data dalla tenace volontà dei prosumer (ossia i consumatori che nell’economia 2.0 sono anche produttori di servizi) di usare le innovazioni come gli pare per raggiungere i loro propri obiettivi. In parole povere l’innovazione diventa cambiamento sociale e quindi nuove opportunità di vita solo quando incontra la creatività di chi la usa. Solo così riesce a sviluppare le sue potenzialità rivoluzionarie. Ne consegue che l’innovazione, come la conoscenza, è tale solo se diffusa e disponibile: la cosiddetta “free knowledge society” non è roba da fricchettoni, ma l’ecosistema dello sviluppo sostenibile. Nel campo dell’innovazione della PA questo vuol dire sviluppare ogni occasione di vera Partnership-Pubblico-Privato che abbatta il muro tra domanda e offerta e promuova un lavoro collaborativo di co-progettazione.
Le città e le comunità intelligenti non si identificano con le loro istituzioni: se possiamo immaginare smart city, non ha senso immaginarle chiuse nei loro Municipi. Come giustamente fa notare Mauro Bonaretti “La città è un insieme ben più ricco e articolato del Comune inteso come singola organizzazione pubblica. Comprende i cittadini, le imprese, il terzo settore, le associazioni di rappresentanza, gli intermediari finanziari, le public utilities, le fondazioni bancarie, le altre istituzioni pubbliche e private. Limitare il dialogo tra l’offerta di tecnologie e il Comune è restringere a un perimetro troppo ristretto la rete degli interessi in gioco. E’ pur vero che sempre più ai Comuni è richiesto un ruolo di governance (regista e catalizzatore delle politiche pubbliche), di tessitore principale di una rete diffusa di attori protagonisti per il successo di obiettivi condivisi. Ma è pur altrettanto vero che progetti così ambiziosi come quello di infrastrutturare la città di sistemi permanentemente interconnessi, interattivi e di interesse generale, non possono vedere coinvolta la sola responsabilità dell’attore pubblico.” Ne consegue che i progetti per le smart community non si vincono “dentro” l’amministrazione della città, ma in un più ampio spazio di co-progettazione con tutti i portatori di interesse.
La crisi dell’informatica non si risolve dentro l’informatica: se i mercati dell’hardware e del software decrescono irrimediabilmente, con altrettanta certezza sono in crescita tumultuosa i mercati dei servizi digitali a valore aggiunto, della gestione dei cosiddetti big data, dei contenuti digitali, ecc. Ne consegue che se vogliamo sostenere la nostra ICT non dobbiamo chiedere alla PA di comprare più informatica, ma di creare le condizioni favorevoli per lo sviluppo di imprenditoria innovativa (non solo start-up).
La crisi della politica non si risolve dentro la politica, né tantomeno dentro la sua caricatura controdipendente che è l’antipolitica. Come la cronaca di questi giorni dimostra è estremamente difficile che la politica sia in grado di autoemendarsi. Quel che la farà cambiare sarà una robusta inserzione di vera trasparenza che abiliti il controllo sociale e l’empowerment dei cittadini. Solo abbattendo l’asimmetria informativa di creano infatti le condizioni per la cittadinanza attiva che, come la nostra Costituzione impone, deve essere favorita da tutte le articolazioni della Repubblica.
Potremmo continuare l’esercizio all’infinito: la crisi della sanità, stretta tra meno soldi e più bisogni, non si risolve dentro la sanità, ma sulle nostre tavole, nei nostri stili di vita, nelle nostre palestre…; la crisi della sicurezza non si risolve dentro le forze dell’ordine, ma con la sicurezza partecipata…. ma mi fermo perché credo che il concetto sia chiaro.
E allora? Allora purtroppo non possiamo che constatare che la realtà è molto più complessa delle facili formulette in cui cerchiamo di ingabbiarla. Ma per fortuna anche molto più ricca.
L’immediata conseguenza di questo approccio è che se non possiamo trovare le cose “dentro”, dobbiamo cercarle “fuori”. Ma per uscire fuori dobbiamo aprire le porte, fare entrare aria nuova, accettare la contaminazione, accettare di considerare la trasparenza, la collaborazione, il co-design, la partecipazione non come attributi, ma come sostanza costituente del nostro operare. Qui forse sta l’essenza del cambiamento necessario: aprire la porta alla ricchezza delle relazioni, dare spazio alla partecipazione civile, trasformare la guerra in “competizione cooperativa”. Ci vengono qui in aiuto i concetti e le definizioni di “sussidiarietà orizzontale”, di “economia civile”, di “big society”, di “economia della felicità” , di “gratuità ed economia del dono”, di “innovazione sociale”.
Forse qui sta la novità che cercavamo: l’Italia ha su questa attenzione ai beni relazionali e alle reti di collaborazione una tradizione antica. Sarà ora di darle una spolverata, di dotarla delle tecnologie abilitanti che ora possiamo permetterci e di riprenderla come stella polare di un nuovo e meno effimero sviluppo.
Italia indietro sui servizi digitali. Questa volta ad analizzare lo stato di attuazione dell’agenda digitale europea, è una ricerca di Telecom Italia “Italia connessa – Agenda digitali regionali” presentata oggi a Bologna con la regione Emilia Romagna.
Il rapporto, secondo anticipazioni stampa, rende evidenti le forti differenze persistenti tra le diverse regioni in quanto ad innovazione tecnologica e sviluppo digitale, sottolineando il ritardo particolarmente forte per quanto riguarda lo sviluppo dei servizi digitale. L’analisi di fondo prevede il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati a livello europeo e nazionale a meno che le Regioni non accelerino e rinnovino i loro piani digitali.
Lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi fissati è in ritardo, ma sarebbe possibile ancora tenere fede agli impegni. La UE ha stabilito che tutti i cittadini dovranno avere accesso a reti a banda larga (almeno 1 megabit al secondo) entro fine anno, ma al momento il 10% delle abitazioni italiane non è ancora stato raggiunto. Il rapporto di Telecom ritiene, però, l’obiettivo UE raggiungibile entro l’anno a patto di agire in fretta. La situazione italiana è, al contrario, più grave a livello infrastrutturale per quanto riguarda la banda ultralarga (11% di copertura), ma c’è ancora un po’ di tempo per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione (entro il 2020, 100% di copertura con connessioni a 30 megabit e 50% a 100 megabit).
Gli obiettivi più difficilmente raggiungibili, secondo il rapporto, riguardano, però: utilizzo delle reti e servizi digitali. Il 75% dei cittadini dovrebbero utilizzare regolarmente la rete Internet entro il 2015, stando agli obiettivi europei, ma ad oggi lo fa soltanto il 47% degli italiani. Situazione ancora peggiore per l’e-commerce (terzultimi in Europa) utilizzato per gli acquisti dal 15% degli italiani contro un obiettivo fissato nel 50% entro tre anni. E altrettanto lontano appare l’obiettivo per le aziende (33% entro il 2015). Soltanto l’11% delle piccole e medie imprese acquista tramite rete e addirittura solo il 4% vende attraverso il canale digitale. Se i servizi digitali commerciali non decollano, non lo fa, però, neanche l’amministrazione digitale (penultimi in Europa, circa il 22% dei cittadini ha utilizzato servizi di e-government).
Il rapporto, come si accennava, si concentra particolarmente sull’apporto delle regioni all’Agenda Digitale, riscontrando forti differenze tra i vari enti territoriali. I ritardi sono forti e mentre alcune regioni hanno varato piani, esplicitamente riferiti all’Agenda Digitale Italiana o più genericamente allo sviluppo dell’ICT, altre ci stanno ancora lavorando. L’implementazione di molte delle novità introdotte per l’amministrazione digitale è, inoltre, scarsa e fortemente disomogenea. A questo vanno ad aggiungersi ritardi forti, rispetto alla media nazionale, di alcune regioni riguardo all’utilizzo delle rete e dei servizi digitali, che danno il quadro di un forte digital divide territoriale. La maglia nera per l’utilizzo di Internet va alla Puglia (57% non usa regolarmente), mentre quella per il più ridotto utilizzo di servizi di e-commerce alla Campania (6%).
Ritardi gravi, quindi, che possono essere colmati soltanto con forti interventi a livello sia nazionale, che regionale. Interventi che potrebbero, però, non arrivare in tempo visto che come sottolinea Franco Bernabè, amministratore, delegato di Telecom Italia, il tema dell’Agenda Digitale è sostanzialmente assente dal dibattito politico-elettore. “Non mi sento di rimproverare nessuno . Siamo ancora nel pieno di un’emergenza che, dopo il salvataggio del sistema finanziario, adesso impone la ripartenza dell’economia. E’ questa la vera priorità, del resto solo restituendo respiro alle imprese si potrà riattivare un ciclo di investimenti ad ampio raggio, incluso ovviamente l’Ict”. Il manager non riterrebbe una cattiva idea quella di un ministero dedicato alla tematica. “Spetterà al nuovo Governo stabilire le priorità, ma parlare di un nuovo Ministero delle Comunicazioni e dell’Agenda digitale o comunque di un Ministero dell’Industria con una forte delega avrebbe senso. In altre parole, assegnare una responsabilità politica per i grandi fattori di competitività dell’economia italiana, l’economia digitale al pari di infrastrutture ed energia, sarebbe un grande passo avanti”.
Bernabè ritiene più di tutto prioritari, però, l’approvazione dei provvedimenti attuativi del decreto crescita 2.0 messo e il coinvolgimento degli enti territoriali, vanno “mobilitate le Regioni, le Province, i Comuni”.