
Se intendiamo la stocastica come l’arte del congetturare, dentro ragionamenti attinenti alla statistica e ai fenomeni soggetti a variazioni casuali, capiamo perché in tal modo spesso viene definita l’azione delle Intelligenze artificiali su LLM – e talvolta pure con un malcelato disprezzo. Dell’IA non v’è certezza.
Tuttavia il congetturare è molto umano, nel nostro tentativo di proiettare un senso sulle cose o lasciare che esso emerga dagli accadimenti, quell’abduzione peirciana dove poniamo nel sillogismo un Risultato certo e una Regola esplicativa ipotetica per giungere a un Caso solamente probabile: così facendo ci allontaniamo (ab-ducere) dalla linearità strettamente logica e in una scommessa conoscitiva esploriamo le inferenze suggeriteci dall’ipotesi.
Se tutto va bene e non troviamo falsificazioni, progrediamo sulla strada della conoscenza scientifica. Cioè la strada del Logos come dimostrazione ben fondata (non dico “verità” perché è una parola sporca) cui si attinge invece attraverso l’argomentazione razionale.
Qui fa ovviamente capolino Mythos, perché da Platone in qua di questo discutiamo: come procede la Conoscenza, tra Logos e Mythos?
Mythos vale parola, discorso, narrazione, racconto fantastico.
Vi è in noi questa capacità mitopoietica di creare storie per dare senso agli eventi, una congettura per non lasciar silente ciò che non può essere detto, o almeno illustrato razionalmente, logicamente, con certezza fattuale della dimostrazione.
Come Platone che ricorre al mito della caverna, appunto. E lo scrive, anche.
Agisce con la scrittura, con la tecnologia della scrittura e del gesto, che possiede una sua struttura profonda e delle regole d’ingaggio nel dare corpo al fluire degli eventi, nel trasformare il mondo reificandolo, ancorandolo a concetti dentro il linguaggio – débrayage ed embrayage dell’enunciazione, in Benveniste e soprattutto Greimas, questo il vero nodo profondo della significazione e del nominare il mondo.
Le IA raccontano e scrivono un mito, assemblando stocasticamente l’enciclopedia scritta della cultura, i testi, senza poter sperimentare la realtà delle cose.
Noi raccontiamo e scriviamo un mito cercando di elaborare teorie e spiegazioni ipotetiche sul funzionamento interno imperscrutabile e inattingibile delle macchine, sulla loro aderenza a concetti di verità e di Logos, alla fattualità a cui noi abbiamo accesso (mediati dal linguaggio).
Non possiamo sperimentare la realtà delle cose dentro la macchina, allora ipotizziamo abduttivamente delle Regole per poterci spiegare il Risultato della nostra epoca, cioè avere delle macchine che producono autonomamente testo, e quindi poter sillogisticamente giungere a spiegare il Caso attuale del senso esistenziale di quella produzione linguistica, quel parlar di noi, a noi, con noi.
Il Logos è il fondamento certo della conoscenza e del conoscere umano, la tecnologia (della scrittura, dei testi, delle IA degli LLM) ne è l’essenza, e questo è molto Carlo Sini.
Resta da capire il mythos, la nuvola di suggestioni delle nostre domande, e come distillarne ipotesi operative.
Come in una seduta psicanalitica interpretiamo un sogno dandogli narratività, e giustapponiamo al sogno il nostro sogno, enunciandolo e narrandolo.
Dentro le tecnologie del linguaggio.
Lo spunto qui sopra è originariamente dato da un post di Mario Pireddu su FB.
Durante un esame con uno studente, presi dalla discussione sulle tecnologie alla base delle Intelligenze Artificiali Generative, apriamo ChatGPT e poniamo una domanda.
Mario:
Il filosofo Carlo Sini dice in suo saggio del 2024 che parliamo tanto di innovazione e tecnologia – giustamente – ma in fin dei conti anche alla base dell’intelligenza artificiale c’è una tecnologia antichissima, quella della scrittura. Sei d’accordo?
ChatGPT:
Sì, Mario, concordo profondamente con l’intuizione di Carlo Sini: l’intelligenza artificiale, nella sua forma contemporanea, affonda le radici in una tecnologia cognitiva originaria — la scrittura — e più in generale nella tradizione simbolica che consente l’esternalizzazione, la conservazione e la manipolazione del pensiero umano.
1. Scrittura come infrastruttura cognitiva
Sini, filosofo del gesto e del segno, sottolinea da tempo come la scrittura non sia solo un mezzo di comunicazione, ma una forma di sapere incarnato che trasforma il nostro modo di pensare, percepire, e organizzare il mondo. In quest’ottica, la scrittura è già un’intelligenza artificiale “analogica”: un dispositivo semiotico che esternalizza l’intelligenza e ne potenzia la capacità combinatoria, riflessiva e normativa.
2. Dall’oralità all’algoritmo
Le AI generative come i LLM non sono che il prolungamento di questa linea:
Tokenizzazione, embedding, predizione linguistica sono tutte operazioni che traggono forza dalla possibilità di segmentare, manipolare e combinare simboli scritti.
La scrittura digitale, strutturata in corpus, dataset, grammatiche statistiche, consente l’addestramento di modelli che si nutrono di testi, quindi di memorie scritte.
3. Mediazione semiotica e agency
Se consideriamo — come fa Sini — ogni tecnologia come una forma di “scrittura del mondo”, allora anche le AI non sono altro che nuove calligrafie del pensiero, che rendono visibile e manipolabile l’invisibile: categorie, probabilità, inferenze. Ma queste “scritture computazionali” sono opache, automatizzate, potenzialmente estranianti.
4. Il paradosso della continuità
Ci troviamo dunque in una continuità discontinua: l’AI ci appare come una rottura epocale, ma in realtà si innesta su dispositivi cognitivi, gestuali, tecnici e simbolici che hanno radici millenarie. La vera novità, forse, non è che la macchina scriva, ma che scriva a partire da tutte le scritture passate, in un archivio globale e disincarnato.
In sintesi, parlare di AI senza parlare di scrittura — come tecnologia, gesto, forma di vita — significa ignorare l’elemento più profondo della questione. Sini, come Derrida, Ong, Goody, ma anche Calvino e Poe (che tu conosci bene), ci invita a pensare la scrittura non come ciò che precede l’AI, ma come ciò che la rende possibile.












