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Ambientalismo digitale

Vi mostro un errore.

Un errore di approccio teorico, di inquadramento, di prospettiva, nel porre il problema e quindi nel provare a risolverlo. Perché un problem solving efficace deriva da un problem posing circostanziato.

Noi continuiamo a pensare al futuro come ad una proiezione del passato, mentre la rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema, come diciamo ormai tutti. Abbiam fatto il famoso salto.

La questione più che decennale – o secolare – riguarda la concezione del digitale e delle tecnologie (più o meno nuove) come “strumenti”.

Ripartiamo dal famoso martello: certo che è uno strumento, ma sappiamo che poi tutto quello che vediamo assomiglia a un chiodo, o a qualcosa che può essere colpito.

Perché impugnare un martello modifica la nostra percezione dell’ambiente, la concezione delle funzionalità di questa protesi del nostro braccio e della nostra mano, di noi stessi e del nostro potenziale agire.

Perché anche un martello è una tecnologia abilitante, nel senso che modifica le potenzialità del nostro fare nel mondo (la tecnologia, appunto) e questo è possibile perché trasforma la nostra “postura” mentale, appunto la nostra concezione del mondo.

Questo vale per il martello come per ogni tecnologia e pensiero tecnologico della storia dell’umanità, dal fuoco di Prometeo fino al digitale e alle modificazioni genetiche con CRISPr e al sincrotrone e alla Stazione Spaziale, perché la storia dell’Umanità è sempre la storia tecnologica dell’Umanità, nella profondità dell’evoluzione umana (il fuoco non l’ha “inventato” un sapiens, ricordiamoci), nella tecnologia del linguaggio e nel tramandare generazionalmente le innovazioni del nostro abitare come collettività e comunità, in dialogo perenne con l’ambiente e il territorio da cui trarre risorse e progettare trasformazioni, con uno sguardo capace di leggere (una “grammatica” del paesaggio, dei processi, delle relazioni tra tutti gli attori animati e inanimati) le circostanze e in grado auspicabilmente di prevedere le conseguenze di quelle trasformazioni sull’abitabilità stessa del territorio così modificato.

Bene, abbiamo molte parole chiave.
Strumento, ambiente, linguaggio, tecnologia abilitante, progetto, comunità, dialogo, grammatica territoriale.

Noi abitiamo innanzitutto degli ambienti mentali di organizzazione delle pratiche possibili, delle linee di visione, di opportunità di azione del fare umano. Abitiamo linguaggi, altrettanto notoriamente, e i territori sono conversazioni di un dialogo eterno fra noi e l’ambiente, nei geni e nei memi.

Questo è il punto: se uno strumento è già un ambiente, noi abitiamo linguaggi.

Se i linguaggi sono tecnologia, se le parole che possediamo ci permettono di comprendere e agire nel mondo, di narrarci a noi stessi – e quelle che non possediamo rendono impraticabile un pensiero altro – allora la Tecnologia è la Casa dell’Essere, con formula nota.


La comprensione innanzitutto in noi delle relazioni della nostra mente ed enciclopedia con l’ambiente e la circostanza (l’Io) che ospita la nostra vita rappresenta il Luogo dialogico (non c’è dentro, non c’è fuori, niente dualismo classico, è un continuum, mente e mondo in termini di identità e corrispondenza, “realtà” e rappresentazione) dove emerge il senso dell’Abitare, del trasformare, dell’aver cura. Il nostro EsserCi.

Questo significa senso della frequentazione dei Luoghi indifferentemente fisici o digitali, della partecipazione, delle identità emergenti nel passaggio generazionale, del promuovere il senso dell’abitare nella complessità.

Se continuiamo a concepire il computer o un satellite artificiale o l’automobile o dei pezzi di codice informatico come strumenti, non possiamo (non riusciamo a) cogliere l’ambiente e l’ecosistema in cui questi manufatti vivono inter-relati, il linguaggio con cui denotiamo e connotiamo la loro esistenza come oggetti e soggetti della realtà in una rete sensata di significanti e significati, il nostro stesso collocarci e rapportarci all’esistente. 

Costruire il futuro è costruire socialmente, in modo condiviso culturalmente, nell’immaginare il domani.

Costruire futuro significa risemantizzare i luoghi – mentali innanzitutto – che frequentiamo onlife, avendone cura. Il futuro come avvenire, quello su cui posso agire, etimologicamente pro-gettare.

E questo sarà conflitto, tra idee e tra stili dell’abitare, tra generazioni, tra esperti e sviluppatori, e abitanti – unici per i quali fenomenologicamente ha senso il luogo, perché conferiscono senso all’abitare lì e ora.

Significa risemantizzare l’immaginario, la proiezione dei significati, i sogni, i desideri, l’orizzonte della praticabilità. 

Lavorare sul contesto, non sul messaggio, per lasciar emergere i nuovi sensi delle nuove situazioni di enunciazione che stiamo vivendo per primi nella storia dell’umanità, dove non si era mai vista una rete planetaria di connessione e una miriade di mondi digitali condivisi, e oggi questo c’è, e noi ci abitiamo creando continuamente valore, urbanistica e comunità, elaborazione corale di una partecipazione e un sentimento di appartenenza alle collettività nostre di riferimento.

Giorgio Jannis - www.jannis.it

Urban Center come cervelletto per i flussi di narrazione territoriale

Quasi un anno fa, tempus fugit, ho tenuto un workshop a questo bel convegno presso la Facoltà di Economia di Udine dedicato a Media e Cittadinanza digitale, promosso da Media Educazione Comunità www.edumediacom.it.

Il titolo del mio intervento era Smart City come Smart Community: reti di luoghi, flussi di narrazioni territoriali. Strategie identitarie per comunità ed Enti Locali e qui ora provo a lasciare una traccia del filo del ragionamento che intendevo dipanare, ma siamo ancora all’arcolaio e alla matassa, vediamo se ne faccio almeno un gomitolo riutilizzabile. Avevo anche una presentazione, ma è fatta di quattro parole e spunti, non la linko nemmeno. Vediamo.

Cultura TecnoTerritoriale, grammatiche di narrazione

L’esordio come mio solito contempla la necessità di provvedere nozioni di Cultura Tecnologica nel settore dell’educazione, nella consapevolezza di quanto poi il tutto si trasformi in Cultura Tecnoterritoriale, capacità e abilità di leggere il territorio e il paesaggio in quanto Oggetto tecnologico progettato e plasmato dalla specie umana, nel dialogo millenario tra la produzione e la distribuzione di risorse e la collettività che su quel territorio risiede.

Si tratta di fornire grammatiche della narrazione dei Luoghi, dove questi ultimi rappresentano appunto le parole o le parti del discorso millenario summenzionato, che quindi possono essere analizzate e comprese secondo una morfologia propria, una semantica, una sintassi. Pubbliche Amministrazioni, le imprese, le banche, gli enti territoriali, gli spazi naturali o naturalizzati, le città, tutti gli attori sociali sono nodi di una rete, e con strumenti di grammatica territoriale adeguati possiamo indagare sia i singoli nodi sia la sintassi delle loro relazioni storiche e attuali, funzionali e simboliche. Per gioco, provate a guardare la scheda madre di un computer come fosse una mappa geografica satellitare: trovate degli elementi che corrispondono alle stesse funzioni – luoghi di memoria (dischi fissi ovvero biblioteche e archivi pubblici), luoghi di elaborazione dell’informazione, luoghi di alimentazione energetica, pipelines di vario tipo. State interpretando ruoli e funzioni con una grammatica che vi permette di dare un nome alle parti e alle loro relazioni.

Certo, possedere grammatiche per leggere significa auspicabilmente poter disporre di strumenti per “scrivere” il territorio, per progettare un domani gli interventi che come collettività decidiamo di attuare, dando vita a un elettrodotto o a una facoltà universitaria o a un progetto di politiche giovanili.

Empowerment della collettività

Tutto parte dalla percezione del Luogo dove poggiamo i piedi e il suo orizzonte antropologico, da cui ricaviamo identità. Uno spazio di conoscenza, la cui frequentazione determina i noti meccanismi di partecipazione, da cui il nostro sentimento di appartenenza. Cose di secoli che ci avvolgono, storie di persone e eventi e topografie scritte e narrate dal nostro abitare. Eppure innanzitutto il territorio va misurato come paesaggio costruito, come risultato del nostro agire in esso, secondo dimensioni analizzabili tecnosocialmente.

Ho il Territorio e ho i gruppi che lo abitano, flussi nella collettività, tracce di espressione, forme di coinvolgimento. E tutto il nostro Abitare sul territorio da secoli determina una forma di empowerment della collettività, la quale vedendosi specchiata nel paesaggio e nell’economia e nelle infrastrutture e in tutte le rappresentazioni culturali che emergono dalla quotidianità prende consapevolezza di sé, del proprio stile dell’abitare, unico e originale per ciascuno collettività di questo pianeta.

Come due lati di una stessa medaglia, come hardware e software: in realtà non esiste una smart city senza una smart community, e forse riportare l’attenzione sulle dinamiche e sui comportamenti delle collettività umane può tornare utile per calibrare meglio il cambiamento che i luoghi dell’Abitare stanno vivendo, sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche. Certo, Internet delle Cose e wifi cittadino, fibra ottica e sensoristica diffusa rendono la dimensione iperlocale eloquente; ma una vera e nuova Cittadinanza, su cui riflettere e a cui educare le giovani generazioni, non può non passare per una consapevolezza di una nostra identità personale costruita e negoziata nelle prassi quotidiane di comunicazione mediata e sociale, tanto quanto le collettività possono ora veder emergere narrazioni territoriali spontanee in grado di far meglio comprendere lo stile concreto del nostro abitare sul pianeta.

Ovviamente, tutta questa rappresentazione di noi stessi a noi stessi, che fino a ieri veniva messa in scena nelle arti e nei massmedia dell’informazione, trova nella Rete uno strumento potentissimo, ove avviene la messa in scena della nostra identità, dinamica e cangiante. La percezione della città, ora da concepire come Smart city, ne viene radicalmente modificata. Ora abbiamo sensoristica, local awareness, luoghi eloquenti.

Dashboard cittadine, cruscotti dell’Abitare, flussi e sensoristica

Per farvi ispirare, ecco un link al sito Art is Open Source (Iaconesi e Persico) che mostra in tempo reale come si può tracciare l’ecosistema culturale della città di Roma, oppure buttate un occhio alle varie dashboard (bacheca/display di visualizzazione, cercherei/inventerei un’altra parola ma per ora teniamoci “cruscotto”) delle città come Londra, Oberlin in Ohio, Amsterdam.

A questo punto possiamo intrecciare un’altra considerazione, ragionando sugli Urban Center, strutture, pubbliche o pubblico-private, che da alcuni anni operano anche in Italia nell’ambito delle politiche urbane, con funzioni documentali, partecipative ed analitiche, di solito per accompagnare i nuovi piani urbanistici, strategici e strutturali. Gli Urban Center sono fortemente caratterizzati da una mission civica, ovvero dall’obiettivo di migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche e, nello specifico, di quelle urbane (mobilità, edilizia pubblica, infrastrutture, progetti privati, etc.). Questo si traduce nel tentativo di stimolare il dibattito con mostre, convegni e pubblicazioni e nella volontà di dotare la cittadinanza di strumenti e competenze per incidere nel processo delle trasformazioni urbane. Si tratta insomma di luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali cittadini/territoriali, accesso della società civile ai processi decisionali che producono le politiche d’intervento.

Ebbene, come dicevo, intersechiamo questi ragionamenti. Abbiamo delle nuove modalità di rappresentazione delle strutture e dei flussi territoriali di energia materia e informazione, possiamo tracciare in tempo reale la distribuzione e il movimento di persone e merci, la visibilità di questi specchi elettronici ci permette di vederci e prendere coscienza di noi stessi come compagine sociale in modo nuovo. Abbiamo dei luoghi territoriali deputati a incanalare e organizzare e ridiffondere i flussi informativi prodotti dalla collettività residente su una determinata estensione geografica, quegli Urban Center (i quali dovrebbero essere palestre di Cittadinanza digitale, dove molti ragazzi dei varii Progetti Giovani o Agenzie giovani tipicamente promosse dai Comuni potrebbero passare un po’ di tempo, familiarizzandosi e professionalizzandosi con la narrazione multimediale del territorio, una Civic Curation dei flussi cittadini) che funzionano un po’ come dei grossi gangli del sistema nervoso cittadino, dove l’informazione degli organi di senso viene organizzata e rielaborata e rispedita verso i luoghi decisionali da una parte e come feedback nuovamente verso il sistema nervoso periferico.

Anzi, di più. Non essendo lo Urban Center il centro decisionale, il cervello di questa metafora organicistica, lo possiamo equiparare al cervelletto, dove tutti i segnali nervosi, le connessioni convergono per prime sistematizzazioni, restando sotto la soglia della coscienza. Ma una volta pubblicati i flussi informativi cittadini, sulle dashboard, tutti ne diventano consapevoli, tutti gli attori sociali. Pubbliche Amministrazioni possono progettare meglio la città e i suoi servizi, e ne traggono vantaggio anche le aziende, le associazioni, i cittadini.

Gli obiettivi sono quelli soliti, ma risulterebbero potenziati dall’adozione di questi specchi elettronici in cui vediamo chi siamo mentre viviamo:

  • possiamo incrementare la governance urbana, attivando un processo di co-decisione e co-pianificazione tra i gestori e gli attori della trasformazione urbana
  • possiamo produrre un quadro conoscitivo e interpretativo delle risorse patrimoniali, umane e culturali della città, capaci di attivare processi di rigenerazione e promozione
  • possiamo produrre un quadro valutativo delle trasformazioni in atto e dei progetti di riqualificazione e sviluppo urbano
  • possiamo ridefinire metodologie e strumenti per il coordinamento e l’integrazione dei progetti di riqualificazione urbana e per la progettazione di scenari di sviluppo
  • possiamo sperimentare e mettere in atto pratiche di pianificazione, politiche urbane e progetti di rigenerazione

“Perché nasca un significato condiviso, l’informazione deve essere interpretata dai singoli attori e l’interpretazione data da ciascuno di essi deve essere socialmente negoziata”.

Binari che dividono. La ferrovia Monfalcone – Cervignano

Un esempio di tecnostoria. Cioè, una narrazione esplicativa di come una innovazione tecnologia (in questo caso, la progettazione e la realizzazione di una linea ferroviaria in Friuli Venezia Giulia) poi in qualche modo cagiona modificazioni di  natura sociale, economica, culturale.

Trovato qui.

Sbuffi di fumo – La ferrovia Monfalcone-Cervignano. Le cause storiche ed economiche di una polemica fra Gorizia e i centri della pianura
di Donatella Cozzi

Lo sviluppo ferroviario nei territori della Principesca Contea di Gorizia e Gradisca può essere suddiviso in due momenti cronologicamente distinti. La prima fase fu quella della costruzione della “Ferrovia Meridionale” e del tronco di collegamento con Gorizia e Udine. La “Meridionale”, com’è noto, fu realizzata per collegare Vienna con il suo porto adriatico, Trieste. Avviata alla metà dell’800 come impresa statale, essa fu portata a termine fra il 1857 e il 1859 appunto dalla k.k. Priv. Südbahn Gesellschaft. La seconda fase, invece, iniziò alla fine degli anni ’80 e nei primi anni ’90, quando venne progettata e costruita la congiunzione fra la “Meridionale” e la Bassa friulana, la Monfalcone-Cervignano, tronco austriaco del nuovo collegamento diretto fra Trieste e Venezia; e proseguì poi, nei primi anni di questo secolo, con la realizzazione della ferrovia “Transalpina”, seconda congiunzione con l’interno della Monarchia, che si inserì nel complesso di linee dei Tauri e delle Caravanche (1).
In questo articolo ci occuperemo in particolare della costruzione della linea Monfalcone-Cervignano, e delle polemiche che accompagnarono la realizzazione di questo progetto: cercheremo di illustrare i motivi per cui i comuni della pianura (Monfalcone, Ronchi, Cervignano), pur con qualche divergenza – come vedremo -sul tracciato, ne caldeggiarono la costruzione, mentre Gorizia, invece, manifestò contro di esso una forte ostilità.
Occorre premettere che già nella fase di progettazione del collegamento fra la “Meridionale” e Udine era stato sollevato il problema dei collegamenti fra l’alta e la bassa pianura goriziana. Allora, da parte della pianura, era stata espressa la preoccupazione che un tracciato ferroviario ad essa troppo sfavorevole (inizialmente godeva credito l’ipotesi di realizzare la congiunzione con Gorizia attraverso il Vallone) potesse danneggiarla ed emarginarla economicamente. Ed erano state avanzate delle proposte di tracciati alternativi, che per Gorizia prevedevano soltanto un raccordo supplementare, mentre la linea principale avrebbe dovuto raggiungere direttamente Udine, o lungo la direttrice Sagrado-Versa-Palmanova, oppure più a Sud, unendo Monfalcone a Palmanova attraverso Pieris (2).
Ma, com’è noto, non se ne fece nulla, e quindi il completamento della “Meridionale”, realizzato alla fine seguendo l’attuale percorso Monfalcone – Sagrado Gorizia, lasciò irrisolto il problema di una più diretta comunicazione fra la Destra Isonzo e i centri urbani di Trieste, Gorizia e Udine.
Successivamente, la stasi degli investimenti, conseguente al crollo della Borsa di Vienna del 1873, bloccò, come si sa, per oltre un decennio lo sviluppo ferroviario nei territori dell’Impero. Così dei collegamenti ferroviari attraverso la parte meridionale della pianura goriziana si ricominciò a parlare solo alla fine degli anni ’70, ma, come tenteremo di mostrare brevemente, il problema della creazione di questa infrastruttura ferroviaria si inserì questa volta in un contesto economico e sociale, ma anche politico-nazionale, notevolmente mutato rispetto agli anni ’50.
Il distretto di Cervignano, sorto dall’unione dei distretti di Aiello e di Monastero, era la più estesa zona agricola della pianura della Contea. Esso aveva conosciuto fino alla metà dell’Ottocento una notevole prosperità agricola. E se i contatti commerciali più intensi continuavano ad essere, come nel ‘700, quelli con il Friuli occidentale e con il Veneto, considerevolmente cresciuti erano anche i rapporti con Trieste, città in espansione, verso la quale sempre di più ci si rivolgeva per l’esportazione della ricca produzione vinicola locale. I legami e gli scambi economici con Gorizia erano invece rimasti sempre modesti, ma l’identità di lingua, di cultura e di valori dei ceti agrari dominanti (scarso era ancora il peso a Gorizia della borghesia urbana commerciale e delle libere professioni) era sufficiente a dare il senso di una comunanza di fondo fra il capoluogo e i vari territori della pianura.
La crisi agraria degli anni ’50, provocata dalle malattie che colpirono dapprima la produzione vinicola (ciò che determinò la perdita del proficuo mercato di Trieste, il quale si orientò verso i vini istriani e dalmati), e in seguito quella del baco da seta, modificò radicalmente la situazione precedente (3). Già di per sé grave, in quanto aveva investito un sistema agricolo ed economico arretrato, la crisi venne successivamente dilatata dalla delimitazione dei nuovi confini nel 1866, in quanto i nuovi vincoli doganali privarono il Cervignanese dei tradizionali sbocchi commerciali di Palmanova e Udine.
Sebbene dopo il 1866 il paese di Cervignano (come, in misura inferiore, Cormons e Gradisca) traesse un certo beneficio dal fatto che cominciò a configurarsi come centro urbano di scambio e di mercato, proprio in virtù della perdita dei mercati di Palma e di Udine, e alla conseguente crescita della circolazione delle merci all’interno del distretto, e per quanto sorgessero alcuni piccoli stabilimenti industriali (4), la situazione economica complessiva della zona andava continuamente peggiorando. Dopo il cattivo raccolto del 1879 cominciarono ad emergere anche le conseguenze sociali della prolungata crisi, e si diffusero progressivamente la miseria endemica, la disoccupazione, l’alcolismo e la pellagra. Così, tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 il Cervignanese venne – assai più duramente delle altre aree della Contea – investito dall’esodo migratorio verso l’America, segnale drammatico questo, della decadenza economica che ormai travagliava in modo cronico la zona (5).
Si può ben capire perciò come il ceto commerciale e imprenditoriale cervignanese accogliesse con grande fervore il ventilato progetto di congiunzione ferroviaria con Trieste (e con Venezia). Lo scalo fluviale sull’Aussa, che garantiva un quotidiano collegamento con Trieste, era reputato ormai del tutto insufficiente, e quindi Cervignano con sempre maggior forza e decisione, sostenuta dal consenso degli altri comuni della bassa pianura, cominciò a premere per la realizzazione della nuova ferrovia, ritenuta strumento indispensabile per risollevare “le Basse” e riportarle all’antica prosperità.
Ben diverso fu invece l’atteggiamento assunto da Gorizia di fronte a questa via di comunicazione. Il capoluogo provinciale aveva conosciuto fra il 1860 e il 1880 un discreto sviluppo. Grazie a Ritter, si era verificato un ampliamento e un potenziamento delle attività industriali, mentre la funzione commerciale della città si era andata rafforzando, in quanto né la zona del Collio, con i suoi vini pregiati, né la vallata del Vipacco, in cui si andava sviluppando la produzione ortofrutticola e la viticoltura, erano state investite dalle malattie e dalla crisi che aveva colpito la bassa pianura. Agli occhi della borghesia urbana italiana (ora molto più consistente) questa situazione, tuttavia, appariva preoccupante. Essa, infatti, dopo il 1866, si dimostrava sempre più attenta a salvaguardare la propria identità nazionale (auspicando in tal senso una più stretta unione con la pianura), e guardava quindi con sospetto una crescita che vedeva Gorizia diventare sempre di più centro di scambi commerciali per i contadini e i piccoli proprietari del suo circondario sloveno, dal quale proveniva anche la maggior parte degli operai occupati nelle fabbriche, mentre di fatto sempre più esili diventavano i rapporti e gli scambi con il distretto di Cervignano (6).
Gli italiani di Gorizia, insomma, sentivano che mentre in città cresceva la presenza ed il peso economico degli sloveni, i legami con il retroterra friulano e italiano si stavano progressivamente allentando, e temeva che tutto ciò in prospettiva finisse per determinare una situazione di debolezza per la loro componente. D’altronde il favore con cui la borghesia liberalnazionale aveva accolto e incoraggiato, alla fine degli anni ’70, lo sviluppo indutriale nel Gradiscano e nel Monfalconese, non aveva certo contribuito a rendere più solidi i rapporti con questi distretti, poiché aveva alienato ad essa le simpatie di molti proprietari terrieri, preoccupati dei fenomeni di dissoluzione del vecchio ordine economico-sociale che le fabbriche avrebbero potuto innescare (7).
E’ comprensibile perciò che tutti coloro i quali ritenevano essenziale impedire che Gorizia finisse per gravitare sempre di più nell’area slovena della provincia vedessero come un gran pericolo la costruzione della Monfalcone-Cervignano, che avrebbe contribuito ulteriormente a decentrare il capoluogo dalle correnti di traffico della pianura.
Ma non furono solo coloro cui stava a cuore la fisionomia nazionale della città a fare opposizione. Negli anni ’80 Gorizia cominciava anch’essa a risentire della generale recessione economica che aveva colpito l’intera Monarchia. Languivano le industrie, era in crisi il settore serico (che assegnava al capoluogo la funzione di polo di smercio per i bachicultori di tutta la provincia), cresceva la disoccupazione e segnali di stagnazione si cominciavano ad avvertire pure nel campo delle attività commerciali (8). Tutto ciò, quindi, favorì il coagularsi di un dissenso pressoché unanime nei confronti della progettata linea ferroviaria, che, si disse, avrebbe provocato un danno economico gravissimo alla città e ne avrebbe causato la “rovina”.
Queste preoccupazioni e questa ostilità, tuttavia, non emersero in seno alla Dieta provinciale. Dopo i primi contatti tra il governo austriaco e quello italiano, che si erano tenuti – mediatore l’ingegnere cervignanese Giacomo Antonelli – nel 1882, la Dieta nel 1885 incaricò l’ing. Stummer di stendere il progetto della linea, e nel 1889 si pronuciò a favore della sua realizzazione. Ciò avvenne perché in quella sede si determinò una convergenza tra i deputati italiani dei comuni e delle borgate della pianura e quelli sloveni, i quali dal canto loro premevano per la costruzione del tronco di collegamento diretto fra Gorizia e la “Meridionale”, da realizzare a Postumia o Loitsch (Logaec) attraveso la valle del Vipacco (9).
L’opposizione alla Monfalcone-Cervignano fu quindi un fatto essenzialmente cittadino. Si schierarono contro la ferrovia il “Corriere di Gorizia”, organo della borghesia liberalnazionale, con trasparenti (anche se non esplicite) motivazioni di ordine nazionale, la Camera di Commercio che si soffermò invece sulle ragioni di natura economica, e infine il Consiglio comunale, nel quale i due ordini di considerazioni finirono per sovrapporsi. Con una certa cautela e prudenza si mosse soltanto il foglio cattolico “L’Eco del Litorale” (10).
La presa di posizione del Consiglio comunale venne redatta al termine di una serie di riunioni abbastanza tormentate. Il 19.11.1889, nella prima seduta dedicata all’argomento, a dar voce all’opposizione più intransigente fu il conservatore indipendente on. Marzini. Egli, confutando la relazione presentata alla Dieta da Luigi Pajer, dichiarò che la ferrovia, oltre a causare un danno incalcolabile a Gorizia, non avrebbe giovato significativamente neppure ai comuni direttamente interessati dal tracciato. Il gruppo liberale, che per ragioni di autodifesa nazionale avrebbe volentieri fatto proprie queste posizioni, ma che temeva al tempo stesso di arrivare ad una rottura troppo netta con i “fratelli” del Cervignanese (ciò che dal punto di vista nazionale era altrettanto pericoloso), demandò ad una commissione lo studio delle iniziative da prendere (11). In questa sede, tuttavia, non si riuscì a giungere a conclusioni unanimi e, mentre in città si stampavano dei volantini rivolti alla cittadinanza e si raccoglievano migliaia di firme contro la ferrovia (12), la relazione di maggioranza presentata al Consiglio finì per attenuare l’opposizione, in quanto si limitava a chiedere che prima di costruire la Monfalcone-Cervignano si realizzasse un piano di trenovie locali, indipendenti dalla “Meridionale”, che servissero a collegare in modo più stretto Cervignano a Gorizia (13). In aula sorsero nuove divergenze e non si riuscì ad arrivare ad un voto definitivo. Il consigliere liberale Nardini non esitò a dichiarare apertamente che alla Dieta gli sloveni avevano appoggiato la costruzione della nuova ferrovia perché erano interessati a indebolire Gorizia come centro italiano (14).
A dar forza al partito degli oppositori intransigenti intervenne anche la risoluzione negativa votata dalla Camera di Commercio. Così alla fine, il 23.12.1889, venne redatta una petizione da rivolgere all’Impertaore, in cui si dava corpo in forme esplicite alle proteste e alla contrarietà di Gorizia alla linea (15). Unica voce di dissenso fu quella del conte Coronini, il quale lamentò la miopia della città che voleva imporsi, a suo giudizio, sui voleri e sulle necessità dei comuni della Bassa. Egli confutò tutti i supposti svantaggi del tracciato, e dimostrò come in realtà la crisi che travagliava Gorizia fosse imputabile a motivi che travalicavano la situazione locale, in quanto derivava da cause generali come le spinte protezionistiche, l’eccesso di produzione, l’elevata pressione fiscale e le esorbitanti spese militari, tutti fattori con cui la costruzione della ferrovia aveva ben poco a che vedere (16). Benché godesse di grande prestigio anche fra i liberalnazionali, il Coronini venne duramente criticato per questo suo intervento dal “Corriere di Gorizia” (17).
Non abbiamo fin qui accennato alle posizioni che di fronte al progetto ferroviario emersero a Trieste. La linea offriva il vantaggio di ridurre la lunghezza del tragitto Trieste-Venezia di ben 70 km, evitando il lungo giro per Udine-Conegliano-Treviso. Ciò in breve avrebbe permesso a Trieste di battere la concorrenza della città lagunare nel traffico con il Levante, offrendole al tempo stesso un ingresso più diretto verso Occidente. Ma Trieste aveva interesse a ricercare anche un “avvicinamento” con il Monfalconese e con il basso Friuli. Esaurita la funzione di emporio mercantile, e spinta alla ricerca di una alternativa industriale alla crisi che aveva colpito il porto negli anni ’60, la città che era priva di un immediato retroterra agricolo, che aveva notevoli problemi di rifornimento alimentare ed era povera di risorse idriche necessarie per alimentare le industrie, aveva cominciato proprio in quel periodo a rivolgere il proprio sguardo alla pianura occidentale, abbondante di corsi d’acqua, fertile e adatta all’insediamento di nuove fabbriche anche per la disponibilità di mano d’opera a basso costo (18).
E’ naturale pertanto che la stampa triestina caldeggiasse la realizzazione della nuova ferrovia e criticasse aspramente la posizione assunta da Gorizia, che essa giudicò di semplice difesa “campanilistica” (19). La Società degli Ingegneri ed Architetti di Trieste approvò all’unanimità, nel congresso del 27 dicembre 1889, una mozione a favore della direttissimo Monfalcone-Cervignano (20), mentre nel marzo 1890, nel presentare al Consiglio comunale di Trieste una relazione sulla questione ferroviaria, l’on. Angeli sottolineò i profondi legami che già univano la città con i distretti di Monfalcone e Cervignano (21).
Incoraggiata da questi appoggi, anche Cervignano decise di scendere in campo per far sentire la voce della pianura e controbattere l’ostilità di Gorizia.
Il 12 gennaio 1890 si tenne nel capoluogo distrettuale una grande manifestazione a favore della ferrovia, cui parteciparono i podestà delle località interessate (22), una rappresentanza della Società Ingegneri e Architetti di Trieste, il rappresentante governativo Giovanni Battista Wingschgau e numerose personalità politiche della provincia. Il successo della riunione fu tale che gli stessi liberal-nazionali di Gorizia dovettero prendere atto dell’importanza politica che assumeva una così vasta aggregazione attorno a questa rivendicazione (23). Tutti i relatori, infatti, sottolinearono con enfasi il ruolo che la ferrovia avrebbe avuto nel risorgimento economico della zona, mentre una commissione venne incaricata di redigere un memoriale da inviare all’Imperatore a sostegno della linea (24).
Dalle informazione che si possono desumere dalla stampa locale, risulta che le proteste di Gorizia non erano state accolte con molto favore a Vienna, anche perché, mentre la linea Cervignano veniva giudicata importante non solo per motivi economici, ma anche per ragioni strategico-militari, la richiesta che il capoluogo provinciale faceva di altre congiunzioni ferroviarie appariva al momento irrealizzabile, data la scarsa disponibilità di fondi (25). Perciò, quando giunse la risposta ufficiale ai due contrapposti memoriali, in cui si affermava che si sarebbe aiutata la pianura badando di non danneggiare Gorizia, tutto lasciò capire che, per quanto riguardava il governo, la vicenda era da considerarsi ormai chiusa, con l’assenso alla costruzione della linea, cui doveva soltanto aggiungersi, in sede legislativa, la definitiva sistemazione degli oneri finanziari e del tracciato (26).
Ma proprio su quest’ultimo punto, cessata la disputa di fondo (la stampa liberale di Gorizia finì per fare buon viso a cattivo gioco, per non aggravare ulteriormente la profonda frattura verificatasi con Cervignano(27)), si aprì una seconda controversia, sia pure di minor portata, relativa al punto di allacciamento della nuova ferrovia alla “Meridionale”, a Ronchi o a Monfalcone, alternativa che fino a quel momento non era stata approfondita, essendo in discussione la realizzazione stessa della linea.
A prima vista, considerata la vicinanza dei due centri, si potrebbe pensare che si trattava di una decisione di scarso rilievo, ma in realtà va ricordato come dietro ciascuna delle due ipotesi finirono per ritrovarsi nuovamente degli interessi contrapposti.
A spalleggiare Ronchi, che cercò ovviamente di mettere in campo le ragioni a proprio favore (28), si schierò infatti Gorizia, che si trovò a difendere questa scelta come il male minore, in quanto, sia pure di poco, le permetteva di ridurre la propria distanza dal nuovo tronco ferroviario.
Trieste, invece, puntò con decisione all’allacciamento a Monfalcone e sostenne questa tesi con l’argomentazione che il Monfalconese era la zona da privilegiare nelle comunicazioni, in quanto era destinata a svilupparsi industrialmente con capitali triestini (29). Anche Monfalcone, naturalmente, si adoperò per conseguire la soluzione più vantaggiosa per i propri interessi, e in tal senso presentò anche un ricorso alla Dieta provinciale di Gorizia, per confutare le tesi di quanti erano favorevoli all’allacciamento a Ronchi (30).
Questa querelle durò tre anni e si protrasse fino al 1893 con un’abbondante produzione di memoriali, prove e studi in appoggio all’uno o all’altro tracciato. Per quanto riguarda Cervignano, cui premeva soprattutto la rapida costruzione della linea, la sua podesteria dichiarò la propria disponibilità per entrambe le soluzioni, nell’interesse dei suoi abitanti e dei paesi vicini (31).
L’allacciamento a Monfalcone venne alla fine deciso il 21 marzo 1893 e, oltre al peso politico ed economico delle motivazioni addotte da Trieste, giocò a favore di questa scelta anche la considerazione che l’amministrazione italiana avrebbe acconsentito a trasformare il proprio tronco in linea di prima categoria, dotandola dei necessari requisiti solo se in territorio austriaco questa avesse raggiunto nel modo più celere un centro di movimento commerciale come, appunto, Trieste (23).
Il progetto di legge approvato alla Camera di Vienna (33) prevedeva, congiuntamente al prestito di 1.300.000 fiorini da estinguersi in 75 anni -emesso a condizione che i comuni dei distretti interessati e la provincia di Gorizia si impegnassero ad acquistare le azioni della società concessionaria (34) – una derivazione con trenovia a vapore per Porto Rosega, ed altre due per Aquileia-Belvedere e Villavicentina-Gradisca. La società della “Meridionale” da parte sua rinunciò al diritto di priorità sul territorio attraversato dalla Monfalcone-Cervignano, conferitole con la concessione del 23.09.1858.
Da Monfalcone la linea raggiungeva Pieris, oltrepassava il nuovo ponte di ferro sull’Isonzo, poggiante su sette pilastri di 50 m. di campata, costruito dalla Società alpina di Graz, per continuare fino a Cervignano. Tre anni più tardi si sarebbe completata la congiunzione Cervignano-San Giorgio di Nogaro, realizzando così il collegamento diretto con Venezia.
L’inaugurazione della direttissima Monfalcone-Cervignano avvenne il 10 giugno 1894 (35). Se al momento tutti fecero mostra di accogliere con gioia l’evento, in realtà assai profonda era la lacerazione che la vicenda di questa ferrovia aveva messo in luce e certamente aggravato.
Se ne era avuto un primo segnale già nel corso degli incontri fra gli esponenti liberalnazionali della provincia per la designazione dei candidati alle elezioni parlamentari del 1891. In una riunione di podestà, tenuta a Romans, si verificò una netta frattura fra i fautori del “goriziano” Marani e i sostenitori del “cervignanese” Lovisoni, e benché in minoranza i rappresentanti dei comuni delle “Basse” finirono per imporre il loro candidato: si sostenne che era ora di finirla con il “giogo goriziano”, e che era necessario che la provincia si “emancipasse” dalla “schiavitù” (politica, s’intende) in cui la teneva il capoluogo (36). Il risultato fu che, benché i tempi andassero mutando e lo spirito laico e liberale cominciasse a penetrare anche nei piccoli centri della provincia, la vittoria finì per andare ancora una volta al sacerdote candidato dai cristiano-sociali (37).
Innescato (o quanto meno dilatato) dalla polemica sulla ferrovia Monfalcone-Cervignano un velo di incomprensione e di diffidenza scese così a corrodere la reciproca fiducia fra gli esponenti della borghesia liberalnazionale delle Basse e di Gorizia e si protrasse nel tempo, rendendo particolarmente difficile a queste forze, quando alla fine del secolo furono investite dalla serrata polemica sociale del partito cattolico, ritrovare un comune terreno d’intesa.
Anche perché, grazie alla ferrovia, Monfalcone e Cervignano finirono per legarsi economicamente molto di più a Trieste che a Gorizia, la quale – le trenovie locali, come si sa, non vennero mai costruite – vide aggravarsi in tal modo il suo isolamento dai territori della pianura.

TecnoViaggi, format per le narrazioni territoriali a finalità turistica

Percezione del Territorio 
L’edificazione di percorsi di turismo territoriale nell’Artificiale dei Luoghi Esperti, nel paesaggio antropizzato e “costruito” in cui noi tutti viviamo le nostre esistenze biodigitali, mirando alla concezione del territorio in chiave tecnologica, pone il fare umano al centro dell’attenzione: la comprensione delle reti produttive, distributive, relazionali disegnate dalla millenaria azione dell’umanità sull’ambiente in un dialogo vitale diventa comprensione profonda e sistemica delle peculiarità glocali secondo gli strumenti della Cultura Tecnologica e TecnoTerritoriale, soprattutto attraverso l’indagine esplorativa dei Tecnoviaggi nei Luoghi Esperti; in tal modo i valori e le pratiche umane della Trasformazione tecnologica e della Connessione territoriale diventano riflessione consapevole ed esperienza del carattere fortemente tecnologico degli ambienti di vita quotidiana, della necessità di uno sguardo ecosistemico nell’interpretazione del territorio per una maggiore cura dell’Abitare. Di qui discende l’individuazione di narrazioni di qualità, capaci di raccontare il territorio nelle offerte culturali e turistiche, in quanto costitutivamente composte da elementi descrittivi, memorie collettive, tracce architettoniche e ambientali, scritte nei secoli sul territorio dalle collettività che ci hanno abitato, modificandolo.
La progettazione delle offerte culturali e quindi turistiche centrate sull’area geografica prevede l’individuazione di una “dorsale” ovvero di un forte elemento connotante di tipo geografico/ambientale – ad esempio vie di comunicazione terrestre, fiumi, rilievi montuosi o collinari quali elementi simbolici connotanti) o concentrazioni territoriali di tecnologie di trasformazione delle risorse naturali oppure presenze forti di manufatti – a cui collegare con motivazioni desunte dalla storia e dalla cultura locale delle fasce di territorio adiacente per una profondità di circa venti kilometri, secondo un modello in grado di cogliere i significati “prossemici” tipici di una semantica degli spazi sociali, su scala ampia. 
Le fasce prossemiche a loro volta contengono delle Unità di Paesaggio, da intendersi come luoghi del territorio naturali o costruiti particolarmente notevoli in relazione a finalità di tipo turistico, di cui è necessario dare adeguata rappresentazione nel prodotto documentale sfruttando tutte le possibilità offerte dalle moderne Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione su web. 
In tal modo l’Unità di Paesaggio diviene eloquente, nella rappresentazione di sé offerta da documentazione testuale, audiovisiva, grafica (mappe interattive), e nella progettazione di percorsi tematici di Cultura Tecnologica a finalità turistica. 
L’obiettivo esplicito è qui costituito dalla progettazione di TecnoViaggi in grado di realizzare la narrazione del territorio, ovvero l’organizzazione grammaticale di elementi significativi distinti offerti dalle peculiarità paesaggistiche, in direzione di una loro rappresentazione ipermediale sui luoghi mediatici di promozione territorial-turistica e nella conversazione geolocalizzata (turismo 2.0).

Mappe digitali storiche (con indicazioni socioeconomiche)

Sul sito dell’Università di Stanford ecco Orbis, un bell’esempio di una mappa digitale Geospatial Network Model tutta dedicata all’Impero Romano del 200 dopo Cristo. Un modello dei trasporti, uno strumento di conoscenza del territorio importantissimo (e con ottimi possibili utilizzi anche in ambienti formativi), dove alla comprensione visiva  dei traffici commerciali o militari dell’epoca lungo le vie consolari che circondavano e tuttora circondano il Mediterraneo è possibile avere informazioni di carattere economico e socioculturale sulla vita di allora. Ci sono dei video esplicativi, buone descrizioni.
Quanti giorni si impiegavano per andare da Aquileja a Costantinopoli? A quale prezzo? E se fossi stato un imprenditore nel ramo dei trasporti o un commerciante di derrate alimentari e avessi dovuto aggredire i mercati esteri esportando farina, quanto mi sarebbe costato portarne circa 9kili, ovvero un moggio?
Siam sempre lì: a capire bene il tecnoterritorio (anche e soprattutto nella dimensione diacronica, per comprendere in prospettiva le direzioni dello sviluppo storico dell’Abitare), si capisce bene il territorio.

ORBIS: The Stanford Geospatial Network Model of the Roman World reconstructs the time cost and financial expense associated with a wide range of different types of travel in antiquity. The model is based on a simplified version of the giant network of cities, roads, rivers and sea lanes that framed movement across the Roman Empire. It broadly reflects conditions around 200 CE but also covers a few sites and roads created in late antiquity.
The model consists of 751 sites, most of them urban settlements but also including important promontories and mountain passes, and covers close to 10 million square kilometers (~4 million square miles) of terrestrial and maritime space. 268 sites serve as sea ports. The road network encompasses 84,631 kilometers (52,587 miles) of road or desert tracks, complemented by 28,272 kilometers (17,567 miles) of navigable rivers and canals.

Enzo Rullani: territori e valori

Rullani mette in luce alcuni risvolti dell’economia globalizzata, e indica vie da prediligere per comprendere il territorio e la sua collettività, come progetto identitario e conversazione.

Qui una sintesi per punti fatta da Dario Salvelli

  • In un economia della conoscenza se tu sei uguale ad un altro non porti un piffero, il tuo valore aggiunto è zero
  • Una buona idea che rimane confinata in un ambito ristretto vale poco non diventa una forza trainante, una motrice, una spinta di business. Il valore si crea moltiplicando l’idea.
  • Le aziende più o meno se la cavano sempre ma chi rischia con la globalizzazione sono i territori, che non si possono spostare, ed i lavoratori che dovranno giustificare la differenza di reddito con altri mercati, oggi scontata, ma tra 3-4 anni assurda ed indifendibile.
  • Dobbiamo avere una diversa economia della conoscenza nelle fabbriche usando in maniera diversa le idee, i significati, il valore che si dà al prodotto che ha valore perchè si inserisce in una filiera che gli dà qualità, moltiplicatori. E’ l’intelligenza che sta nella testa delle persone che conta non nelle macchine.
  • Il nostro sistema industriale non ha mai presidiato le filiere, nessuno ha mai controllato e organizzato il valore che c’è a valle delle filiere.
  • Il territorio è una delle reti, non il contrario. Il territorio deve dare delle reti importanti locali basati sulla prossimità e l’accesso alle reti grandi e aperte.
  • Il territorio è l’identità costruita non quella storica. Bisogna interrogarsi su cosa il territorio vuole diventare. Dobbiamo imparare a raccontare e a raccontarsi: il racconto è fatto di arte, letteratura, di film, esperienze, del creare una città viva, del fare in modo che emergano idee condivise da una popolazione.
  • Dobbiamo cominciare a costruire lo spazio metropolitano, lo spazio di quelli che lavorano con noi in idee di mercato e servizi rari, importanti.
  • Il territorio non è affidato al Comune, alla Provincia, alla Regione, al federalismo. E’ una idea sbagliata: il territorio è dei cittadini che si muovono nello spazio e vanno a cercare ciò che gli serve.
  • E’ l’apertura della Rete delle persone che fa i moltiplicatori.

Gestire le città

via Downloadblog

Grazie ad IBM, la città texana di Corpus Christi, che conta 280000 abitanti, potrebbe diventare un esempio di efficienza e di sostenibilità ambientale. Il progetto di IBM battezzato Smarter Planet promette di usare le tecnologie più avanzate per trasformare le città mediante software per la misurazione, il monitoraggio e l’ottimizzazione delle risorse idriche, delle strade, degli aeroporti, parcheggi e tutte le infrastrutture fondamentali per la vita di un centro urbano.
Il software sviluppato da IBM permette una visione in tempo reale dello stato delle risorse controllate ed, insieme ad una rappresentazione su una mappa dettagliata del territorio, mette in evidenza le zone che presentano delle criticità da affrontare. I cittadini di Corpus Christi hanno già risparmiato molti litri d’acqua grazie all’uso dei sistemi di controllo messi a loro disposizione dal colosso americano: piccole falle nel sistema di tubature, che causavano enormi perdite globali, sono state individuate e pian piano sono in via di riparazione.
Altre città sarebbero all’attenzione dei tecnici: presto grandi centri come Londra, Stoccolma, Sydney, Dublino ed Amsterdam potrebbero adottare un sistema simile per gestire le loro risorse in maniera più intelligente. La somiglianza di questo sistema con giochi come SimCity salta all’occhio immediatamente e già ci si immagina il sindaco o l’amministrazione comunale con un mouse in pugno a cercar di risolvere ingorghi stradali o ristrutturazioni di edifici fatiscenti. Per fortuna nessuno avrà l’opzione di inviare alieni, uragani o terremoti con un semplice click come nel gioco della Maxis.

Maggiori informazioni sul sito IBM (in inglese).

Cellulare glocale, e senso di communitas.

Del glocale, in un mondo connesso, interessa il locale. Perché diventa subito globale. E come il web è rete di reti (inter-net), così il consorzio umano è una rete di collettività.
Rendo eloquente, promuovo l’espressione di ciò che sento, per intrecciarla con il discorso umano tutto, e ne lascio traccia.
Se il globale è la visione di un orizzonte da cui traiamo indicazioni per orientarci, per non perderci nel girare in tondo in giardino, nel locale c’è l’udito, il tatto, il gusto, il sapore dell’esperienza concreta, il mio risuonare.
Il Cittadino, sappiamo, è tale davanti la Legge. Direi quasi che si tratta di Essere Cittadini, come condizione automatica del nostro riconoscimento e della nostra riconoscibilità dinanzi i diritti e i doveri; ed è una condizione che nasce sulla soglia di casa, guardando la strada.
Ma Fare il Cittadino è Abitare, aver cura dei Luoghi. C’è uno spirito, un sentimento, una partecipazione. Sono Cittadino con la vista, Abito (faccio l’Abitante) con tutti in sensi, in tutti i sensi.
E Granieri segnala una accezione anglofona di communitas, che poi è vicina al significato latino, dove si intende proprio recuperare il sentimento del fare comunità.
E come Cittadino e Abitante, questo sentimento, questo spirito profondo di appartenenza connota questa distinzione tra Cittadinanza (nome collettivo) e Comunità, oltre la community strutturata per cogliere la communitas.
Jeff Jarvis dice che il local lo fa il telefono cellulare, in questo suo articolo Mobile=Local.
Lì dentro, dentro quel dispositivo tecnologico connetti-umani, convivono le anime individuali e collettive, le parole di espressione di sé, la nuvola dell’abitare sociale.
E per questo Google e Nokia e le aziende sono interessatissime a rendere visibili i flussi di abitanza locale, a portare gli ethnoscapes dentro i mediascapes, paesaggi mediatici concreti creati dal nostro agire comunicativo.
Cosa sta succedendo intorno a me? Col cellulare smart posso fare una fotografia del bar all’angolo, e chiedere al web cosa ne sa di quel posto, se ci sono dei miei amici lì in giro, se il posto è piacevole, se ci sono dei dati pubblici governativi su quel luogo, posso vedere il menù e i tipi di birra serviti, posso sapere che gruppetto rock ci suona stasera, ascoltare dei loro pezzi o vedere un loro video, e tutto questo lo dico e lo faccio insieme ai miei amici, tutti connessi nel pensare in modo aumentato, e questo è local.
Per fare tutto questo per bene, Google ha bisogno di due cose: innanzitutto, ha bisogno di avere più dati. Ha bisogno che noi annotiamo il mondo con le nostre informazioni, e se non riesce a trovare queste informazioni, creerà gli strumenti per generarle.
In secondo luogo, Google ha bisogno di sapere più cose di noi, ha bisogno di ulteriori tracce del nostro fare, del nostro abitare fisico e digitale (dentro i social network) nei Luoghi, per offrire dei servizi che possano essere per noi rilevanti.

Tecnologie appropriate all’ambiente naturale

Incollo qui uno scritto di Giulio Ripa (addirittura in copyleft, ma linkare la fonte non costa nulla) dove viene proposta un’analisi comparativa tra ecosistema e tecnosistema, per definire le caratteristiche delle tecnologie appropriate all’ambiente naturale.

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I principi dell’ecologia ci inducono a pensare di avere, come necessario punto di riferimento, la struttura e le funzioni di un ecosistema, nella progettazione dei sistemi territoriali fisici costruiti dall’uomo (sistemi tecnologici).

L’unità funzionale nello studio dell’ambiente naturale è l’ecosistema, cercheremo allora di considerare nello studio dei sistemi tecnologici, per facilitarne l’analisi, delle unità funzionali che chiameremo tecnosistema.
Il tecnosistema può essere considerato alla stessa maniera dell’ecosistema in quanto sia nell’uno che nell’altro sistema possono definirsi le funzioni di produzione, consumo, decomposizione.

Le somiglianze tra questi due sistemi ambientali quello naturale e quello tecnologico sono ovvie e possono essere studiate e valutate allo stesso modo, anche perché non bisogna dimenticare che il tecnosistema è in effetti esso stesso una parte dell’ecosistema.
La successione (sviluppo) di un ecosistema tende al suo culmine ad un ecosistema maturo (climax), che denota il massimo grado di equilibrio con l’habitat fisico in cui per unità di flusso energetico disponibile viene raggiunto il mantenimento massimo della complessa struttura della biomassa (es. foreste tropicale, barriere coralline, etc).
Partendo quindi dalle caratteristiche prevedibili dell’adattamento e sviluppo di un ecosistema maturo, possiamo definire parallelamente le caratteristiche che dovrebbe avere un tecnosistema “maturo”, considerato come un “ambiente dove l’energia fluendo in un insieme di componenti tecnologici interdipendenti, trasforma e ricicla la materia”.

Dal confronto seguente possiamo delineare una strategia per scegliere le tecnologie appropriate all’ambiente naturale in cui i sistemi ambientali tecnologici (tecnosistemi) siano organizzati in modo analogo ai sistemi ambientali naturali (ecosistemi), integrandoli nella struttura e funzionamento della natura.

Stabilità produttiva

  • Ecosistema: nei sistemi maturi si tende alla stabilità produttiva, l’energia fissata tende ad essere bilanciata dal costo di mantenimento e controllo della comunità biotica. Si dimensiona il tutto sull’imput costante dell’energia solare.
  • Tecnosistema: un tecnosistema maturo si dimensiona sull’imput di fonti energetiche e risorse rinnovabili (biomasse, sole, vento, etc.). Il sistema produttivo deve raggiungere una condizione di “crescita zero” almeno per quanto riguarda l’accumulo dei mezzi di produzione e i prodotti che ne derivano. L’unica crescita è dedicata al controllo ed al mantenimento della qualità del sistema (conservazione dell’energia, efficienza energetica, riciclaggio, etc).

Specializzazione

  • Ecosistema: la distribuzione spaziale delle specie componenti l’ecosistema è ottimizzata in funzione della specializzazione. Ogni specie vivente ha la sua nicchia ecologica per svolgere caratteristiche funzioni biologiche adattate al proprio habitat.
  • Tecnosistema: distribuzione territoriale delle attività del sistema tecnologico, facendo uso di tecnologie appropriate agli scopi finali in modo da migliorare il rendimento del secondo ordine nelle trasformazioni energetiche; usare quindi tecnologie che devono essere coerenti all’uso finale di energia anche nel suo aspetto qualitativo.

Biodiversità

  • Ecosistema: la diversità di specie è alta. Lo sviluppo della biodiversità, insieme alla distribuzione spaziale delle specie favorisce l’uso delle risorse del territorio dando origine ad un sistema complesso ben equilibrato e stabile, con maggiori possibilità di controllo.
  • Tecnosistema: uso del concetto di bacino idrografico che unisce attributi naturali ed attributi culturali. Questo favorisce soluzioni tecnologiche diversificate, corrispondenti per scala e distribuzione geografica ai bisogni dei consumatori finali, grazie alla reperibilità della maggior parte dei flussi energetici rinnovabili, in modo tale che l’offerta di energia è in realtà un insieme di singoli e limitati apporti, ciascuno dei quali in grado di assicurare l’optimum di efficienza in circostanze definite in rapporto all’utilizzo finale (es. aerogeneratori, biocarburanti, pannelli solari, celle fotovoltaiche, celle a combustibile, etc).

Riciclo della materia

  • Ecosistema: i sistemi maturi presentano, una maggiore capacità di trattenere la materia, riciclandola attraverso la chiusura dei cicli biogeochimici. Mediante la decomposizione dei residui organici si riciclano i nutrienti inorganici come fonte di approvvigionamento per le piante. E’ rispettato così l’equilibrio tra la velocità di produzione e la velocità di decomposizione.
  • Tecnosistema: riciclo dei prodotti di scarto, attraverso la raccolta differenziata dei rifiuti, il recupero o la trasformazione (decomposizione) dei rifiuti mediante digestione e fermentazione anaerobica, compostaggio in prodotti collaterali (es.compost, biogas, idrogeno, metano, etanolo, etc). Nei sistemi maturi è necessario l’uso di materiali biodegradabili che permettono il ritorno dei residui nella fase di produzione, in modo che ogni prodotto di scarto del passaggio precedente nella catena di produzione, distribuzione e consumo sia l’input di quello successivo. Il processo tende così alla ciclicità. In particolare l’utilizzazione delle biomasse per fini energetici non contribuisce all’effetto serra, poiché la quantità di anidride carbonica rilasciata durante la decomposizione, sia che essa avvenga naturalmente, sia per effetto della conversione energetica, è equivalente a quella assorbita durante la crescita della biomassa stessa; non vi è, quindi, alcun contributo netto all’aumento del livello di CO2 nell’atmosfera.

Autoregolazione

  • Ecosistema: se il sistema viene in qualche modo alterato dall’esterno, tende a modificarsi fino a raggiungere una condizione di stabilità attraverso meccanismi di autoregolazione (omeostasi). Per cui le funzioni di ogni organismo vengono integrate rispetto alle altre funzioni dell’ecosistema, di conseguenza viene privilegiata la qualità a discapito della quantità massima della produzione che può essere mantenuta.
  • Tecnosistema: impiegare tecnologie integrate in modo tale da mettere l’accento su criteri qualitativi riguardante il tecnosistema come un tutt’uno. Le tecnologie integrate fanno ricorso, da un lato, all’uso di diverse fonti energetiche rinnovabili e, dall’altro, a sistemi di cogenerazione atti a migliorare i rendimenti dei vari processi (es. sistemi di cogenerazione di energia elettrica e calore).

Rallentamento entropia

  • Ecosistema: nell’ecosistema maturo la degradazione dell’energia con la conseguente crescita nel tempo dell’entropia viene ritardata dalla disponibilità di informazione ecologica. L’ecosistema tende ad avere energia più disponibile nelle reti alimentari, utilizzando l’energia solare per la produzione di materia organica (fotosintesi clorofilliana), ma anche altri flussi energetici non propriamente solari (vento, maree, etc) e tutta una gamma di flussi di informazione ecologica che ottimizzano l’impiego di energia, rallentando la dispersione dell’energia fissata dai vegetali.
  • Tecnosistema: il rallentamento della crescita dell’entropia, si ottiene con un sistema di tecnologie integrate, usando tecnologie a bassa intensità d’energia, dimensionando il sistema sull’imput di fonti energetiche e risorse rinnovabili, utilizzando in “cascata” gli stessi flussi energetici a crescenti entropie per utenze differenziate in base agli scopi finali, tenendo anche conto nelle pianificazioni territoriali, per la conservazione dell’energia, delle condizioni fisiche esistenti come clima, terreno, etc, (es. bioarchitettura, sistemi passivi).

Autosostentamento

  • Ecosistema: il sistema tende ad organizzarsi in modo tale da provvedere autonomamente a tutti i suoi bisogni. Utilizzando al meglio tutti gli elementi interni al sistema e minimizzando gli scambi di energia e materia con l’esterno, il fine ultimo del sistema è l’autosufficienza, dove la qualità prevale sulla quantità.
  • Tecnosistema: un tecnosistema maturo tende all’autosufficienza utilizzando nel modo migliore fonti energetiche e risorse locali. In esso viene privilegiato il principio seguente “la produttività ottimale che tiene conto della qualità del sistema (conservazione dell’energia, riciclo della materia, efficienza energetica, minimo impatto ambientale, sicurezza sul lavoro, etc) è sempre minore della produttività massima raggiungibile”. Ciò è giustificato dal fatto che un qualsiasi aumento della produttività avviene sempre a spese del mantenimento e del controllo del sistema stesso. In conclusione possiamo constatare da questa analogia tra ecosistema e tecnosistema che il problema critico è come l’uomo progetta e controlla lo spazio vitale trasformando energia e materia nel rispetto della natura. Dunque, scegliere tecnologie appropriate all’ambiente naturale, guidate dai principi dell’ecologia, avendo come obiettivo sia il risparmio energetico sia la salubrità dei processi produttivi per una migliore qualità della vita.

Giulio Ripa

Le città intelligenti

Le citta intelligenti – e un po’ “spione” – del futuro
di Federico Cella

Da circa un paio d’anni Ibm ci ha abituato a travestirsi da chiromante e fare previsioni sul nostro futuro. “Next Five in Five” è il nome del progetto – le cinque innovazioni per i prossimi cinque anni – che quest’anno Big Blue ha focalizzato su come si trasformeranno le città in cui viviamo. Dal miglioramento del sistema sanitario agli edifici intelligenti alle automobili a emissioni zero, tutti progetti affascinanti, in cui è ovviamente attiva la multinazionale americana.

Continua a leggere sul Corriere della Sera.

Venezia naviga

(E’ tutto un lungo delirio pieno di parentesi, ma volevo parlare di Venezia digitale, e di come vedremo emergere nuove forme di socialità e di autocoscienza, di come una parola nuova permetta la nascita di tante nuove idee. E Venezia sta per pronunciare concretamente parole nuove, nel dialogo interumano)

Quando studiavo psicologia, leggevo di come ad un certo punto verso i primi anni Sessanta fosse arrivato il Cognitivismo a rimettere le cose nella giusta prospettiva, rispetto al Comportamentismo, nella considerazione dei processi mentali di acquisizione e gestione delle informazioni, quindi nel dare alcune coordinate improntate a migliori ipotesi sul funzionamento della memoria, dell’apprendimento, della mente e del ruolo attivo dell’individuo.

Nutrito da suggestioni derivanti dalla cibernetica anni Cinquanta, molto cognitivismo (la cosa si riprodusse poi negli anni Ottanta, con i neo-connessionisti) provò a seguire la metafora dell’uomo-macchina, ovvero a spiegare certi fenomeni psicologici con un parallelo basato su un trattamento dell’informazione di tipo “ingegneristico”, o proto-informatico.
Certo, parlare del cervello come hardware e della mente come software viene facile, innesca fughe. C’è la memoria a breve termine (la RAM?) quella a lungo termine (il disco fisso?), le pipeline di collegamento intracraniche, le interfacce (gli organi di senso, con la loro autonoma elaborazione dell’informazione dal percetto al concetto), i driver.

D’altronde, un pensiero vive dentro l’ambiente pensieroso che lo pensa (che è maggiore di una scatola cranica, ed è un ambiente sociale), dentro i tempi che lo vedono emergere come catena significativa di correlazioni di idee e di emozioni, quindi perché stupirsi che l’informatica assomigli alla psicologia cognitivista? E’ la stessa generazione di persone ad aver prodotto quei ragionamenti, gente che al liceo aveva letto gli stessi libri di filosofia.

L’episteme dell’epoca faceva convergere lì, ecco.
Ed è inutile mettersi a discutere se il computer sia un cervello o se la mente lavora come un computer, perché i nostri giudizi vivono dentro quel contenitore della pensabilità, e comprendiamo la realtà da lì dentro. E lì dentro le cose filano fluide, e per nessun bambino di dieci anni il concetto di “cervello elettronico” risulta assolutamente inconoscibile, fatto salvo lo stupore iniziale dell’accostamento dei termini. Ovvero, quel concetto è già nella sua mente, perché la cultura in cui cresce concepisce serenamente quel concetto.
E per dirla tutta, non è più il caso di concepire la mente come individuale, noi siamo multipli e sociali, l’Io nasce dal Tu, la coscienza è una autonarrazione che noi stessi facciamo a noi stessi diuturnamente, smettiamola con l’Io e il non-Io, io sono sono rete.

Ma certamente etica scientifica vuole che la metafora, benché altamente illuminante, vada compresa per quel che è. Una metafora esplicativa. Domani ce ne sarà un’altra, migliore.
Non stiamo parlando della realtà, stiamo parlando delle parole con cui pensiamo la realtà.

Anche studiando la psicologia dei gruppi, nell’individuare un “discorso” soggiacente al “fare” del gruppo, bisogna porre attenzione a non antropomorfizzare troppo, appunto perché il gruppo vive in dimensioni psicologiche (affettive e cognitive) gruppali, pratica altri linguaggi espressivi, è “inumano”, è differentemente cosciente di sé, e occorrono strumenti specifici per individuare prima e analizzare poi i suoi comportamenti, nn si può tic-tac trasporre concezioni di psicologia individuale al nuovo oggetto di studio (il gruppo, “la più grande invenzione del XX secolo”, come disse quel guru vero di Rogers, sottolineando così come il gruppo di per sé non fosse mai stato preso in considerazione né percepito come “oggetto di studio”).
Un altro esempio? Quando Dennett e/o Hofstaedter, trent’anni fa, studiavano cosa fosse la coscienza, dovevano dedicare metà dei loro libri a spiegare come fare per non concepire la coscienza come qualcosa di “individuale” (con tutto il problema della storia del linguaggio della psicologia come retaggio), ma fosse una caratteristica emergente dei sistemi complessi, come nel famoso caso del formicaio, che è cosciente di sé (adotta comportamenti nel suo insieme) benché le formiche non lo siano (forse).

Anche il territorio può essere letto con queste metafore. Ad esempio riuscire a leggere il territorio come un ipertesto, come più volte qui ho fatto, mi è stato reso possibile da un pensiero capace di individuare nodi e collegamenti tra le varie parti che lo compongono, siano essere relative a questioni di produzione e distribuzione di materia, energia o informazione, giusto per usare la nota triade fondamentale per uno studio della Cultura Tecnologica e TecnoTerritoriale (appunto). Quali percorsi legano il rubinetto della vostra cucina alla diga su in montagna? L’ufficio dei servizi sociali del vostro Comune allo schermo del vostro PC? Quanti gradi di separazione tra me e il Sindaco, visto che gli umani sono materia energia (vedi Matrix, il film) e informazione in rete (vedi Internet, tutta), e i linguaggi (le idee, memi) sono virus che si propagano da una testa all’altra?

Ma il territorio può essere benissimo letto con la metafora del sistema operativo, informaticamente inteso. C’è una lunga tradizione. Ci sono appunto i luoghi energetici, le condutture, i processori dedicati all’elaborazione dell’informazione, le banche dati, i sistemi di controllo. Emerge l’amministrazione, la coscienza del territorio che sa di essere territorio e sa cosa non è territorio che può governare, emergono forme di indirizzamento sulle priorità (politiche) di elaborazione amministrativa, ecco la governance come ragionamento sull’efficienza del sistema amministrativo, ecco le interfacce.

Ok, la smetto.

Però indubbiamente connettere tutto un territorio, come la città di Venezia (Mestre compresa) in banda quasi larga (20Mb sono già una cosa dignitosa, su fibra ottica) farà emergere nuove idee di sé, permetterà alla mente collettiva veneziana (cittadini, imprese, amministrazione) di forgiare strutture sociali (di atomi, di bit, come una banca di mattoni che è anche una idea di banca ed è anche un flusso di informazioni) ora difficilmente immaginabili, anche se ieri Michele Vianello, viocesindaco di Venezia, ha provato a suggerire qualcosa, nel corso della presentazione delle iniziative per Veneziadigitale.
Qualcosa di molto bello, detto con parole giuste e concrete, e con coraggio visionario, e sbeffeggiando alcune impostazioni 1.0, ancora lineari e industriali, che molti spacciano per innovazione. Forse è la prima volta che sento un pubblico amministratore parlare di modernità socialweb credendoci, e non per fare il bullo con parole che qualcun’altro a malapena comprende, esponendo concetti di condivisione della conoscenza e di opportunità sociale e di cittadinanza digitale che ti accorgi subito se sotto c’è il vuoto di una prassi mai praticata.
E quelle di Venezia non sono parole futuristiche, le infrastrutture tecnologiche ci sono già, sono anni che mettono fibre ottiche nelle strade ogni volta che devono rifare un allacciamento del gas, e ieri sono state esplicitamente chiamate le imprese e i consorzi e le università a partecipare all’innovazione culturale, a diventare partner di progetto, e smettiamola di parlare della rete come fattore tecnico. C’è un mondo intero da inventare, e da abitare, subito.

Due schemi

Sostenuti da Cultura TecnoTerritoriale, comprendiamo il Territorio come intessuto di reti tecnologiche (i percorsi della materia, dell’energia e della informazione) dove tutto si tiene, e possiamo leggerlo come un ipertesto, esplorandone i collegamenti a partire dal singolo artefatto.

Immaginate di imbattervi in un contatore dell’elettricità, fuori da un capannone, lungo una statale. Lo guardate, lo esplorate (e qui c’è tutta la problematica del “saper osservare”, misurare modellizzare rappresentare simulare), lo scoprite come oggetto connesso, indagate i flussi in entrata e in uscita, arrivate da una parte fino al traliccio lungo la strada, dall’altra ad un tornio industriale dentro il capannone, sede di un’attività artigianale. Ora avete già una visione mentale sufficientemente ramificata per leggere il Tecnosistema formato da quell’insediamento produttivo, l’orizzonte può alzarsi a compredere i Luoghi, tutte le porzioni via via più ampie di territorio comunque legate da reti.

Se magari siete insegnanti e vorreste raccontare questo approccio culturale alle vostre classi, qui a seguire trovate uno schema di Paolo Gallici sulla esplorazione degli Artefatti, in grado di suscitare dei percorsi orientati o dei tecnoviaggi molto fruttosi.
Scegliete un artefatto nello schema polare, organizzato intorno al mondo del bambino e delle sue necessità: un oggetto tecnologico della casa, della scuola, un indumento, un alimento, spostatevi a sinistra, per indagare l’oggetto secondo le Azioni tecnologiche necessarie per produrlo. Poi potreste considerarne il “ciclo di vita” in relazione ai Luoghi, e procedere con eventuali esplorazioni del territorio fisico e/o digitale.

I veneziani, cittadini digitali

Molte volte su questo blog si è parlato di cittadinanza digitale, non solo come nostro abitare in Rete ma come esplicito “diritto di banda” che ogni Stato civile dovrebbe garantire alla nascita ad ogni suo cittadino.

Perché diritto di banda significa garantire libero accesso a fonti informative, permette la libera espressione di sé, incoraggia la partecipazione collettiva ai meccanismi consultivi e di qui a poco decisionali, rintracciabili su blog privati o su reti civiche pubbliche, nella promozione di una vera e-democracy.
Avere una Pubblica Amministrazione che agevola la comunicazione del/dal/sul/nel/con il territorio, quel segnalare discutere proporre criticare di noi tutti che riguarda il territorio stesso e le scelte della sua pianificazione in quanto Paesaggio tecnosociale, predispondendo da parte sua buone forme di e-government nonché al contempo capace di mettersi in gioco con gli Abitanti nel dialogo e nell’ascolto di ciò che emerge dai Luoghi conversazionali formali ed informali, rappresenta sicuramente un’ottima garanzia affinché molte voci diverse e molte idee possano contribuire collaborativamente alla progettazione sociale da attuare in futuro sul territorio di riferimento.

Bene, Venezia ha capito che il territorio non è solo quello fisico, e che i cittadini abitano la Rete, che anche la Pubblica Amministrazione deve adeguatamente (ovvero, in modo conversazionale) abitare in Rete, e che far sì che tutti possano connettersi è un arricchimento culturale importantissimo, per i singoli individui e per la collettività, e non è cosa che possa esser procrastinata ulteriormente.
Quindi essere veneziani da oggi significa avere una identità digitale riconosciuta e diritto di accesso gratuito.

Trovate la notizia sul sito del Comune di Venezia; interessante anche la pagina dedicata al web2.0, dove vengono illustrati innovativi sistemi di cartografia digitale, monitoraggio del territorio e strumenti di partecipazione civica.

Venezia si candida come capitale del diritto universale alla Rete Diritto universale all’accesso alla Rete e vera cittadinanza digitale.
Venezia si candida come prima città al mondo a fornire, per i nati nel Comune, contemporaneamente al rilascio anagrafico dell’atto di nascita anche userid e password per accedere gratuitamente a Internet e quindi, di fatto, a certificare l’identità digitale.
E’ questo l’annuncio dato oggi dal vice sindaco di Venezia e assessore all’Automazione, Michele Vianello, presentando l’iniziativa che vede la città lagunare all’avanguardia – per dirla con le parole di Vianello – “sulla nuova frontiera del diritto alla conoscenza”.
Il nuovo tassello del progetto //Venice>connected, che vedrà il completamento della rete a larga banda nell’intero territorio comunale entro la metà del prossimo anno (74 chilometri di cavo con una capacità di 144 fibre), passa ora attraverso la localizzazione di oltre 600 hot spot che consentiranno di collegarsi ad internet in modalità WiFi attraverso computer, palmari e telefonini di ultima generazione.
“Avremmo potuto decidere da soli – ha spiegato il vice sindaco – ma abbiamo invece preferito chiedere ai giovani dove preferiscono localizzare gli hot spot che forniranno l’accesso alla Rete, proprio per dare una connotazione reale alla democrazia indotta dalla Rete”. A tal proposito, Vianello ha fatto sapere che a giorni sarà spedita una lettera a ognuno dei 24.981 giovani dai 14 ai 25 anni residenti nel comune, nella quale sarà chiesto di collegarsi via internet all’indirizzo www.comune.venezia.it/cittadinanzadigitale per esprimere, in un’apposita cartografia comunale, la loro preferenza sulla collocazione dell’hot spot.
Tra quanti parteciperanno, saranno sorteggiati 10 giovani che riceveranno da Venis, la società comunale per l’informatica, uno dei premi messi in palio (1 computer subnotebook e 9 telefonini WiFi di ultima generazione).
“E’ uno sforzo organizzativo e finanziario non indifferente – ha concluso il vice sindaco – ma ritengo che sia necessario coinvolgere il mondo dei giovani in questa operazione che consentirà il libero accesso alla Rete, garantendo finalmente questa estensione di stato sociale fin dalla nascita”.

OpenStreetMap: per una cartografia pubblica e open

Problema: in Italia le mappe satellitari non sono pubbliche e gratuite.

E’ una questione di diritti di copyright: non possiamo usare le mappe di GoogleMaps a nostro piacimento, e inoltre le informazioni che immettiamo su queste mappe (immagini e segnalibri, testo esplicativo) non ci appartengono più, potrebbero legittimamente scomparire se putacaso sparisse Google.

In verità, il vero problema è che in Italia le cose fatte con soldi pubblici non sono pubbliche, che si tratti di brevetti universitari o di cartografie del territorio.

Il Friuli Venezia Giulia non si può lamentare, perché oltre ai dati GPS e al Catalogo regionale dei dati ambientali e territoriali da qualche giorno è possibile accedere in modo gratuito alla cartografia digitale del FVG. Ma in ogni caso non si tratta di mappe su cui gli Abitanti possono scrivere, come quelle di Google, “nutrendo” di informazioni le mappe stesse con indicazioni di pubblica utilità, o di carattere storico culturale o turistico, o luoghi della memoria, in un movimento di connotazione dinamica e collettiva delle identità, originali e uniche, di un territorio.

Ecco quindi (traggo informazioni da questo articolo sulla Stampa di Valentina Avon) che in qualche Comune italiano si vede diffondersi la pratica di “creare e fornire dati cartografici, qualsiasi mappa di strade, liberi e gratuiti a chiunque ne abbia bisogno” secondo le indicazioni del progetto OpenStreetMap, dove ciascuno di noi può appunto liberamente fruire delle mappe e soprattutto partecipare alla loro precisione, ad esempio geotaggando con le coordinate GPS i luoghi significativi affinché tutti ne traggano vantaggio.

Il Comune di Schio ha recentemente abbracciato, in quanto Piazza Telematica, il progetto OpenStreetMap: potete raccogliere qualche ulteriore informazione sulla necessità odierna di Cultura Open guardando la presentazione qui sotto illustrata da Luisanna Fiorini, in occasione del Linux Day appunto a Schio del 25 ottobre scorso.

Reti energetiche, reti telematiche

Mantellini commenta su Nova/Sole24ore un interessante libro di Nicholas Carr

Sembra partire da lontano l’ultimo saggio di Nicholas Carr (The Big Switch, W.W Norton & Company, pg 278), per la precisione dalla seconda metà del diciannovesimo secolo quando Thomas Edison iniziò ad immaginare come sostituire i sistemi di illuminazione a gas, da lui definiti “barbari ed inutili”, con quelli elettrici. Eppure Carr non è uno storico della rivoluzione industriale ma un noto giornalista e blogger americano che si occupa da anni di nuove tecnologie e la ricostruzione storica di quel passaggio dal gas alla elettricità è una formidabile metafora per sostenere la tesi principale del libro, quella secondo la quale lo sviluppo della rete Internet ripropone oggi alcune delle tematiche di svolta che caratterizzarono la nascita dei primi grandi impianti elettrici nell’America della fine dell’ottocento.

Secondo Carr il contesto tecnologico odierno assomiglia in maniera significativa a quello di allora, quando nel giro di pochi decenni la produzione di energia elettrica da centralizzata e limitata (ogni grande stabilimento industriale aveva iniziato a prodursi in proprio la corrente attraverso gigantesche dinamo all’interno delle fabbriche) diventò distribuita ed ubiquitaria e la corrente elettrica, resa disponibile da grandi società comunali in città come New York e Chicago, iniziò a raggiungere capillarmente prima le aziende, poi le strade delle città e infine ogni singola abitazione privata. Questo primo “switch” fu allora in grado di generare una serie impressionante di grandi cambiamenti tecnologici, economici e sociali che sono proseguiti incessanti fino ai giorni nostri. Alla stessa maniera oggi il “computing” sta trasformandosi da pratica locale e privata (iniziata nel dopoguerra con i primi grandi calcolatori e poi proseguita con la nascita dei personal computer) in qualcosa di totalmente differente che trova nel network la sua stessa ragione di esistere. L’era dei PC, a pochi decenni dalla sua nascita, si è nel frattempo trasformata in una nuova era, dove la connessione alla rete diventa il fulcro attorno al quale gravita ogni singola attività. Esattamente come accadde all’elettricità all’inizio del XX secolo, Internet ha dato il via ad una nuova inattesa “era dell’utility”.

“Ciò che la fibra ottica fa oggi per i computer – scrive Carr – è esattamente ciò che le reti di corrente alternata fecero per l’elettricità: resero la sede dell’apparecchiatura ininfluente per l’utente”.

Ma non solo: così come avviene oggi con la rete Internet dove ogni tipo di computer e di singola informazione digitale convive con altre di tipo differente, anche allora macchine diverse e incompatibili poterono iniziare a lavorare all’interno di un unico sistema. La stessa armonia dei tempi delle prime reti elettriche si ripete oggi dentro i protocolli delle reti di computer.
I sillogismi non finiscono qui. Quando la rete elettrica iniziò a diffondersi, esattamente come avviene ogni qualvolta si iniziano a sperimentare nuove emozionanti tecnologie, la società del tempo caricò di grandi aspettative la rivoluzione in atto. Le macchine elettriche – si scrisse allora – avrebbero reso possibile il controllo degli eventi atmosferici, correnti magnetiche diffuse ad arte nelle abitazioni avrebbero “dissipato tempeste domestiche e assicurato l’armonia familiare”, nuovi sistemi di comunicazione avrebbero praticamente eliminato le distanze. Insomma se è fuori di dubbio che la disponibilità di corrente elettrica a basso costo creò grandi benefici alla popolazione (lo stesso sviluppo dei media come la radio e la TV discende da quel primo passo) si può affermare senza paura di essere considerati luddisti, che gli effetti raggiunti non furono a livello delle aspettative riposte.
Ed è forse in questa capacità di analisi l’aspetto più interessante del saggio di Carr che potremmo definire un tecnoentusiasta con i piedi per terra, capace di descrivere i grandi mutamenti indotti dalle tecnologie riuscendo lo stesso ad analizzarne i limiti e gli eccessi retorici.

Se “Dio e’ il grande elettricista” come scrisse nel 1913 Elbert Hubbard, uno dei fondatori delle prime società professionali legate al business dell’elettricità, cosa dovremmo dire della rete Internet e delle grandi aspettative che oggi in essa riponiamo?

Così se da un lato Carr spende la parte centrale del libro a descrivere il World Wide Computer, vale a dire la nuova declinazione tecnologica che prevede la migrazione in rete di gran parte delle applicazioni e della capacità di calcolo fino a ieri residenti nei nostri PC, cosi come di ogni altro servizio e informazione, non mancano alcuni importanti accenni alla necessità di osservare questi sconvolgimenti tecnologici con occhio il più possibile neutrale.

Il “computer in the cloud” come Eric Schmidt di Google definisce oggi il passaggio della intelligenza dei PC a quella della rete Internet, è oggi fonte di grandi entusiasmi e di altrettanto grandi (pur se meno sottolineate) preoccupazioni.

Se da un lato Internet viene vista da alcuni come una “interfaccia per la nostra civilizzazione” o “un apparato cognitivo e sensitivo capace di superare ogni precedente invenzione” o ancora “una nuova mente per una vecchia specie” come scriveva Kevin Kelly in un euforico articolo su Wired nel 2005, osservare le aspettative che cent’anni fa riponevamo sull’elettricità forse può farci sospettare che il nostro futuro cibernetico potrà essere qualcosa meno di un nuovo Eden.

Da un punto di vista economico per esempio il World Wide Computer fornisce un sistema assai efficiente per concentrare il valore economico creato da molti (i cosiddetti “contenuti generati dagli utenti”) nelle mani di pochissimi. Perfino la creazione di infinite nicchie di interesse legate alla “coda lunga” e l’enorme aumento delle fonti informative disponibili presentano aspetti di stress ancora da risolvere, specie nel campo editoriale dove i rapporti fra editori ed inserzionisti online condizionano sempre più la qualità dei contenuti prodotti. Il rischio concreto, secondo Carr, è che la cultura dell’abbondanza prodotta dal World Wide Computer si trasformi in una cultura della mediocrità, un ambito di conoscenza certamente assai vasto ma estremamente superficiale.
Nel 1995 Nicholas Negroponte nel suo saggio “Essere digitali” scriveva che “le tecnologie digitali possono essere una spinta naturale verso una maggiore armonia del mondo” eppure per molti versi la diffusione della rete Internet sembra aver accentuato la polarizzazione fra differenti punti di vista e segmentato in maniera cospicua le attitudini e i luoghi di residenza dei suoi abitanti.

Ad ogni cambio generazionale e tecnologico – scrive Carr nell’epilogo del suo testo – cancelliamo la memoria di ciò che è andato perduto e manteniamo solo la percezione di quanto invece abbiamo guadagnato: cosi facendo rinnoviamo l’illusione che il luogo nel quale siamo ora sia davvero il luogo nel quale avremmo voluto essere.
…….
http://www.roughtype.com/
http://www.nicholasgcarr.com/bigswitch/

Intervista a Jeremy Rifkin

Il blog ha intervistato Jeremy Rifkin, autore di fama mondiale, tra i suoi libri: “Economia all’idrogeno”.
Il mondo che conosciamo sta cambiando in fretta. Il petrolio sta finendo. L’energia avrà due caratteristiche: sarà rinnovabile, come il sole e il vento, e distribuita. Ognuno di noi potrà creare la propria energia e metterla a disposizione degli altri in rete.

“Ora, al tramonto [della seconda rivoluzione industriale] ci sono alcune situazioni davvero molto critiche. Il prezzo dell’energia sta drammaticamente salendo e il mercato mondiale del petrolio si è appena avviato al suo picco di produzione. I prezzi del cibo sono raddoppiati negli ultimi anni poiché la produzione di cibo è prevalentemente basata sui combustibili fossili. Appena raggiungeremo il picco della produzione di petrolio, i prezzi saliranno, l’economia globale ristagnerà, avremo recessione e ci saranno persone che non riusciranno a mettere in tavola qualcosa da mangiare. Il “picco del petrolio” avviene si è usato metà del petrolio disponibile. Quando questo avverrà, quando saremo all’apice di questa curva, saremo alla fine dell’era del petrolio perché il costo di estrazione non sarà più sostenibile. Quando arriveremo al picco? L’ottimista agenzia internazionale per l’energia dice che ci arriveremo probabilmente attorno al 2025-2035. D’altra parte negli ultimi anni alcuni dei più grandi geologi del mondo, utilizzando dei modelli matematici molto avanzati, rilevano che arriveremo al picco tra il 2010 e il 2020. Uno dei maggiori esperti sostiene che il picco è già stato raggiunto nel 2005.

Ora, il giacimento del Mare del Nord ha raggiunto il picco 3 anni fa. Il Messico, il quarto produttore mondiale, raggiungerà il picco nel 2010, come probabilmente la Russia. Nel mio libro, Economia all’idrogeno, ho speso molte parole su questa questione. Io non so chi ha ragione, gli ottimisti o i pessimisti. Ma questo non fa alcuna differenza, è una piccolissima finestra.

La seconda crisi legata al tramonto di questo regime energetico è l’aumento di instabilità politica nei Paesi produttori di petrolio. Dobbiamo capire che oggi un terzo delle guerre civili nel mondo è nei Paesi produttori di petrolio. Immaginate cosa accadrà nel 2009, 2010, 2011, 2012 e così via. Tutti vogliono il petrolio, il petrolio sta diventando sempre più costoso. Ci saranno più conflitti politici e militari nei Paesi produttori. Infine, c’è la questione dei cambiamenti climatici. Se prendiamo gli obiettivi dell’Unione Europea sulla riduzione della Co2, e la UE è la più aggressiva del mondo in questo senso, anche se riuscissimo a raggiungere quegli obiettivi ma non facessero lo stesso India, Cina e altri Paesi, la temperatura aumenterà di 6°C in questo secolo e sarà la fine della civilizzazione come la conosciamo.

Lasciatemi dire che quello di cui abbiamo bisogno adesso è un piano economico che sia sufficientemente ambizioso ed efficace per gestire l’enormità del picco del petrolio e dei cambiamenti climatici. Lasciatemi dire che le grandi rivoluzioni economiche accadono quando l’umanità cambia il modo di produrre l’energia, primo, e quando cambia il modo di comunicare, per organizzare questa rivoluzione energetica. All’inizio del XX secolo la rivoluzione del telegrafo e del telefono convergeva con quella del petrolio e della combustione interna, dando vita alla seconda rivoluzione industriale.

Ora siamo al tramonto di quella rivoluzione industriale. La domanda è: come aprire la porta alla terza rivoluzione industriale. Oggi siamo in grado di comunicare peer to peer, uno a uno, uno a molti, molti a molti. Io sto comunicando con voi via Internet. Questa rivoluzione “distribuita” della comunicazione, questa è la parola chiave: “distribuita”, questa rivoluzione “piatta”, “equa” della comunicazione proprio ora sta cominciando a convergere con la rivoluzione della nuova energia distribuita. La convergenza di queste due tecnologie può aprire la strada alla terza rivoluzione industriale. L’energia distribuita la troviamo dietro l’angolo. Ce n’è ovunque in Italia, ovunque nel mondo. Il Sole sorge ovunque sul pianeta. Il vento soffia su tutta la Terra, se viviamo sulla costa abbiamo la forza delle onde. Sotto il terreno tutti abbiamo calore. C’è il mini idroelettrico. Queste sono energie distribuite che si trovano ovunque. L’Unione Europea ha posto il primo pilastro della terza rivoluzione industriale, che sono le energie rinnovabili e distribuite.

Primo, dobbiamo passare alle energie rinnovabili e distribuite. La UE ha fissato l’obiettivo al 20%. Secondo, dobbiamo rendere tutti gli edifici impianti di generazione di energia. Milioni di edifici che producono e raccolgono energia in un grande impianto di generazione. Questo già esiste. Terzo pilastro: come accumuliamo questa energia? Perché il Sole non splende sempre, nemmeno nella bellissima Italia. Il vento non soffia sempre e le centrali idroelettriche possono non funzionare nei periodi di siccità. Il terzo pilastro riguarda come raccogliamo questa energia e la principale forma di accumulo sarà l’idrogeno. L’idrogeno può accumulare l’energia così come i supporti digitali contengono le informazioni multimediali. Infine, il quarto pilastro, quando la comunicazione distribuita converge verso la rivoluzione energetica generando la terza rivoluzione industriale. Prendiamo la stessa tecnologia che usiamo per Internet, la stessa, e prendiamo la rete energetica italiana, europea e la rendiamo una grande rete mondiale, come Internet.

Quando io, voi e ognuno produrrà la sua propria energia come produciamo informazione grazie ai computer, la accumuliamo grazie all’idrogeno come i media con i supporti digitali, potremo condividere il surplus di produzione nella rete italiana, europea e globale nella “InterGrid”, come condividiamo le informazioni in Internet. Questa è la terza rivoluzione industriale. Io lavoro con molte tra le più grandi aziende energetiche del mondo, come consulente. Lasciatemi fare una considerazione in termini di business, non in termini ideologici. Non credo che l’energia nucleare sarà significativa in futuro e credo che sia alla fine del suo corso e qualsiasi governo sbaglierebbe a investire nell’atomo. Vi spiego le ragioni. Non produciamo Co2 con gli impianti nucleari, quindi dovrebbe essere parte della soluzione ai problemi climatici. Ma guardiamo ai numeri. Ci sono 439 impianti nucleari al mondo, oggi, che producono solo il 5% dell’energia che consumiamo. Questi impianti sono molto vecchi.

C’è qualcuno in Italia o nel mondo che davvero crede che si possano rimpiazzare i 439 impianti che abbiamo oggi nei prossimi vent’anni. Anche se lo facessimo continueremmo a produrre solo il 5% dell’energia consumata, senza alcun beneficio per i cambiamenti climatici. E’ chiaro che perché ne avesse, dovrebbero coprire almeno il 20% della produzione. Ma perché la produzione di energia sia per il 20% nucleare, dovremmo costruire 3 centrali atomiche ogni 30 giorni per i prossimi 60 anni. Capito? Duemila centrali atomiche. Tre nuove centrali ogni mese per sessant’anni. Non sappiamo ancora cosa fare con le scorie. Siamo nell’energia atomica da 60 anni e l’industria ci aveva detto: “Costruite gli impianti e dateci tempo sufficiente per capire come trasportare e stoccare le scorie”. Sessant’anni dopo questa industria ci dice “Fidatevi ancora di noi, possiamo farcela”, ma ancora non sanno come fare. L’agenzia internazionale per l’energia atomica dice che potremmo avere carenza di uranio tra il 2025 e il 2035, facendo cosi’ morire i 439 impianti nucleare che producono il 5% dell’energia del mondo. Potremmo prendere l’uranio che abbiamo e convertirlo in plutonio.

Ma avremmo il pericolo del terrorismo nucleare. Vogliamo davvero avere plutonio in tutto il mondo in un’epoca di potenziali attacchi terroristici? Credo sia folle. E infine, una cosa che tutti dovrebbero discutere col vicino di casa: non abbiamo acqua! Questo le aziende energetiche lo sanno ma la gente no. Prendete la Francia, la quintessenza dell’energia atomica, prodotta per il 70%. Questo e’ quello che la gente non sa: il 40% di tutta l’acqua consumata in Francia lo scorso anno, e’ servita a raffreddare i reattori nucleari. Il 40%. Vi ricordate tre anni fa, quando molti anziani in Francia morirono durante l’estate perche’ l’aria condizionata era scarsa? Quello che non sapete e’ che non ci fu abbastanza acqua per raffreddare i reattori nucleari, che dovettero diminuire la loro produzione di elettricita’. Dove pensano di trovare, l’Italia e gli altri Paesi, l’acqua per raffreddare gli impianti se non l’ha trovata la Francia?

Quello che dobbiamo fare è democratizzare l’energia. La terza rivoluzione industriale significa dare potere alle persone e per la generazione cresciuta con la Rete questo è la conclusione e il completamento di questa rivoluzione, proprio come ora parliamo in Internet, centinaia di persone sono in Internet, ed è tutto gratuito, e questi possono creare il più grande, decentralizzato, network televisivo, open source, condiviso…perché non possiamo farlo con l’energia? L’Italia è l’Arabia Saudita delle energie rinnovabili! Ci sono così tante e distribuite energie rinnovabili nel vostro Paese! Mi meraviglio quando vengo nel vostro Paese e vedo che non vi state muovendo nella direzione in cui si muove la Spagna, aggressivamente verso le energie rinnovabili. Per esempio, voi avete il Sole! Avete così tanto sole da Roma a Bari. Avete il Sole! Siete una penisola, avete il vento tutto il tempo, avete il mare che vi circonda, avete ricche zone geotermiche in Toscana, biomasse da Bolzano in su nel nord Italia, avete la neve, per l’idroelettrico, dalle Alpi. Voi avete molta più energia di quella che vi serve, in energie rinnovabili! Non la state usando…io non capisco. L’Italia potrebbe. Credo che, umilmente, quel che posso dire al governo italiano è: a che gioco volete giocare? Se il vostro piano è restare nelle vecchie energie, l’Italia non sarà competitiva e non potrà godere dell’effetto moltiplicatore sull’economia della terza rivoluzione industriale per muoversi nella nuova rivoluzione economica e si troverà a correre dietro a molti altri Paesi col passare del XXI secolo. Se invece l’Italia deciderà che è il momento di iniziare a muoversi verso la terza rivoluzione industriale, le opportunità per l’Italia e i suoi abitanti saranno enormi. Da anni seguo il tuo sito, vorrei che ci fossero voci come la tua in altri Paesi. Ha permesso a cosi’ tante persone di impegnarsi insieme…credo sia istruttivo rispetto alla strada che dobbiamo intraprendere.”

Tecnoterritorialità e promozione sociale

  • Il territorio è natura e tecnologia
  • La Tecnologia è cultura contestualizzata molto spesso mal conosciuta
  • Ogni cultura e paradigma storico esprime una propria tecnoterritorialità
  • Siamo in una società glocale e biodigitale
  • Caratteri tecnoterritoriali della società contemporanea
  • Dalla tecnoterritorialità elettromeccanica ed elettromagnetica alla tecnoterritorialità digitale e web
  • Bisogno di nuovi comportamenti e nuove organizzazioni
  • La società del meticciamento
  • La società dell’iconolese e dell’anglese
  • Il borghi digitali e la geografia digitale
  • Verso una diversa urbanistica della doppia abitanza
  • Crescere nuove generazioni in crescita
  • Necessità di antropogia, paradosso della condizione adulta contemporaneo che ‘deve’ apprendere dalle ultime generazioni
  • Rischi di perdita della prima abitanza
  • Rischi di autismo informatico e onirismo mediatico
  • Una nuova creatività: la scoperta del glocale
  • La socialità in rete
  • La necessità di essere abitanti
  • Non si può esercitare la prima abitanza senza il contatto diretto con i luoghi
  • Non si può esercitare la seconda abitanza senza l’interazione nei siti
  • Si è veri abitanti se si ha la doppia abitanza
  • In un mondo complesso non si riesce ad essere soggetti attivi se non si esprime una socialità ampia che però non può poggiare solo sulla relazionalità interpersonale
  • Occorre la dimensione socioambientale
  • Dalla democrazia rappresentativa e della delega alla democrazia partecipativa
  • Riconquista di prospettive di progettazione partecipata