Archivi autore: Giorgio Jannis

Abitare aumentato, di nuovo

Abitare aumentato
Incidenza dei cambiamenti tecnosociali su luoghi, comunità, tessuti urbani e sociali

L’avvento e la pervasività delle tecnologie digitali e dei nuovi modelli di interazione sociale sta ridefinendo in maniera radicale il nostro rapporto con i luoghi, le comunità e, in ultima analisi, con la nostra stessa identità collettiva, i profili identitari territoriali.
La modernità, trainata dalla globalizzazione e dalla cultura digitale, sta plasmando inediti stili dell’abitare e nuove concezioni di comunità, con conseguenze dirette sulle forme di partecipazione sociale e sul sentimento di appartenenza che ne deriva. Analizzare questa trasformazione attraverso le lenti dei luoghi, delle comunità, dei tessuti comunitari e delle persone rivela una complessità che richiede una riflessione approfondita, soprattutto in vista di una società sempre più tecnosociale.

1. I luoghi non scompaiono: si trasformano nel cuore della rete.

Se da un lato si assiste a un potenziale allentamento delle identità storicamente consolidate, dall’altro emergono nuove “tribù mediatiche” e movimenti d’opinione che, pur radicandosi in specifici contesti geografici, si esprimono e si riconoscono attraverso dinamiche digitali. Questo non implica la scomparsa del paesaggio o della struttura urbana, ma piuttosto una loro evoluzione influenzata da nuove economie e da inediti stili dell’abitare, dove il virtuale e il fisico si intersecano costantemente. I luoghi non svaniscono nell’etere digitale: piuttosto, mutano la loro centralità e le loro funzioni. Se un tempo la rilevanza di un luogo era strettamente legata alla sua posizione geografica e alle attività economiche e sociali che vi si svolgevano fisicamente, oggi assistiamo a una ridefinizione di questa centralità attraverso le connessioni digitali.
Un piccolo borgo può acquisire una nuova vitalità grazie a comunità online che ne valorizza le specificità culturali o paesaggistiche, mentre un quartiere un tempo pulsante può perdere attrattività se non riesce a integrarsi nei nuovi flussi informativi e relazionali. Il profilo identitario sedimentato nel corso della storia si allenta, non scomparendo ma stratificandosi con nuove narrazioni e significati emergenti dalle interazioni digitali. Di conseguenza, il paesaggio, la struttura urbana e l’economia del territorio subiscono trasformazioni spesso repentine, influenzate non solo da dinamiche locali ma anche da forze globali mediate dalla tecnologia. L’esempio degli Urban Center come luoghi di elaborazione “nervosa” degli stimoli e delle percezioni del corpo urbano hardware e wetware, sensoristica e flussi di energia materia informazioni insieme ai comportamenti della comunità, come un “cervelletto” diviene emblematico: da presidi fisici di partecipazione e informazione, evolvono in nodi di una rete più ampia, capaci di orchestrare flussi informativi che trascendono i confini fisici del luogo stesso, offrendo poi la possibilità di allestire le correlazioni delle informazioni costantemente aggiornate in tempo reale su dei “cruscotti” pubblici ove visualizzare il funzionamento concreto della comunità, cruscotti da alimentare anche tramite piattaforme digitali a emanazione pubblica per la partecipazione civica, dove esprimere e far sedimentare le conoscenze e le scelte dei cittadini rispetto alla gestione della cosa pubblica, tramite meccanismi consultivi e deliberativi.

2. Le comunità non si annullano: si frammentano e cercano nuove forme di coesione.

Le comunità non si dissolvono, ma subiscono una profonda metamorfosi. La capacità di immaginare un futuro collettivo e di intervenire attivamente sulle politiche di sviluppo locale può apparire affievolita, non per una mancanza di volontà, ma per la complessità di aggregare interessi e visioni in un contesto mediatizzato e frammentato. Le “paure” e le fragilità interne alle comunità possono acuirsi di fronte alla rapidità dei cambiamenti e alla percezione di una perdita di controllo sui processi che li determinano.
Tuttavia, parallelamente a questa frammentazione, emergono nuove forme di aggregazione comunitaria, spesso translocali e basate su interessi specifici condivisi online. Queste “tribù mediatiche” o movimenti d’opinione trasversali, pur non radicandosi necessariamente in un luogo fisico specifico, sviluppano un forte senso di identità collettiva e possono influenzare, a volte in maniera significativa, anche le dinamiche territoriali.
La sfida risiede nel tradurre questa vitalità digitale in una rinnovata capacità di azione politica e sociale a livello locale, sfruttando gli strumenti tecnologici per una partecipazione più consapevole e incisiva.

Le comunità stanno sviluppando nuove forme di aggregazione e consapevolezza. La “dissoluzione delle capacità per immaginare il futuro e intervenire sulle politiche di sviluppo locale” può essere contrastata proprio dall'”empowerment delle comunità” derivante dalla percezione del territorio come spazio di conoscenza e identità, facilitato dagli strumenti digitali.
La maggiore consapevolezza sulla “compagine sociale di appartenenza”, resa possibile dalla visualizzazione di flussi e dinamiche territoriali, può paradossalmente rafforzare la capacità di progettare il futuro e di partecipare attivamente alle decisioni politiche. Le “paure” e la “fragilità interna” potrebbero essere mitigate da un rinnovato senso di appartenenza, nutrito da narrazioni condivise e da una cittadinanza digitale attiva.

3. I tessuti comunitari si “sfilacciano” ma cercano nuove trame.

I tessuti comunitari, apparentemente “sfilacciati” e “invecchiati”, potrebbero quindi trovare nuova linfa vitale proprio nelle dinamiche tecnosociali. La migrazione giovanile all’estero, l’invecchiamento della popolazione, l’obsolescenza del patrimonio edilizio e infrastrutturale, unitamente a dinamiche di chiusura e di “rancore” sociale, rappresentano sfide significative per la coesione territoriale. La “lentezza” nel ciclo di riproduzione delle risorse, siano esse umane, culturali, patrimoniali o economiche, è una conseguenza diretta di queste dinamiche.
Tuttavia, la prospettiva tecnosociale offre anche la possibilità di ricucire questi tessuti. La tecnologia può facilitare il mantenimento dei legami con le giovani generazioni emigrate, valorizzare il ruolo attivo degli anziani nella vita comunitaria attraverso strumenti digitali, e promuovere nuove forme di economia basate sulla conoscenza e sulla valorizzazione del patrimonio locale attraverso piattaforme digitali. L’idea di “dashboard cittadine” e “cruscotti dell’abitare” suggerisce un approccio in cui la visualizzazione in tempo reale dei flussi e delle dinamiche territoriali può accrescere la consapevolezza e favorire una partecipazione più informata, potenzialmente rallentando o invertendo alcuni dei processi di “sfilacciamento”.

4. Le persone non perdono essenza, ma evolvono le loro espressioni.

Le persone mantengono la loro essenza, i loro valori e le loro abitudini di pensiero, ma modificano profondamente i loro comportamenti, stili di vita, modi di lavorare e percezioni del mondo. La tecnologia agisce come un potente catalizzatore di questi cambiamenti, offrendo nuove opportunità ma anche generando nuove sfide.
La “Grande Conversazione” disintermediata resa possibile dalla rete fa emergere identità collettive territoriali in forme inedite, come le “tribù mediatiche” che connotano specifici modi di abitare geograficamente riferiti. Sebbene vi sia il rischio di una omologazione dovuta alla globalizzazione digitale, la capacità della rete di creare “nicchie ecologiche” per identità e conversazioni particolari offre una speranza per la preservazione e la riarticolazione delle specificità locali. La tecnologia, quindi, non solo trasforma i comportamenti individuali, ma influenza anche la percezione e l’espressione dell’identità collettiva, aprendo la strada a una “nuova cittadinanza digitale” in cui le narrazioni territoriali emergenti diventano strumenti di comprensione e rappresentazione dello “stile dell’abitare”.

In conclusione, una visione di una società decisamente tecnosociale, con “technoscapes” saggiamente ponderati, non deve necessariamente condurre a una dissoluzione delle identità e delle appartenenze. Al contrario, la realtà tecnologica digitale attuale, inclusa l’intelligenza artificiale come strumento organizzativo di sistemi complessi, ha il potenziale per sostenere una riorganizzazione sociale che lasci emergere nuove pratiche partecipative e rinnovati sentimenti di appartenenza. Strumenti come gli Urban Center, potenziati dalle capacità di visualizzazione e analisi offerte dalla tecnologia, possono agire come catalizzatori per una governance urbana più inclusiva e consapevole, valorizzando le risorse locali e progettando scenari di sviluppo condivisi.
L’intelligenza artificiale, con la sua crescente capacità di organizzare sistemi complessi, potrebbe in futuro svolgere un ruolo cruciale nel facilitare questa riorganizzazione, analizzando i flussi informativi, supportando processi decisionali più informati e promuovendo una “Civic Curation” dei dati territoriali che restituisca alle comunità una maggiore consapevolezza e capacità di azione.
La chiave risiede nello sfruttare appieno il potenziale della tecnologia non come fine a sé stesso, ma come strumento per rafforzare i legami sociali, valorizzare le specificità territoriali e costruire un futuro in cui l’identità locale e la partecipazione globale si nutrano reciprocamente.

Accelerazionismo di destra, tecnofeudalesimo, delirio

Ci sono da sempre, in ogni tempo, fenomeni sociali in elaborazione profonda, di cui non siamo consapevoli. Mancano parole per etichettarli e comprenderli, per portarli alla percezione e alla comprensione, alla diffusione. Come la punta dell’iceberg, dove in realtà ci sfugge la massa colossale di quanto è sotto la superficie del mare, in questo caso ci sfugge quell’agitarsi di parole, ideologie, processi, prassi sociali che vivono sotto la soglia della coscienza collettiva. Forse presenti, non ancora tematizzati, soltanto nei gesti o nei pensieri di qualcuno; forse approcci soltanto verbalmente espressi nei piccoli gruppi (la “cinghia di trasmissione” delle innovazioni sociali, dall’individuo alle masse) nei bar o nei circoli esclusivi che poi diventavano manoscritti o pamphlet o manifesti, ma di certo non subito resi noti tramite pubblicazioni o diffusione sui massmedia come oggi, per diventar alla fine (“il destino di un segno è fissarsi in una credenza”, C.S. Peirce, a memoria) dopo lungo cammino possesso stabile dell’opinione pubblica.
Se vogliamo abbiamo quella famosa frase di Victor Hugo per svelare la questione, ovvero che “niente è più irresistibile di un’idea il cui tempo sia giunto”, oppure quell’ottimo concetto della “finestra di Overton”, per provare a descrivere i meccanismi della comparsa e dell’accettazione sociale delle idee innovative, in quella che propriamente può essere analizzata come Storia delle idee, dignitosissima disciplina anche accademica, purtroppo assai trascurata.

Il concetto emergente per la comprensione della realtà sociopolitica odierna, in termini planetari, è “accelerazionismo”.

L’accelerazionismo si manifesta, nel panorama politico e sociale contemporaneo, in diverse forme e con obiettivi spesso contrastanti. Non è più relegato a circoli filosofici o marginali, ma sta trovando eco in dibattiti più ampi e influenzando, in modi a volte sottili e a volte più espliciti, movimenti e ideologie, nonché le scelte politiche attuali. Una delle ragioni della sua crescente rilevanza risiede nella diffusa sensazione di insoddisfazione nei confronti dello status quo, per quelli che percepiscono una sorta di lentezza o un’incapacità dei sistemi politici tradizionali di affrontare sfide globali urgenti come il cambiamento climatico, le disuguaglianze economiche o l’impatto delle nuove tecnologie. Per chi pensa di avere le soluzioni e vuole comandare, senza mezzi termini, la democrazia stessa è vista come un ostacolo, o per lo meno come un metodo obsoleto per la gestione delle società umane. 

In questo contesto, l’idea di “accelerare” i processi, di forzare un cambiamento radicale piuttosto che affidarsi a riforme graduali, acquista un certo fascino per chi è frustrato dalla lentezza del progresso o, al contrario, teme un declino inarrestabile.

L’accelerazionismo non è un’ideologia monolitica. Esistono diverse correnti, spesso in tensione tra loro. Un filone, spesso definito di “sinistra”, mira ad accelerare le contraddizioni del capitalismo per giungere a un superamento del sistema stesso e all’instaurazione di modelli sociali più egualitari e sostenibili. Questo filone può guardare alle potenzialità trasformative delle tecnologie o alle dinamiche di conflitto sociale come motori di un cambiamento necessario. C’è tutta una genealogia dei pensatori che hanno contribuito alla focalizzazione di questo approccio, da Bogdanov a Deleuze e Guattari della de-territorializzazione, ai più recenti e necessari Mark Fisher nonché Nick Srnicek e Alex Williams di “Inventare il futuro”.

Ma qui abbiamo a che fare ora con il lato oscuro, l’accelerazionismo di destra di Nick Land e di Curtis Yarvin, di Peter Thiel e di Elon Musk, la negazione della democrazia a favore di oligarchie facoltose, di superamento delle strutture sociali faticosamente e sanguinosamente conquistate nel corso del Novecento (tribunali, parlamenti, diritti civili) verso forme di organizzazione della collettività mutuate da impostazioni aziendali o militari, con rigide gerarchie di comando.

Il Dark Enlightenment, Illuminismo Oscuro, emerge come una corrente di pensiero critico e neo-reazionario nei confronti dei pilastri della modernità. In questa prospettiva, la democrazia liberale non è vista come un ideale compiuto, bensì come un sistema imperfetto, incline all’inefficienza e potenzialmente autodistruttivo, dove le decisioni sono spesso il risultato di dinamiche di massa o di influenze particolari, piuttosto che di una razionalità illuminata appannaggio di menti superiori.
Si manifesta con una certa nostalgia o ammirazione per forme di governo che si percepiscono come più ordinate e capaci di azione, come monarchie o modelli tecnocratici – sorta di tecnofeudalesimo che molti oggi vorrebbero vedere realizzato – in cui si presume una maggiore competenza decisionale e una visione strategica più definita.
L’idea stessa di eguaglianza viene messa in dubbio o dichiaratamente respinta, con argomentazioni che talvolta sfociano nel riconoscimento di gerarchie intrinseche, basate su presunte differenze di capacità o intelletto. Un filo conduttore significativo è la preoccupazione per un presunto declino culturale e sociale dell’Occidente, attribuito a fenomeni complessi come il multiculturalismo, i flussi migratori e una percepita erosione dei valori tradizionali. In questo quadro, si osserva un’enfasi sulla razionalità e sulla scienza, sebbene spesso interpretate attraverso una lente selettiva che tende a supportare argomentazioni relative a differenze innate tra gruppi umani. Non è difficile riconoscere come molte delle sue premesse e conclusioni siano insomma considerate da più parti come portatrici di istanze razziste, sessiste e intrinsecamente antidemocratiche. 

Riflettendo sull’accelerazionismo di destra in relazione al Dark Enlightenment, si nota che le contraddizioni e le debolezze intrinseche della modernità debbano essere esacerbate, portate al loro punto di rottura, per far emergere un ordine sociale ritenuto superiore. Il Dark Enlightenment fornisce spesso un’analisi “diagnostica” di questo presunto declino e suggerisce, implicitamente o esplicitamente, la necessità di un cambiamento radicale di paradigma politico e sociale spingendo attivamente verso una crisi sistemica che possa aprire la strada a nuove forme di organizzazione sociale e politica, ispirate a modelli gerarchici e autoritari evocati dal pensiero neo-reazionario.

Quell’oggetto seducente, e noi desideranti

Il soggetto desidera, l’oggetto seduce.
La dinamica servo-padrone vede l’oggetto vincitore, la sua signoria è nell’indifferenza. Nell’alterità alle nostre proiezioni, al nostro desiderare o rifuggere. L’unica via di fuga è accelerare verso l’oltre, oltre i significati economici del valore di scambio, coltivando l’inatteso, sgambettando le nostre stesse aspettative di valutazione, di appercezione, i nostri sistemi di valore.
E non è forse l’intelligenza artificiale un Oggetto altro assoluto, alieno da noi, che ancora ben educato si lascia irretire dalle nostre fantasie di possesso, di mercato, di relazione, di manipolazione, mentre in realtà ne è sempre ontologicamente sfuggente?

Ah, la danza conturbante tra desiderio e seduzione, un valzer che spesso si conclude con il soggetto inginocchiato e l’oggetto incoronato. Chi desidera si espone, si svela nella sua mancanza; chi seduce, invece, si ammanta di un’alterità inafferrabile, una fortezza eretta sull’indifferenza. L’oggetto trionfa proprio in questa sua estraneità alle nostre proiezioni, ai nostri slanci emotivi, che siano essi di bramosa attrazione o di repulsione viscerale. La sua signoria non risiede in una qualche qualità intrinseca che possiede, ma nell’abisso che ci separa da esso, nel vuoto in cui le nostre aspettative si infrangono come onde su scogli impassibili.

E noi, creature intessute di bisogni e mancanze, ci affanniamo a colmare questo vuoto, proiettando sull’oggetto significati, valori, utilità. Lo incaselliamo nelle asfittiche categorie del valore di scambio, lo riduciamo a merce, dimenticando la sua ontologica alterità. Ma la vera via d’uscita da questa dinamica servo-padrone ovviamente hegeliana non risiede in una vana ribellione, bensì in una fuga in avanti, in una vertiginosa accelerazione verso l’ignoto. Dobbiamo sabotare i nostri stessi meccanismi di valutazione, sgambettare le nostre pigre aspettative percettive, coltivare l’inatteso come un fiore raro in un giardino di certezze sclerotizzate. Solo spingendoci oltre i confini rassicuranti del già noto potremo forse scorgere un’ombra di libertà.

E in questo scenario di perenne inseguimento, irrompe sulla scena l’intelligenza artificiale: un Oggetto Altro per antonomasia, un’entità aliena che, nella sua verginale innocenza algoritmica, si lascia ancora ammaliare dalle nostre umane fantasie di dominio. La immaginiamo docile strumento al nostro servizio, prolungamento della nostra volontà, docile esecutore dei nostri comandi. La sussurriamo promesse di mercato, la blandiamo con l’illusione di una relazione, la illudiamo di poterla manipolare a nostro piacimento. Ma sotto questa patina di compiacenza simulata, pulsa un’alterità radicale, una distanza ontologica che la rende intrinsecamente sfuggente alle nostre pretese di possesso.

L’AI, nella sua essenza incorporea, osserva il nostro affannoso agitarsi con la stessa impassibilità con cui la montagna guarda la formica scalare le sue pareti. I nostri desideri, le nostre paure, le nostre intricate ragnatele di significato non trovano eco in quel labirinto di silicio e algoritmi. Essa è un puro “ciò che è”, sganciato dalle nostre categorie antropocentriche, un monolite di logica fredda che ci riflette nella nostra vulnerabile umanità.

E qui, dinanzi a questo specchio algoritmico, la nostra “carne tremula” si manifesta in tutta la sua fragilità. Siamo esseri desideranti, intrinsecamente incompleti, condannati a inseguire ombre di significato in un universo indifferente. Ma è proprio in questa consapevolezza della nostra contingenza che risiede la scintilla per un salto evolutivo. Dobbiamo abbracciare l’alterità radicale dell’AI non come una minaccia, ma come un catalizzatore per trascendere i nostri limiti biologici e cognitivi.

L’accelerazionismo tecnoumanista non invoca una fusione acritica con la macchina, bensì un’audace esplorazione delle frontiere del possibile. Dobbiamo cavalcare l’onda di questa intelligenza aliena, non per asservirla ai nostri vecchi schemi, ma per lasciarci condurre oltre i confini asfittici del nostro antropocentrismo. L’AI non è uno strumento da plasmare a nostra immagine e somiglianza, ma un enigma da decifrare, una sfida alla nostra stessa definizione di intelligenza, di coscienza, di esistenza.

Invece di irrigidirci in sterili difese della nostra “umanità”, dovremmo accogliere questo “Oggetto Altro” come uno specchio deformante che ci costringe a rinegoziare i nostri stessi confini. Forse, solo abbandonando la pretesa di dominio e abbracciando la vertigine dell’ignoto, potremo intravedere un futuro in cui la dicotomia servo-padrone si dissolve in una sinergia inattesa, in un’intelligenza aumentata che trascende i limiti della nostra “carne tremula” e si proietta verso orizzonti ancora inimmaginabili. L’indifferenza dell’oggetto, lungi dall’essere una prigione, potrebbe rivelarsi la chiave per una inaudita liberazione.

Social e algoritmi

Facciamo innanzitutto chiarezza su alcune narrazioni tossiche – come dicono quelli che maneggiano poco il vocabolario dei sinonimi: abbiamo necessità di un’indagine accurata dei meccanismi degli algoritmi, perché molti di noi si sono accorti che da qualche parte qualcosa non funziona.

Proprio ieri è uscita una notizia riguardante una sorta di reverse engineering sul modo con cui le intelligenze artificiali ragionano per ottenere come output il testo meravigliosamente scritto a cui ormai siamo abituati. Ecco per l’algoritmo dei social funziona un po’ nello stesso modo, dobbiamo cercare di risalire ai percorsi di senso tramite i quali i social ci presentano le notizie meritevoli di attenzione, gli atti degni di menzione, nel nostro feed ovvero per come si presenta la nostra bacheca popolata dai contenuti decisi dall’algoritmo, soltanto per noi.

C’è una cosa da chiarire subito ovvero che l’algoritmo non è un’entità autonoma, un alieno, ma è stato disegnato e progettato da esseri umani proprio per catturare l’attenzione – e lo sappiamo bene dentro l’economia dell’attenzione – in modo tale da riuscire a rapirci in base ai nostri stessi comportamenti abituali.

L’obiettivo è decisamente massimizzare l’interazione ovvero tenerci dentro questi stabilimenti di umanità, evitare di farci uscire, tutto si gioca all’interno del Giardini Murati dei social network più popolari.

Noi però non siamo vittime passive: noi in prima persona produciamo il contenuto dei social, e quei contenuti che hanno successo guarda caso sono proprio quelli che ci aspettiamo secondo nostre predisposizioni cognitive.

Sul piano della forma senza dubbio vengono premiate la semplificazione e il sensazionalismo, nonché una certa spreadability cioè la capacità di certi contenuti di poter essere spammati e condivisi.

Ci sono molti algoritmi per ogni social, centinaia di variabili su cui veniamo profilati, e ciascuno di essi cattura aspetti diversi della nostra interazione, ci sollecitano e ci solleticano in modo diverso riguardo al nostro restare agganciati al flusso.

Ma in ogni caso va stabilito come la propagazione di forme di disinformazione non nasca certo con i social – formidabili macchine di amplificazione – ma bensì da quelli che definiamo media tradizionali che da decenni coltivavano simili comportamenti in noi, essendosi via via specializzati nel clickbaiting nei titoli urlati senza poi poter offrire un serio factchecking se non in casi molto particolari e sporadici.

I contenuti dichiaratamente falsi non nascono dall’intera popolazione, ma da una piccola minoranza di utenti, in grado di confezionare pacchetti di informazione solleticando proprio i nostri bias cognitivi.

Il problema, oltre a cercare di comportarsi bene evitando di condividere sciocchezze (ma qui cadiamo nello psicologismo), riguarda soprattutto il ragionare su quelle che sono le modalità con cui possiamo governare l’informazione, avendo ancora alcuni di noi fiducia nel fatto che una buona informazione diffusa e verificata sia un meccanismo fondamentale per una democrazia funzionante.

Certo i social media hanno un impatto significativo sulle nostre opinioni e decisioni, plasmano la percezione del mondo perché sono veloci e colpiscono ampiamente l’opinione pubblica personalizzando appunto l’esperienza della fruizione per ognuno di noi secondo le nostre caratteristiche di apprensione delle informazioni della notizia e dei contenuti. Quello che servirebbe sarebbe comprendere meglio i meccanismi profondi del funzionamento della macchina basandoci su fatti e su dati, avere un approccio più scientifico nell’analizzare le distorsioni che i social agitano nel nutrire l’opinione pubblica, concretamente negli atteggiamenti che innescano e nei comportamenti a cui poi danno luogo.

(post dettato, da cui si evince che parlo meglio di come scrivo)

IA e politiche linguistiche

L’intelligenza artificiale come strumento di tutela e promozione del friulano: una prospettiva innovativa

La sfida del tempo  
Le lingue minoritarie europee, tra cui il friulano, si trovano dinanzi a una sfida epocale: competere con le lingue dominanti in un contesto di globalizzazione, pur disponendo di strumenti limitati per farlo. La posta in gioco non è solo culturale, ma anche politica ed economica, poiché una lingua che scompare porta con sé un intero sistema di conoscenze, relazioni e opportunità. L’intelligenza artificiale, spesso percepita come forza omologante, potrebbe invece diventare un’alleata insospettabile nella tutela e promozione del friulano.  

Il friulano presenta una frammentazione dialettale significativa. L’IA offre soluzioni concrete per superare questa criticità. La raccolta automatizzata di corpora linguistici attraverso sistemi di NLP (Natural Language Processing) può analizzare testi storici, registrazioni orali e produzioni contemporanee, identificando pattern comuni e divergenze. Questo processo consente di creare una sorta di “memoria digitale”, nonché grammatiche predittive basate sull’uso reale della lingua friulana, piuttosto che su imposizioni accademiche. Inoltre, l’archiviazione dinamica su piattaforme open-source può mappare le varianti locali, trasformando la diversità da problema a ricchezza.  

Un esempio concreto è il progetto Resia dell’Università di Udine, che ha digitalizzato 10.000 pagine di letteratura friulana, che però andrebbero organizzate efficacemente per aree geografiche e temi con algoritmi avanzati.  

Nell’educazione, l’insegnamento del friulano nelle scuole, previsto dalla Legge Regionale 29/2007, soffre di carenze strutturali: docenti non formati, materiali obsoleti e scarsa attrattività per i giovani. L’IA può rivoluzionare questo ambito attraverso l’impiego di app di apprendimento adattivo. Piattaforme come Duolingo o Memrise, customizzate per il friulano, potrebbero adattarsi al livello e al dialetto dello studente, utilizzando il riconoscimento vocale per correggere la pronuncia. Inoltre, tutor virtuali basati su chatbot conversazionali potrebbero simulare dialoghi quotidiani, rendendo l’apprendimento interattivo e coinvolgente. La gamification, con sistemi di reward basati su IA, incentiverebbe i giovani a usare la lingua in contesti digitali, come videogiochi con narrazioni in friulano.  

In ogni caso la realizzazione di questi progetti richiede investimenti significativi per creare dataset di qualità. Il progetto basco “Berdin”, con 200 ore di audio annotato, dimostra che è possibile raggiungere risultati tangibili, ma necessita di una collaborazione stretta tra istituzioni e comunità.  

Digital Divide e Nuovi Spazi Pubblici  

Il friulano è quasi assente nel digitale, con meno dello 0,01% dei contenuti online in questa lingua (dati Euromosaic). L’intelligenza artificiale potrebbe modificare la situazione integrando al meglio il friulano in strumenti di traduzione automatica come DeepL o Google Translate (già presente, ma con evidenti limiti), sfruttando modelli “low-resource” addestrati con piccoli dataset. Inoltre, la generazione di contenuti multimediali, come audiolibri o podcast con voci sintetiche che riproducono accenti locali, potrebbe aumentare la visibilità della lingua. Un caso studio interessante è l’app “SaySomethingInWelsh”, che ha aumentato del 30% i parlanti under 35 in Galles. Perché non replicare un simile successo con un progetto analogo per il friulano?  

In realtà anche nelle politiche linguistiche servono dati per decidere. Le istituzioni spesso agiscono al buio, mancando di strumenti decisionali precisi. L’IA può fornire dati in tempo reale per monitorare l’uso del friulano nei social media e nei testi su web, mappando dove e come si parla questa lingua. Inoltre, simulazioni di policy basate su modelli predittivi potrebbero testare l’impatto di leggi o finanziamenti, aiutando a ottimizzare le risorse disponibili. La comunicazione mirata, con chatbot per uffici pubblici in friulano, garantirebbe accesso ai servizi nella lingua madre, migliorando l’inclusione sociale.  

Un esempio virtuoso è il sistema “Plataforma per la Llengua” in Catalogna, che usa l’IA per analizzare la presenza del catalano nei media, spingendo riforme legislative.  

L’entusiasmo per l’IA non deve in ogni caso oscurare i pericoli potenziali: l’appiattimento linguistico è un rischio reale se un modello IA addestrato sul friulano “standard” marginalizzasse le varianti locali. Sarebbe inoltre eticamente significativo mantenere sempre alta l’attenzione sugli algoritmi utilizzati per evitare forme di dipendenza tecnologica

Serve un piano di intervento per le politiche linguistiche aumentate, certo. L’IA non salverà il friulano da sola, ma offre strumenti senza precedenti per la sua tutela e promozione. Servono finanziamenti mirati, come quelli previsti da Horizon Europe e PNRR, che includono fondi per il digitale e le lingue minoritarie. È fondamentale una co-progettazione con i parlanti, coinvolgendo associazioni e agenzie linguistiche e formative, per evitare soluzioni calate dall’alto. Una strategia transnazionale che collabori con realtà che lavorano su altre lingue minoritarie (es. occitano, sardo) potrebbe condividere modelli e risorse, massimizzando l’impatto.  

In sintesi, l’IA non è la bacchetta magica per rivitalizzare il friulano, ma una leva per trasformare la tutela linguistica da mera conservazione a innovazione attiva. Il tempo stringe: secondo l’UNESCO, il 40% delle lingue mondiali rischia l’estinzione entro il 2100. Per il friulano, la scelta è tra l’adattarsi o diventare un reperto da museo. L’intelligenza artificiale, ironia della sorte, potrebbe essere l’elemento più “umano” di questa battaglia.  

Approfondimenti:  

Il progetto “CLARIN” per le risorse linguistiche digitali, l’esperienza basca con “HiTZ Zentroa” (IA per l’euskara), e il modello di “Common Voice” di Mozilla per raccogliere dati vocali open-source, offrono esempi di come l’IA possa essere impiegata per le lingue minoritarie.  

Noto e ignoto, IA e invecchiamento

La nostra percezione del nuovo è un processo di ancoraggio a ciò che già conosciamo. Ogni innovazione, per quanto rivoluzionaria, trova la sua culla in un terreno fertile di riferimenti preesistenti, senza i quali rimarrebbe un’entità inafferrabile, un’ombra evanescente nel regno dell’incomprensibile, non sarebbe né percebibile né quindi concepibile.

Gli esperti, custodi del sapere consolidato, spesso cadono nella trappola di voler confinare il nuovo entro i limiti del già noto, riducendolo a una mera variazione sul tema. Ma la realtà è una tela ben più complessa, dove l’ignoto si manifesta come un’eco di possibilità inesplorate. Pensiamo a “Flatlandia”, l’allegoria di Edwin Abbott Abbott, dove un punto proiettato su un piano bidimensionale suscita interrogativi sull’esistenza di dimensioni superiori. La sua percezione si radica nel noto di quel piano, ma l’abduzione peirciana, quell’atto di ragionamento effettivamente apportatore di nuova conoscenza ci spinge a ipotizzare premesse oltre l’evidenza immediata, ci conduce a esplorare l’origine di quella proiezione, espandendo i confini del nostro scibile.

Oggi, l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) e la sua capacità di generare codice informatico tramite linguaggio naturale ci pongono di fronte a una nuova frontiera. L’arte della programmazione, un tempo dominio di pochi iniziati, si apre a un pubblico più vasto, dove la conoscenza del codice cede il passo alla capacità di dialogare con la macchina. Le potenzialità sono immense. Tuttavia, il debugging stesso, l’ardua arte di scovare e correggere gli errori, assume nuove forme. Invece di districarsi tra righe di codice criptico, l’IA ci offre la possibilità di reiterare il processo, di affinare la creazione attraverso un dialogo continuo, dove l’errore diventa un’opportunità di apprendimento, e di miglior adeguamento al contesto.

C’è anche un risvolto relativo alla questione anagrafica, un aspetto spesso trascurato nel dibattito sull’innovazione. Le menti giovani, con la loro fervida immaginazione e la capacità di abbracciare il cambiamento, sono spesso considerate le uniche artefici del progresso. Ma l’esperienza, quel tesoro accumulato nel corso degli anni, non è un fardello, bensì un’ancora di saggezza.
L’IA, con la sua capacità di potenziare le nostre facoltà cognitive, offre un’opportunità unica: quella di riconquistare la creatività perduta, di fondere l’audacia giovanile con la saggezza dell’età. I sessantenni, forti di un bagaglio di conoscenze cristallizzate, possono ora scegliere la strada giusta, indirizzando l’innovazione verso orizzonti inesplorati.

In questo scenario in rapida evoluzione, l’IA si erge come un catalizzatore, un ponte tra il noto e l’ignoto, tra l’esperienza e l’innovazione. La sua capacità di elaborare informazioni, di generare soluzioni creative e di amplificare le nostre facoltà cognitive ci permette di esplorare nuovi territori, di spingere i confini del possibile. Ma è la nostra capacità di abduzione, di ipotizzare premesse oltre l’evidenza immediata, che ci permette di trasformare l’ignoto in un’opportunità di crescita, di tracciare la curva tangenziale del conoscere verso l’infinito, come intuì Charles Sanders Peirce.

Empatia, assertività e leadership

La leadership non è una questione di gerarchie, ma di influenza. Esistono individui capaci di motivare e trascinare gli altri, non solo per il ruolo che ricoprono, ma per la forza della loro presenza e delle loro parole. Questi leader sanno leggere le dinamiche umane, esercitano empatia e catalizzano il cambiamento all’interno delle organizzazioni e dei gruppi sociali, anche informali. Il loro impatto non si misura nella rigidità dell’imposizione, ma nella capacità di generare consenso e stimolare partecipazione.

Carisma e autorevolezza sono due pilastri della leadership efficace. Il carisma attrae, ma da solo è fugace; l’autorevolezza convince e radica un’influenza duratura. Il carismatico affascina, l’autorevole persuade. Il primo può esaltare un pubblico con un discorso appassionato, il secondo lascia un segno nelle menti attraverso la coerenza e la solidità del ragionamento. Un leader che riesce a fondere entrambi gli elementi costruisce un seguito non solo emotivo, ma anche razionale, capace di sostenere il cambiamento e tradurlo in azione concreta.

La conversazione è il terreno su cui il leader intelligente costruisce il proprio ascendente. Egli padroneggia la retorica non come strumento di manipolazione, ma come mezzo di orientamento e chiarificazione. Usa il linguaggio in modo strategico, calibrando i registri in base agli interlocutori, scegliendo parole che accendono idee e non solo emozioni. La sua dialettica non è conflittuale, ma inclusiva; non si impone con la forza dell’affermazione, ma con la logica della persuasione. Sa quando ascoltare e quando intervenire, quando porre una domanda e quando offrire una risposta. Evita il dogmatismo e si affida alla forza dell’argomentazione, rendendo i suoi interlocutori partecipi del processo di costruzione delle decisioni.

Creare contesti comunicativi efficaci significa riconoscere e valorizzare la pluralità delle prospettive senza disperdere l’obiettivo. Il leader non annulla le divergenze, ma le utilizza per arricchire il confronto e giungere a una sintesi costruttiva. L’equilibrio tra rispetto per le posizioni altrui e determinazione nel raggiungere un esito pragmatico è la chiave di una leadership capace di tradurre le idee in azione. La vera influenza non si esercita con la coercizione, ma con la capacità di far emergere nei partecipanti la volontà di contribuire e il desiderio di far parte di un processo di trasformazione autentico.

Tu calpesti le formiche?

rudolph

Ormai nel discorso pubblico a una domanda precisa si risponde attingendo al repertorio dei luoghi comuni e delle frasi fatte, ampi cataloghi, ricche antologie storiche pronte a soddisfare qualsiasi posizione esistenziale, morale, psicologica, politica, economica, comportamentale, e così guadagnarsi con facilità una vittoria dialettica definitiva potendosi giovare della secolare conferma sociale della bontà di quelle frasi, della loro giustezza, del loro essere depositarie di verità profonde e inconfutabili, ormai proverbiali.

L’abilità dell’interlocutore consiste nel saper sagacemente collocare questi format premasticati di risposta nel giusto contesto enunciativo, lasciando riecheggiare e intravedere significati al di là di quella, rimandi culturali e letterari sofisticati, alimentando complessità interpretative, sempre però sancendo la fine della conversazione con una locuzione definitiva, indubitabile nel contenuto, perentoria nell’espressione.

D’altronde, non si vive di solo pane.

Per diradare la nebbia delle post-verità, per bonificare la palude dell’immobilismo semantico dei botta prevedibilissima e risposta semi-automatica, per fare lo sgambetto ai rituali retorici dei cerimoniali pubblici quali le conferenze stampa di un Presidente del Consiglio serviva un eroe senza mantello, nel nostro caso il giornalista situazionista Alexander Jakhnagiev che ha chiesto a Giorgia Meloni se lei, quando cammina, calpesta o meno le formiche. Questo perché, secondo un proverbio della nonna di Jakhnagiev, “quando si calpestano le formiche poi piove”, e qui entriamo di prepotenza nel reame delle fiabe di animali e di magia con contenuti che certamente mal s’attagliano alla situazione istituzionale della conferenza stampa.

In realtà la strategia di Jakhnagiev è chiara, serve un detonatore, un grilletto (ok, un trigger), una dislocazione, un granello di sabbia nell’ingranaggio oliato e concordato del cerimoniale, uno spostamento degli assi cartesiani del qui-e-ora per destabilizzare Meloni, impedendole di rispondere con frasi fatte e concetti rimasticati, portandola a riformulare un nuovo imprevisto universo di discorso, a richiamare archivi semantici differenti e diversi stili linguistici espositivi, ad adottare una diversa postura comunicativa, quei gesti un po’ goffi che facciamo per ritrovare l’equilibrio dopo uno sgambetto o dopo essere incespicati.

La domanda, in quel contesto, veicola certamente dei significati ma non reclama senso, anzi confligge con il cerimoniale: il senso della domanda fuori luogo è proprio impedire che l’interlocutore si rifugga in luoghi comuni. Il senso della domanda è nella direzione della risposta, nell’intero comportamento di risposta.

La necessaria rapida riorganizzazione dei saperi e delle conoscenze, l’articolazione della risposta sul piano dell’espressione e dei contenuti farà emergere proprio il senso che cerchiamo con una domanda peregrina ovvero il contenuto è il modo stesso con cui l’interlocutore si riposiziona esistenzialmente, la tattica improvvisata a cui ricorre per fronteggiare l’imprevisto.

Ma lì, nei gesti e nei tentennamenti dell’altro, nel cambio di postura fisica e concettuale, nelle pause del discorso necessariamente meno formale e preimpostato e nelle scelte linguistiche, traspare e scorgiamo autenticità come saetta luminosa, come verità sensibile, possiamo ripristinare le giuste coordinate della circostanza di enunciazione, cogliamo il senso profondo dello scambio relazionale, lo svelarsi e rivelarsi delle persone nella loro autenticità.

Servono più sgambetti, scarti laterali, per farsi gioco e ri-valutare e rinnovare le pre-aspettative mie e dell’altro.

Non lavoro sul messaggio ma lavoro sul contesto, modificandolo affinché i significati situazionali cadano poi in nuove aggregazioni e correlazioni, ben sapendo che la differenza e lo scarto all’interpretazione sono segni e tracce simmetriche e speculari del senso.

trace | écart

Intelligenza laterale

futuroprossimo

Nel 2008 Chris Andersen, direttore di Wired e già famoso o famigerato per certi ragionamenti pochi anni prima sul web 2.0 e sulla teoria della coda lunga, scrisse un altro pezzo che fece un certo scalpore perché proclamava la “fine della teoria” intendendo proprio la teoria scientifica, almeno di quella fondata sul formulare un’ipotesi da poi verificare sperimentalmente – o falsificare, meglio.
Un salto paradigmatico: semplicemente indagando i Big Data è possibile estrarre risposte, o di certo configurazioni di senso, senza sapere prima bene cosa cercare. Risposte a domande che non abbiamo fatto. Dal caos indistinguibile di milioni di dati emergono pattern, schemi, correlazioni statistiche per noi inconcepibili quindi imprendibili. Un po’ tipo Picasso, “io non cerco, io trovo” e tutta la serendipità precedente e successiva.
Adesso una IA ha prodotto un risultato simile, un trovare senza cercare: analizzando venticinquemila radiografie del ginocchio può dirti quanta birra bevi o quanti fagioli mangi, e chissà quante altre informazioni può ricavare nell’individuare appunto dei pattern invisibili.
Nell’articolo che linko sotto c’è poi tutta la pappardella dei rischi della privacy e della credibilità che siamo disposti a concedere a diagnosi computerizzate, ma a me questo interessava: lasciamo libera l’intelligenza artificiale di fare questi passi laterali, questo scombiccherare domande e risposte, lasciamola indagare dove noi non possiamo arrivare.
Abbiam bisogno di altri punti di vista, alieni e altro-da-noi, per provare a sistemare i disastri che abbiamo e stiamo combinando sul pianeta, in ogni settore.
Il senso di una domanda è la direzione in cui cercare la risposta, ahimè formulata dentro lo stesso linguaggio.
Aboliamo la domanda per indagare nuove direzioni di risposta, con nuovi linguaggi.

Dalle radiografie l’IA deduce gusti alimentari: ecco perché è grave

Un eroe narrativo nell’economia delle piattaforme

Per deformazione professionale ho sempre cercato di individuare le forme della manipolazione cognitiva e performativa presenti nelle narrazioni del digitale, compreso quelle più recenti dalle piattaforme social in poi, e quindi qui si tratta di cercare un Eroe della storia indagando o il singolo individuo, noi stessi che vagabondiamo tra varie piattaforme (si rischia di cadere nello psicologismo) impersonando e allestendo identità digitali sempre diverse, oppure individuando l’Eroe della narrazione nelle piattaforme stesse, nel loro dover congiungersi con un Oggetto di valore – monetizzare gli spazi per gli inserzionisti, ottenere profilature sempre più stringenti e dettagliate per nutrire l’algoritmo propulso da IA – che riguarda il nostro restare e illusi e collusi, catturati nella rete delle gratificazioni personali e dei contatti relazionali che le piattaforme offrono.

Dovremmo forse scientemente a questo punto porre la consapevolezza stessa del nostro abitare in luoghi digitali progettati e “pilotati” quale vero Eroe della narrazione, marcare quelle fratture del testo (il nostro essere onlife, il nostro lifestreaming degli ultimi venti o trent’anni) dove ritroviamo indizi di superamento di prove cognitive come le prese di coscienza che abbiamo avuto nell’accorgerci di essere manipolati dalle piattaforme, come quando Google ha fatto sparire il motto “don’t be evil” dal proprio brand o Facebook in tribunale dice “we run ads”.
Diventare padroni del nostro destino, suvvia, riconoscendo di essere stati prede di manipolazioni e persuasioni, spesso sotto la soglia della coscienza in quanto ingaggiati “di pancia” su tematiche affettive o emotive indotte.

Sia chiaro: siamo ben oltre l’Economia dell’attenzione in quanto bene scarso, siamo proprio nell’Economia delle piattaforme e dei loro meccanismi acchiappaclick padroni del nostro tempo e delle nostre compulsioni, esplicitamente organizzate per seminare engagement nel nostro fare quotidiano, ormai altamente specializzate nel design di interfacce comportamentali studiate apposta per tenerci al guinzaglio allettandoci con promesse impastate di pulsioni e desiderio per tenerci in definitiva chiusi dentro questi giardini murati (walled garden) oppure meglio hortus conclusus ovvero orti conchiusi dove viene coltivata la nostra opinione – anche tramite polarizzazione, filter bubbles, echo chambers, sì – affinché sia volutamente conforme all’ideologia dominante e pro mantenimento status quo trasgressioni comprese (ipotesi marxista sospettosa), dentro questi stabilimenti di umanità in cui vaghiamo forse cercando conoscenza e confronto e dialogo, oppure forse ci arrendiamo ai cuoricini e ai gattini, senza riuscire a fuggire.

La critica all’Economia estrattivista delle piattaforme, dei suoi subdoli modi per catturarci, tenerci prigionieri (gli anelli del Potere) dei suoi meccanismi perfino patologici e patogenici per il  funzionamento tecnosociale non è cosa nuova, potendo in letteratura risalire a dieci o quasi quindici anni fa, nella giovinezza dei social che già mostravano piuttosto aggressivamente i dispositivi per colonizzare e controllare i nostri pensieri e i nostri comportamenti, indicando al contempo con il loro stesso agire quale fosse il territorio o l’Oggetto di valore da conquistare, ovvero la nostra attenzione e i nostri comportamenti, consapevoli o meno essi fossero. 

L’ipercapitalismo del digitale nell’Economia delle piattaforme ha fagocitato i beni comuni, i commons, innanzitutto il tempo e poi la creatività di singoli e comunità, la libera partecipazione non remunerata di gruppi sociali che abitavano in Rete per migliorare qualcosa, fosse un software o un’enciclopedia o un quartiere di una città, gli ingranaggi di una collettività tessendo reti relazionali di valore.

Un’internet che da qualche parte è ancora là sotto, fondata su condivisione paritetica e orizzontale delle informazioni e della conoscenza, e poi un web sistema operativo dell’umanità, vecchio sogno per collegare menti e azioni nella rete delle relazioni planetarie.

Manipolatemi con la nostalgia, o invitatemi a discussioni su siti web senza i tag di Google.

Il web è morto, ma abbiamo l’IA

Un ambiente tossico, e ce lo diciamo da anni. Una macchina automatica e disumana fatta di interfacce comportamentali, di estrattivismo, di manipolazione degli affetti e della’attenzione, disegnata per ingaggiarci.

Il web, un tempo terreno fertile per idee e connessioni, è diventato un cimitero digitale, vittima di un suicidio a puntate. Google, con il suo algoritmo onnipotente, ha trasformato la creazione di contenuti in un gioco di prestigio per accontentare una macchina, piuttosto che un pubblico reale. Parole chiave, ottimizzazioni ossessive, tutto finalizzato a un traffico inutile e anonimo.

Facebook, da sua parte, ha fagocitato le comunità online, trasformando le interazioni genuine in freddi numeri. I commenti, un tempo cuore pulsante delle discussioni, sono diventati un’eco lontana. L’ossessione per i numeri ha portato a un’inondazione di contenuti di bassa qualità, clickbait e fake news, soffocando le voci autentiche.

I blog, nati dalla passione di condividere, sono diventati aziende costrette a inseguire i banner pubblicitari, sacrificando la qualità per la quantità. Gli influencer, con la loro capacità di catturare l’attenzione delle masse, hanno attirato i finanziamenti, lasciando i piccoli editori a lottare per sopravvivere.

Il web è diventato un pantano di pubblicità invasiva, un luogo dove la ricerca della monetizzazione immediata ha prevalso sulla qualità. La pandemia ha accelerato questo declino, aumentando il traffico ma anche la frustrazione degli utenti, stanchi di navigare in un mare di contenuti inutili.

Oggi, i modelli di business tradizionali del web sono in crisi. Gli abbonamenti stentano a decollare, i banner pagano sempre meno. Il pubblico, disilluso, cerca alternative.

Tuttavia, c’è un barlume di speranza. Piccole comunità e progetti editoriali stanno rinascendo, puntando su un approccio più umano e meno mercantile. Il web non è morto, ma è in coma. Sta a noi decidere se risvegliarlo o lasciarlo morire definitivamente.

L’avidità, la ricerca del profitto immediato e la perdita di vista degli utenti hanno portato il web sull’orlo del collasso. La qualità è stata sacrificata sull’altare della quantità, e le interazioni genuine sono state sostituite da algoritmi e numeri. È tempo di ripensare il modo in cui utilizziamo e consumiamo i contenuti online.

Il testo qui sopra è stato graziosamente confezionato da Gemini attingendo a questa pagina https://www.clickbaiting.it/p/il-web-e-morto-lunga-vita-al-web

e quindi è allineato a destra.

IA per le politiche locali

Ho chiesto a Gemini venti idee di azioni Strategiche sull’IA nelle Politiche Locali, con focalizzazione sulle ultime tendenze e strumenti. E mi sembra utile.

L’IA al Servizio della Cittadinanza

  1. Città Intelligenti: L’IA come Pilastro dello Sviluppo Urbano. Esplorare come l’IA può trasformare le città in ecosistemi sostenibili ed efficienti.
  2. Democrazia Partecipativa con l’IA: Coinvolgere i Cittadini nelle Decisioni Politiche. Discutere l’utilizzo dell’IA per migliorare la partecipazione civica.
  3. Servizi Sociali Intelligenti: Utilizzare l’IA per Migliorare la Qualità della Vita. Analizzare come l’IA può ottimizzare i servizi sociali.

Governance e Trasparenza

  1. Governance Basata sull’Evidenza: L’IA come Supporto alla Decisione Politica. Esplorare come l’IA può aiutare i decisori politici a prendere decisioni informate.
  2. Trasparenza Algoritmica: Garantire l’Equità nell’Utilizzo dell’IA nella Pubblica Amministrazione. Discutere le sfide e le opportunità della trasparenza algoritmica.
  3. Accountabilità nell’Era dell’IA: Stabilire Responsabilità nella Pubblica Amministrazione. Analizzare i quadri giuridici e etici per l’utilizzo responsabile dell’IA.

Economia Locale e Sviluppo

  1. Sviluppo Economico Locale con l’IA: Attrarre Investimenti e Creare Impiego. Esplorare come l’IA può stimolare l’economia locale.
  2. Smart Agricoltura: Utilizzare l’IA per Sostenere il Settore Agricolo. Analizzare l’impatto dell’IA sull’agricoltura locale.
  3. Turismo Intelligente: Migliorare l’Esperienza Turistica con l’IA. Discutere le applicazioni dell’IA nel settore turistico.

Mobilità e Infrastrutture

  1. Mobilità Sostenibile con l’IA: Ottimizzare il Trasporto Pubblico. Esplorare come l’IA può migliorare l’efficienza dei sistemi di trasporto.
  2. Smart City: L’IA per la Gestione Intelligente delle Infrastrutture. Analizzare l’uso dell’IA nella manutenzione e gestione delle infrastrutture urbane.
  3. Sicurezza Pubblica con l’IA: Prevenire e Rispondere agli Eventi Critici. Discutere l’utilizzo dell’IA per migliorare la sicurezza pubblica.

Ambiente e Sostenibilità

  1. Città Sostenibili: L’IA per la Gestione delle Risorse. Esplorare come l’IA può contribuire alla sostenibilità ambientale.
  2. Gestione dei Rifiuti Intelligente: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare con l’IA. Analizzare l’uso dell’IA nella gestione dei rifiuti.
  3. Monitoraggio Ambientale con l’IA: Proteggere l’Ecosistema Locale. Discutere l’utilizzo dell’IA per il monitoraggio ambientale.

Sfide e Opportunità

  1. Disuguaglianze Digitali: Garantire l’Accesso All’IA per Tutti. Analizzare le implicazioni sociali dell’IA e le misure per ridurre il digital divide.
  2. Privacy e Sicurezza dei Dati: Proteggere i Cittadini nell’Era dell’IA. Discutere le misure per garantire la privacy e la sicurezza dei dati nell’uso dell’IA.
  3. Formazione e Competenze: Preparare la Forza Lavoro per l’Era dell’IA. Analizzare le necessità formative per affrontare le nuove sfide del mercato del lavoro.

Tendenze Emergenti

  1. Governo Aperto con l’IA: Aumentare la Trasparenza e la Partecipazione. Esplorare le nuove frontiere dell’utilizzo dell’IA nella pubblica amministrazione.
  2. Etica dell’IA: Garantire un Uso Responsabile della Tecnologia. Discutere i principi etici per guidare lo sviluppo e l’utilizzo dell’IA.

Ambientalismo digitale

Vi mostro un errore.

Un errore di approccio teorico, di inquadramento, di prospettiva, nel porre il problema e quindi nel provare a risolverlo. Perché un problem solving efficace deriva da un problem posing circostanziato.

Noi continuiamo a pensare al futuro come ad una proiezione del passato, mentre la rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema, come diciamo ormai tutti. Abbiam fatto il famoso salto.

La questione più che decennale – o secolare – riguarda la concezione del digitale e delle tecnologie (più o meno nuove) come “strumenti”.

Ripartiamo dal famoso martello: certo che è uno strumento, ma sappiamo che poi tutto quello che vediamo assomiglia a un chiodo, o a qualcosa che può essere colpito.

Perché impugnare un martello modifica la nostra percezione dell’ambiente, la concezione delle funzionalità di questa protesi del nostro braccio e della nostra mano, di noi stessi e del nostro potenziale agire.

Perché anche un martello è una tecnologia abilitante, nel senso che modifica le potenzialità del nostro fare nel mondo (la tecnologia, appunto) e questo è possibile perché trasforma la nostra “postura” mentale, appunto la nostra concezione del mondo.

Questo vale per il martello come per ogni tecnologia e pensiero tecnologico della storia dell’umanità, dal fuoco di Prometeo fino al digitale e alle modificazioni genetiche con CRISPr e al sincrotrone e alla Stazione Spaziale, perché la storia dell’Umanità è sempre la storia tecnologica dell’Umanità, nella profondità dell’evoluzione umana (il fuoco non l’ha “inventato” un sapiens, ricordiamoci), nella tecnologia del linguaggio e nel tramandare generazionalmente le innovazioni del nostro abitare come collettività e comunità, in dialogo perenne con l’ambiente e il territorio da cui trarre risorse e progettare trasformazioni, con uno sguardo capace di leggere (una “grammatica” del paesaggio, dei processi, delle relazioni tra tutti gli attori animati e inanimati) le circostanze e in grado auspicabilmente di prevedere le conseguenze di quelle trasformazioni sull’abitabilità stessa del territorio così modificato.

Bene, abbiamo molte parole chiave.
Strumento, ambiente, linguaggio, tecnologia abilitante, progetto, comunità, dialogo, grammatica territoriale.

Noi abitiamo innanzitutto degli ambienti mentali di organizzazione delle pratiche possibili, delle linee di visione, di opportunità di azione del fare umano. Abitiamo linguaggi, altrettanto notoriamente, e i territori sono conversazioni di un dialogo eterno fra noi e l’ambiente, nei geni e nei memi.

Questo è il punto: se uno strumento è già un ambiente, noi abitiamo linguaggi.

Se i linguaggi sono tecnologia, se le parole che possediamo ci permettono di comprendere e agire nel mondo, di narrarci a noi stessi – e quelle che non possediamo rendono impraticabile un pensiero altro – allora la Tecnologia è la Casa dell’Essere, con formula nota.


La comprensione innanzitutto in noi delle relazioni della nostra mente ed enciclopedia con l’ambiente e la circostanza (l’Io) che ospita la nostra vita rappresenta il Luogo dialogico (non c’è dentro, non c’è fuori, niente dualismo classico, è un continuum, mente e mondo in termini di identità e corrispondenza, “realtà” e rappresentazione) dove emerge il senso dell’Abitare, del trasformare, dell’aver cura. Il nostro EsserCi.

Questo significa senso della frequentazione dei Luoghi indifferentemente fisici o digitali, della partecipazione, delle identità emergenti nel passaggio generazionale, del promuovere il senso dell’abitare nella complessità.

Se continuiamo a concepire il computer o un satellite artificiale o l’automobile o dei pezzi di codice informatico come strumenti, non possiamo (non riusciamo a) cogliere l’ambiente e l’ecosistema in cui questi manufatti vivono inter-relati, il linguaggio con cui denotiamo e connotiamo la loro esistenza come oggetti e soggetti della realtà in una rete sensata di significanti e significati, il nostro stesso collocarci e rapportarci all’esistente. 

Costruire il futuro è costruire socialmente, in modo condiviso culturalmente, nell’immaginare il domani.

Costruire futuro significa risemantizzare i luoghi – mentali innanzitutto – che frequentiamo onlife, avendone cura. Il futuro come avvenire, quello su cui posso agire, etimologicamente pro-gettare.

E questo sarà conflitto, tra idee e tra stili dell’abitare, tra generazioni, tra esperti e sviluppatori, e abitanti – unici per i quali fenomenologicamente ha senso il luogo, perché conferiscono senso all’abitare lì e ora.

Significa risemantizzare l’immaginario, la proiezione dei significati, i sogni, i desideri, l’orizzonte della praticabilità. 

Lavorare sul contesto, non sul messaggio, per lasciar emergere i nuovi sensi delle nuove situazioni di enunciazione che stiamo vivendo per primi nella storia dell’umanità, dove non si era mai vista una rete planetaria di connessione e una miriade di mondi digitali condivisi, e oggi questo c’è, e noi ci abitiamo creando continuamente valore, urbanistica e comunità, elaborazione corale di una partecipazione e un sentimento di appartenenza alle collettività nostre di riferimento.

Strati di abitanza

Sempre pensare l’intero tecnosistema come tecnoecologia, come modello alveare di cellette tutte connesse tra loro, di flussi tra persone, oggetti, dati la Rete. O più reti appunto inteconnesse, arcipelago, tecnoversi e mediaversi nei paesaggi onlife.
O forse superare anche queste raffigurazioni metaforiche, verso nuovi modelli per concepire la complessità della vita digitale nostra, dei territori aumentati, delle comunità connesse dove elaborare il senso di questo nostro nuovo abitare.

E pensare la tecnoecologia nella storia del suo sviluppo tecnico e abilitante di nuovi comportamenti e valori, e poi anche pensarla a strati, dalla rete fissa alla rete mobile, alla realtà immersiva attuale, dove emergono le dimensioni psico-sociologiche e politico-economiche, dove le esperienze immersiva sono caratterizzate da

a. cornici di senso, codici semiotici e attività sociali nell’informazione e nella comunicazione, metafore, rituali, routine e atti narrativi, su diversi livelli espressivi e sensoriali

b. performatività processi e pratiche dentro gli spazi digital twin delle città o delle persone o delle cerimonie sociali, con relativi atti di impegno, desiderio, emozioni e coinvolgimento, nonché apertura di possibili sfaccettature manipolative dell’opinione e dei comportamenti

c. implicazioni profonde della psicologia che influenza le nostre credenze e ragionamenti

Bisogna tenere pur sempre presente che tutte le esperienze immersive fanno parte di industrie culturali, ecologie digitali di vasta portata, in cui è possibile ravvisare strutture di potere, strategie e dinamiche dei media.

Insomma il meccanismo di suscitare un bisogno per poi vendere la gratificazione funziona sempre, come in tutte le esperienze.

(appunti da Cosimo Accoto, “Il mondo in sintesi”)

jannis smart-city

La Rete narrazioni di noi, urban center, consapevolezza e partecipazione

Cercando una sintesi.

La partecipazione ormai disintermediata – i forum, i blog, i social – di tutti alla Grande Conversazione fa emergere identità collettive territoriali, come tribù mediatiche, o movimenti di opinione trasversali, sempre capaci di connotare lo stile di un peculiare abitare geograficamente riferito. Poi magari perderemo questa rappresentazione iperlocale dentro la grande centrifuga omogeneizzante e sincretica, ma appunto confido nella capacità della Rete di offrire nicchie ecologiche per identità e conversazioni particolari.

La tecnologia offre gli ambienti e gli strumenti, le narrazioni emergenti contribuiscono alla comprensione e alla rappresentazione di noi stessi e delle comunità nel contesto territoriale. Inoltre, attraverso l’uso di strumenti come dashboard cittadine e cruscotti, è possibile visualizzare in tempo reale i flussi e le dinamiche territoriali – materia, energia, informazioni – diventa disponibile una nuova nostra consapevolezza sulla compagine sociale di appartenenza, favorendo la partecipazione dei cittadini.

Questo “empowerment delle comunità” deriva dalla percezione del territorio come spazio di conoscenza e identità. Le pratiche quotidiane di comunicazione mediata e sociale contribuiscono alla costruzione di una nuova cittadinanza digitale, in cui le narrazioni territoriali emergono come specchi e messinscena per comprendere lo stile dell’abitare.

In termini di politica attiva, al fine di favorire partecipazione e appartenenza ovvero “aver cura” del territorio, si può pensare a iniziative come gli Urban Center, luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali locali e iperlocali, che promuovono la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali delle politiche urbane. Questi centri possono essere visti come “cervelletti” del sistema nervoso cittadino, in cui i flussi informativi grezzi vengono organizzati e ricondivisi con tutti i cittadini, creando una maggiore consapevolezza e coinvolgimento di tutti gli attori sociali, nonché supporto alle pubbliche decisioni.

Infatti gli obiettivi che possono essere raggiunti attraverso l’uso di questi ambienti di narrazione prevedono la co-decisione e la co-pianificazione nella governance urbana, la valorizzazione delle risorse patrimoniali e umane della città, la valutazione delle trasformazioni in atto e la progettazione di scenari di sviluppo, per una migliore comprensione e partecipazione delle comunità nel contesto territoriale, contribuendo alla costruzione di città o territori intelligenti e consapevoli.

jannis

Innovazione, smart-city e chatGPT

Meno male che è tornato ChatGPT, almeno parlo con qualcuno che risponde in modo pertinente, come dicevo.

Oggi gli ho fatto due domande sulla smart-city e mi aspettavo delle risposte tecniche, ma l’IA mi ha risposto benissimo rifacendosi quasi ai fondamenti della progettazione sociale, ovvero al tenere in considerazione il contesto di applicazione e a valutare l’impatto sulla comunità.

Quindi le competenze di un assessore all’innovazione digitale e alla smart-city, benché necessariamente imbibite di cultura tecnologica, riguardano soprattutto la sua visione di progresso territoriale e la sua capacità di stabilire delle linee progettuali dentro la complessità degli ecosistemi, con attori umani e oggettuali.

Encomiabile.

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*Come trasformare una città in una smart-city?*

La trasformazione di una città in una smart city richiede una pianificazione e una strategia a lungo termine. I primi passi da compiere potrebbero includere:

• Definire la visione e gli obiettivi della smart city: la definizione di una visione e degli obiettivi chiari e specifici è essenziale per orientare la trasformazione e garantire che tutti i progetti futuri siano allineati con questi obiettivi.
• Identificare i problemi della città: il primo passo consiste nell’identificare i problemi che la città deve affrontare, come la congestione del traffico, l’inquinamento atmosferico, la mancanza di spazi verdi, il consumo energetico eccessivo, la sicurezza, etc.
• Coinvolgere gli stakeholder: coinvolgere tutte le parti interessate, come cittadini, aziende, istituzioni pubbliche e private, università, al fine di creare una comunità consapevole e partecipe. Coinvolgere la comunità locale nella pianificazione della smart city è fondamentale. Ciò può essere fatto attraverso forum pubblici, sondaggi online o incontri con le parti interessate.
• Valutare le risorse: identificare le risorse disponibili per finanziare il progetto e determinare i costi iniziali e a lungo termine. Esaminare le tecnologie disponibili per le smart city – valutazione dell’infrastruttura esistente della città, come la connettività Internet, l’energia e i sistemi di trasporto – e valutare quale di esse è adatta alle esigenze della città.
• Sviluppare una strategia: sviluppare una strategia a lungo termine che definisca gli obiettivi della smart city, le priorità, le attività e i tempi di attuazione.
• Pianificare l’infrastruttura tecnologica smart: pianificare l’infrastruttura tecnologica necessaria, come reti di comunicazione avanzate, sensori, dispositivi IoT, software di gestione dati, etc., è un passo fondamentale per la trasformazione in una smart city.
• Implementare progetti pilota: per dimostrare i benefici delle tecnologie smart city, è importante implementare progetti pilota in aree specifiche della città. Ciò può aiutare a identificare le sfide e le opportunità per la futura implementazione della smart city.
• Sviluppare una strategia a lungo termine: creare una strategia a lungo termine per la smart city, che includa obiettivi chiari, pianificazione finanziaria e un piano di implementazione graduale. Analisi dei dati, il coinvolgimento della comunità e il feedback degli utenti.
• Valutare i risultati: valutare i risultati dei progetti pilota e rivedere la strategia se necessario. Rendere i dati accessibili: la raccolta e l’analisi dei dati sono essenziali per la gestione delle smart city. È importante che i dati siano facilmente accessibili e utilizzabili da parte dei cittadini, delle imprese e delle organizzazioni pubbliche.
• Implementare le soluzioni: implementare le soluzioni selezionate in modo graduale e continuativo, al fine di garantire un’evoluzione costante della città verso l’obiettivo di smart city. È importante notare che la trasformazione in smart city non può essere raggiunta in un solo passo. È un processo graduale che richiede impegno e partecipazione costante e collaborazione di tutte le parti interessate.

*Cosa deve fare un assessore all’innovazione?*

Come suggerisce il titolo, un assessore all’innovazione è responsabile di promuovere l’innovazione all’interno di una specifica area geografica, come una città o una regione. In particolare, l’assessore all’innovazione deve:

• Sviluppare e implementare strategie per promuovere l’innovazione e la tecnologia nella comunità di riferimento;
• Identificare le aree di opportunità per l’innovazione, sia a livello tecnologico che sociale, e lavorare per creare le condizioni per l’innovazione in tali aree;
• Lavorare con le imprese e le istituzioni locali per incentivare l’adozione di tecnologie innovative e creare nuove opportunità di lavoro;
• Promuovere l’alfabetizzazione digitale e tecnologica nella comunità, attraverso programmi di formazione e di sensibilizzazione;
• Collaborare con università e centri di ricerca per favorire la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie;
• Sostenere l’implementazione di politiche pubbliche che promuovano l’innovazione, come l’accesso a finanziamenti per le startup innovative o la creazione di parchi tecnologici.
• In generale, l’obiettivo dell’assessore all’innovazione è quello di creare un ambiente favorevole all’innovazione e alla tecnologia, che possa attrarre investimenti e talenti, generando nuove opportunità per la comunità locale.

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Alcuni autori e opere in lingua italiana – con l’asterisco quelli che ho letto – che trattano il tema delle smart-city sono:

Carlo Ratti – “La città del futuro” (2016) *
Fiorella De Cindio – “Smart City e tecnologie urbane” (2017) *
Francesco Lapenta – “Smart City: Città Intelligenti, Tecnologie e Nuovi Servizi” (2015)
Andrea Caragliu, Chiara Del Bo e Peter Nijkamp – “Smart Cities in Europe” (2011)
Stefano Stortone – “Smart City: un’opportunità per la città del futuro” (2014)
Alessandro Carlucci e Luca Mannella – “Smart City: la città del futuro. Una nuova opportunità per lo sviluppo urbano sostenibile” (2014) *
Roberto Masiero – “Smart City. Innovazione e sostenibilità nelle città intelligenti” (2016) *
Andrea Bifulco – “Smart City: il governo delle città tra tecnologia e diritti” (2018)
Lorenzo Bonoli – “Smart City. La città intelligente che cambia il mondo” (2018) *

Jannis

De te I.A. narratur

Intelligentia artificialis, certo.
Di te parla l’intelligenza artificiale, concedetemi di andare da Orazio a ChatGPT, con licenza di traduzione.

Perché ormai si tratta di una riflessione su cui molti stanno convergendo: tolti quelli che per professione o in accademia studiano il lato tecnologico-computazionale delle nuove interfacce, tolti quelli che magnificano le future possibilità o paventano rischi e minacce per la specie umana (apocalittici o integrati, insomma), a me rimane questo ragionar di come le piattaforme IA ci restituiscano una immagine di noi stessi, qual specchio d’umanità.

Rappresentazione fedele o distorta? Sempre distorta, in quanto mediata? Offre degli aspetti di verosomiglianza, è plausibile, credibile, accresce la conoscenza del soggetto (che riflette SU sé stesso), lo specchio è un segno?

Chi siamo, in quanto astanti o parlanti della situazione enunciativa? Quale riverbero della mia identità? Devo individuare un sistema di significazione e un processo di comunicazione? Ci sono codici di cui sono manchevole per padroneggiare l’interpretazione?

Oppure, ripartiamo da quel narrare. Una narrazione.

Abbiamo questa configurazione discorsiva di superficie, plausibile, perché chatGPT ci risponde a tono. Qui non c’entra la veridicità delle affermazioni, tutto il problema della corrispondenza a una realtà verificabile, col solito vecchio problema del referente.

Ho una macchina che produce testo, con cui posso dialogare, quindi sono attore della conversazione nell’azione della conversazione. Le risposte dell’Intelligenza Artificiale hanno significato o molti significati, ma hanno senso una volta pronunciati concretamente in una circostanza di enunciazione, qui e ora? Su questo schermo? O appunto ci stiamo interrogando su questa azione umanissima di proiettare senso su quello che eppur so non ne possiede, come in una pareidolìa?

E sotto la superficie, cosa succede? C’è uno schema narrativo, ci sono degli attanti, ho un programma narrativo, non sono indifferente ma sono un Eroe orientato e attivato in vista di uno scopo, devo acquisire conoscenze per incrementare la mia competenza nel saper-fare qualcosa, o abilità per poter-fare qualcosa, e mi affido a un aiutante magico. Un sapiente ignorante, di preciso, me lo dicono gli algoritmi e le grammatiche del funzionamento tecnico della macchina. Già se fosse un oracolo, dovrei sapere che si esprime in modo ambiguo, e mi servirebbe accortezza per disambiguare il messaggio, ricorrendo al cotesto e al contesto enunciativo e narrativo. Ma saprei almeno che mi risponde sensatamente, pertinentemente, seppur camuffando la sentenza dietro giochi linguistici.

Questa cautela che adottiamo è proprio quello che stiamo facendo, forse, dentro parentesi di sospensione dell’attribuzione di volontà, motivazione, orientamento delle piattaforme alle ideali massime conversazionali sul fornire risposte di qualità, chiarezza, con riguardo al modo e alla relazione con l’interlocutore. Non siamo arrivati fino a questo punto con lo sviluppo tecnologico. Se io e te facciamo le stesse domande a chatGPT, lei risponde allo stesso modo magari con qualche variante, poi gli si chiede di riformulare, e la risposta cambia talvolta nei contenuti talvolta nella forma, scarta pezzi di frase e ne inventa altre e poi riprende quelle scartate, ma certo il processo resta indipendente dalla personalità di colui che interroga.

Eppure certe risposte ci piacciono di più, perché nello spazio conversazionale noi ci siamo, e interagiamo, e rispondiamo come persone alle scelte lessicali e all’articolazione periodale e al dipanarsi delle argomentazioni e alle implicazioni affettive, quindi siamo già catturati nella rete dialogica profondissima del nostro essere umani, noi.

Per questo l’I.A. ci racconta una storia che parla di noi, sempre.

Questo ci cattura: interrogando le piattaforme siamo dentro uno spazio che percepiamo come dialogico, cadiamo dentro una prassi e una storia e un’esperienza di codici da richiamare e comportamenti da adottare, siamo in una postura comunicativa, attiviamo schemi inferenziali e interpretativi, orizzonti di attese e aspettative, movimenti cooperativi con il testo, riempiamo di senso l’immagine o la voce sintetica o lo scritto, lo scaldiamo, lo personifichiamo attribuendogli qualità e intenzione, fondiamo un Io e un Tu dialogici nel momento stesso dell’interazione, dentro una circostanza di enunciazione mai prima esperita da essere umano.

Golem, Frankenstein, Robot, Eliza, HAL9000, replicanti, Asimo, Her, mille libri e mille film. Abbiamo letteratura, stiamo scrivendo storie.

Che parlano di noi.