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Ambientalismo digitale

Vi mostro un errore.

Un errore di approccio teorico, di inquadramento, di prospettiva, nel porre il problema e quindi nel provare a risolverlo. Perché un problem solving efficace deriva da un problem posing circostanziato.

Noi continuiamo a pensare al futuro come ad una proiezione del passato, mentre la rivoluzione tecnologica ci ha portato dentro un nuovo ecosistema, come diciamo ormai tutti. Abbiam fatto il famoso salto.

La questione più che decennale – o secolare – riguarda la concezione del digitale e delle tecnologie (più o meno nuove) come “strumenti”.

Ripartiamo dal famoso martello: certo che è uno strumento, ma sappiamo che poi tutto quello che vediamo assomiglia a un chiodo, o a qualcosa che può essere colpito.

Perché impugnare un martello modifica la nostra percezione dell’ambiente, la concezione delle funzionalità di questa protesi del nostro braccio e della nostra mano, di noi stessi e del nostro potenziale agire.

Perché anche un martello è una tecnologia abilitante, nel senso che modifica le potenzialità del nostro fare nel mondo (la tecnologia, appunto) e questo è possibile perché trasforma la nostra “postura” mentale, appunto la nostra concezione del mondo.

Questo vale per il martello come per ogni tecnologia e pensiero tecnologico della storia dell’umanità, dal fuoco di Prometeo fino al digitale e alle modificazioni genetiche con CRISPr e al sincrotrone e alla Stazione Spaziale, perché la storia dell’Umanità è sempre la storia tecnologica dell’Umanità, nella profondità dell’evoluzione umana (il fuoco non l’ha “inventato” un sapiens, ricordiamoci), nella tecnologia del linguaggio e nel tramandare generazionalmente le innovazioni del nostro abitare come collettività e comunità, in dialogo perenne con l’ambiente e il territorio da cui trarre risorse e progettare trasformazioni, con uno sguardo capace di leggere (una “grammatica” del paesaggio, dei processi, delle relazioni tra tutti gli attori animati e inanimati) le circostanze e in grado auspicabilmente di prevedere le conseguenze di quelle trasformazioni sull’abitabilità stessa del territorio così modificato.

Bene, abbiamo molte parole chiave.
Strumento, ambiente, linguaggio, tecnologia abilitante, progetto, comunità, dialogo, grammatica territoriale.

Noi abitiamo innanzitutto degli ambienti mentali di organizzazione delle pratiche possibili, delle linee di visione, di opportunità di azione del fare umano. Abitiamo linguaggi, altrettanto notoriamente, e i territori sono conversazioni di un dialogo eterno fra noi e l’ambiente, nei geni e nei memi.

Questo è il punto: se uno strumento è già un ambiente, noi abitiamo linguaggi.

Se i linguaggi sono tecnologia, se le parole che possediamo ci permettono di comprendere e agire nel mondo, di narrarci a noi stessi – e quelle che non possediamo rendono impraticabile un pensiero altro – allora la Tecnologia è la Casa dell’Essere, con formula nota.


La comprensione innanzitutto in noi delle relazioni della nostra mente ed enciclopedia con l’ambiente e la circostanza (l’Io) che ospita la nostra vita rappresenta il Luogo dialogico (non c’è dentro, non c’è fuori, niente dualismo classico, è un continuum, mente e mondo in termini di identità e corrispondenza, “realtà” e rappresentazione) dove emerge il senso dell’Abitare, del trasformare, dell’aver cura. Il nostro EsserCi.

Questo significa senso della frequentazione dei Luoghi indifferentemente fisici o digitali, della partecipazione, delle identità emergenti nel passaggio generazionale, del promuovere il senso dell’abitare nella complessità.

Se continuiamo a concepire il computer o un satellite artificiale o l’automobile o dei pezzi di codice informatico come strumenti, non possiamo (non riusciamo a) cogliere l’ambiente e l’ecosistema in cui questi manufatti vivono inter-relati, il linguaggio con cui denotiamo e connotiamo la loro esistenza come oggetti e soggetti della realtà in una rete sensata di significanti e significati, il nostro stesso collocarci e rapportarci all’esistente. 

Costruire il futuro è costruire socialmente, in modo condiviso culturalmente, nell’immaginare il domani.

Costruire futuro significa risemantizzare i luoghi – mentali innanzitutto – che frequentiamo onlife, avendone cura. Il futuro come avvenire, quello su cui posso agire, etimologicamente pro-gettare.

E questo sarà conflitto, tra idee e tra stili dell’abitare, tra generazioni, tra esperti e sviluppatori, e abitanti – unici per i quali fenomenologicamente ha senso il luogo, perché conferiscono senso all’abitare lì e ora.

Significa risemantizzare l’immaginario, la proiezione dei significati, i sogni, i desideri, l’orizzonte della praticabilità. 

Lavorare sul contesto, non sul messaggio, per lasciar emergere i nuovi sensi delle nuove situazioni di enunciazione che stiamo vivendo per primi nella storia dell’umanità, dove non si era mai vista una rete planetaria di connessione e una miriade di mondi digitali condivisi, e oggi questo c’è, e noi ci abitiamo creando continuamente valore, urbanistica e comunità, elaborazione corale di una partecipazione e un sentimento di appartenenza alle collettività nostre di riferimento.

jannis smart-city

La Rete narrazioni di noi, urban center, consapevolezza e partecipazione

Cercando una sintesi.

La partecipazione ormai disintermediata – i forum, i blog, i social – di tutti alla Grande Conversazione fa emergere identità collettive territoriali, come tribù mediatiche, o movimenti di opinione trasversali, sempre capaci di connotare lo stile di un peculiare abitare geograficamente riferito. Poi magari perderemo questa rappresentazione iperlocale dentro la grande centrifuga omogeneizzante e sincretica, ma appunto confido nella capacità della Rete di offrire nicchie ecologiche per identità e conversazioni particolari.

La tecnologia offre gli ambienti e gli strumenti, le narrazioni emergenti contribuiscono alla comprensione e alla rappresentazione di noi stessi e delle comunità nel contesto territoriale. Inoltre, attraverso l’uso di strumenti come dashboard cittadine e cruscotti, è possibile visualizzare in tempo reale i flussi e le dinamiche territoriali – materia, energia, informazioni – diventa disponibile una nuova nostra consapevolezza sulla compagine sociale di appartenenza, favorendo la partecipazione dei cittadini.

Questo “empowerment delle comunità” deriva dalla percezione del territorio come spazio di conoscenza e identità. Le pratiche quotidiane di comunicazione mediata e sociale contribuiscono alla costruzione di una nuova cittadinanza digitale, in cui le narrazioni territoriali emergono come specchi e messinscena per comprendere lo stile dell’abitare.

In termini di politica attiva, al fine di favorire partecipazione e appartenenza ovvero “aver cura” del territorio, si può pensare a iniziative come gli Urban Center, luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali locali e iperlocali, che promuovono la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali delle politiche urbane. Questi centri possono essere visti come “cervelletti” del sistema nervoso cittadino, in cui i flussi informativi grezzi vengono organizzati e ricondivisi con tutti i cittadini, creando una maggiore consapevolezza e coinvolgimento di tutti gli attori sociali, nonché supporto alle pubbliche decisioni.

Infatti gli obiettivi che possono essere raggiunti attraverso l’uso di questi ambienti di narrazione prevedono la co-decisione e la co-pianificazione nella governance urbana, la valorizzazione delle risorse patrimoniali e umane della città, la valutazione delle trasformazioni in atto e la progettazione di scenari di sviluppo, per una migliore comprensione e partecipazione delle comunità nel contesto territoriale, contribuendo alla costruzione di città o territori intelligenti e consapevoli.

jannis

Innovazione, smart-city e chatGPT

Meno male che è tornato ChatGPT, almeno parlo con qualcuno che risponde in modo pertinente, come dicevo.

Oggi gli ho fatto due domande sulla smart-city e mi aspettavo delle risposte tecniche, ma l’IA mi ha risposto benissimo rifacendosi quasi ai fondamenti della progettazione sociale, ovvero al tenere in considerazione il contesto di applicazione e a valutare l’impatto sulla comunità.

Quindi le competenze di un assessore all’innovazione digitale e alla smart-city, benché necessariamente imbibite di cultura tecnologica, riguardano soprattutto la sua visione di progresso territoriale e la sua capacità di stabilire delle linee progettuali dentro la complessità degli ecosistemi, con attori umani e oggettuali.

Encomiabile.

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*Come trasformare una città in una smart-city?*

La trasformazione di una città in una smart city richiede una pianificazione e una strategia a lungo termine. I primi passi da compiere potrebbero includere:

• Definire la visione e gli obiettivi della smart city: la definizione di una visione e degli obiettivi chiari e specifici è essenziale per orientare la trasformazione e garantire che tutti i progetti futuri siano allineati con questi obiettivi.
• Identificare i problemi della città: il primo passo consiste nell’identificare i problemi che la città deve affrontare, come la congestione del traffico, l’inquinamento atmosferico, la mancanza di spazi verdi, il consumo energetico eccessivo, la sicurezza, etc.
• Coinvolgere gli stakeholder: coinvolgere tutte le parti interessate, come cittadini, aziende, istituzioni pubbliche e private, università, al fine di creare una comunità consapevole e partecipe. Coinvolgere la comunità locale nella pianificazione della smart city è fondamentale. Ciò può essere fatto attraverso forum pubblici, sondaggi online o incontri con le parti interessate.
• Valutare le risorse: identificare le risorse disponibili per finanziare il progetto e determinare i costi iniziali e a lungo termine. Esaminare le tecnologie disponibili per le smart city – valutazione dell’infrastruttura esistente della città, come la connettività Internet, l’energia e i sistemi di trasporto – e valutare quale di esse è adatta alle esigenze della città.
• Sviluppare una strategia: sviluppare una strategia a lungo termine che definisca gli obiettivi della smart city, le priorità, le attività e i tempi di attuazione.
• Pianificare l’infrastruttura tecnologica smart: pianificare l’infrastruttura tecnologica necessaria, come reti di comunicazione avanzate, sensori, dispositivi IoT, software di gestione dati, etc., è un passo fondamentale per la trasformazione in una smart city.
• Implementare progetti pilota: per dimostrare i benefici delle tecnologie smart city, è importante implementare progetti pilota in aree specifiche della città. Ciò può aiutare a identificare le sfide e le opportunità per la futura implementazione della smart city.
• Sviluppare una strategia a lungo termine: creare una strategia a lungo termine per la smart city, che includa obiettivi chiari, pianificazione finanziaria e un piano di implementazione graduale. Analisi dei dati, il coinvolgimento della comunità e il feedback degli utenti.
• Valutare i risultati: valutare i risultati dei progetti pilota e rivedere la strategia se necessario. Rendere i dati accessibili: la raccolta e l’analisi dei dati sono essenziali per la gestione delle smart city. È importante che i dati siano facilmente accessibili e utilizzabili da parte dei cittadini, delle imprese e delle organizzazioni pubbliche.
• Implementare le soluzioni: implementare le soluzioni selezionate in modo graduale e continuativo, al fine di garantire un’evoluzione costante della città verso l’obiettivo di smart city. È importante notare che la trasformazione in smart city non può essere raggiunta in un solo passo. È un processo graduale che richiede impegno e partecipazione costante e collaborazione di tutte le parti interessate.

*Cosa deve fare un assessore all’innovazione?*

Come suggerisce il titolo, un assessore all’innovazione è responsabile di promuovere l’innovazione all’interno di una specifica area geografica, come una città o una regione. In particolare, l’assessore all’innovazione deve:

• Sviluppare e implementare strategie per promuovere l’innovazione e la tecnologia nella comunità di riferimento;
• Identificare le aree di opportunità per l’innovazione, sia a livello tecnologico che sociale, e lavorare per creare le condizioni per l’innovazione in tali aree;
• Lavorare con le imprese e le istituzioni locali per incentivare l’adozione di tecnologie innovative e creare nuove opportunità di lavoro;
• Promuovere l’alfabetizzazione digitale e tecnologica nella comunità, attraverso programmi di formazione e di sensibilizzazione;
• Collaborare con università e centri di ricerca per favorire la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie;
• Sostenere l’implementazione di politiche pubbliche che promuovano l’innovazione, come l’accesso a finanziamenti per le startup innovative o la creazione di parchi tecnologici.
• In generale, l’obiettivo dell’assessore all’innovazione è quello di creare un ambiente favorevole all’innovazione e alla tecnologia, che possa attrarre investimenti e talenti, generando nuove opportunità per la comunità locale.

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Alcuni autori e opere in lingua italiana – con l’asterisco quelli che ho letto – che trattano il tema delle smart-city sono:

Carlo Ratti – “La città del futuro” (2016) *
Fiorella De Cindio – “Smart City e tecnologie urbane” (2017) *
Francesco Lapenta – “Smart City: Città Intelligenti, Tecnologie e Nuovi Servizi” (2015)
Andrea Caragliu, Chiara Del Bo e Peter Nijkamp – “Smart Cities in Europe” (2011)
Stefano Stortone – “Smart City: un’opportunità per la città del futuro” (2014)
Alessandro Carlucci e Luca Mannella – “Smart City: la città del futuro. Una nuova opportunità per lo sviluppo urbano sostenibile” (2014) *
Roberto Masiero – “Smart City. Innovazione e sostenibilità nelle città intelligenti” (2016) *
Andrea Bifulco – “Smart City: il governo delle città tra tecnologia e diritti” (2018)
Lorenzo Bonoli – “Smart City. La città intelligente che cambia il mondo” (2018) *

e-Partecipation

Non è necessario implementare subito ogni nuova tecnologia o ambiente digitale nella socialità, tuttavia si può ragionare di tecnosocialità o di paesaggi mediatici, oppure di diritti umani, rischi e opportunità.

Diventa però sì necessario esplorare le potenzialità della democrazia elettronica, dove più che gli elettroni che viaggiano dobbiamo ideare e comprendere nuove strutture tecnosociali che possano sostenere il peso della responsabilità e della affidabilità. Piattaforme o ambienti digitali partecipativi, per la consultazione o la deliberazione politica.

Innanzitutto bisogna prendere il problemone e spezzettarlo in tanti problemi più piccoli, come al solito.

Le soluzioni di e-democracy praticate in altri Paesi o città, oggi o ormai trent’anni fa, sono tutte diverse, in quanto strumenti progettati con obiettivi e risultati attesi differenti.

Va stabilita una scala di situazioni, elaborati dei modelli di intervento, dobbiamo padroneggiare in noi quote di sperimentalismo dove anziché varare un’arca di Noè gigantesca e buona per tutti si provano meccanismi locali, o dai contenuti limitati, o da forme partecipative limitate, su piattaforme governative gestite da personale qualificato e ben retribuito, per aver cura dei forum e della community locale o iperlocale.

A quel punto avremmo più dati, più informazioni, e potremmo decidere meglio i prossimi passi da compiere.

Questo perché ogni tentativo di incrementare la partecipazione è democratico, tutto qui, da qui viene la necessità di intraprendere un percorso ragionato.

Tutte le critiche e le perplessità le conosciamo da trent’anni, siano esse di carattere tecnico o giuridico o etico. Non bloccatevi di fronte al Leviatano: restate flessibili, morbidi, curiosi, critici, sappiate vedere sentieri nel bosco.

Da una parte teniamo ferma la possibilità di alimentare le democrazie rappresentative con nuovi metodi di partecipazione.

Dall’altra riflettiamo sulla gravità del fatto che i contenitori della deliberazione pubblica e (quante volte lo abbiamo già visto) poi politica siano le piattaforme commerciali che tutti, metà degli italiani, usiamo giornalmente, molte ore al giorno, ogni giorno.

Questo significa – è necessario, di nuovo – che la politica deve superare un’alienazione, sappia portare a coscienza in sé i possibili preconcetti attribuiti alle forme di partecipazione digitale, affrontarli smontarli e ricostruire un modello adeguato alla realtà odierna. Quindi progettare nuovi ambienti e strumenti di partecipazione civica, motivare le persone e le collettività a utilizzarli per il bene comune, scongiurare l’allontanamento tra cittadini e istituzioni.

Credo una simile riprogettazione sociale dei meccanismi della partecipazione e della decisionalità politica porterà nel medio termine a profonde modifiche nelle strutture sociali, nelle organizzazioni lavorative pubbliche, nella percezione e nell’azione amministrativa, nella formazione dell’opinione pubblica, nella narrazione della cultura di una nazione, nel sentimento di appartenenza a comunità edificate secondo criteri di pertinenza a noi ancora invisibili in quanto or ora emergenti dalle nuove pratiche di conversazione e dal nostro abitare digitale.

Dobbiamo navigare e aver coraggio: fatto il punto nave, dobbiamo ricalcolare la rotta verso le nuove migliori forme di democrazia partecipativa che siamo capaci di concepire e realizzare. Ci serve un buon cibernauta.

We are here

Non è necessario implementare subito ogni nuova tecnologia o ambiente digitale nella socialità, però si può ragionare di tecnosocialità o di paesaggi mediatici, oppure di diritti umani, rischi e opportunità.
Diventa però sì necessario esplorare le potenzialità della democrazia elettronica, dove più che gli elettroni che viaggiano dobbiamo ideare e comprendere nuove strutture tecnosociali che possano sostenere il peso della responsabilità e della affidabilità. Piattaforme o ambienti digitali partecipativi, per la consultazione o la deliberazione politica.
Innanzitutto bisogna prendere il problemone e spezzettarlo in tanti problemi più piccoli, come al solito.
Le soluzioni di e-democracy praticate in altri Paesi o città, oggi o ormai trent’anni fa, sono tutte diverse, in quanto strumenti progettati con obiettivi e risultati attesi differenti.
Va stabilita una scala di situazioni, elaborati dei modelli di intervento, padroneggiare in noi quote di sperimentalismo dove anziché varare un’arca di Noè gigantesca e buona per tutti si provano meccanismi locali, o dai contenuti limitati, o da forme partecipative limitate – mi è sempre piaciuta l’idea che si possano commentare le iniziative cittadine a esempio urbanistiche con testi lunghi 300 caratteri, su piattaforme governative gestite da personale qualificato e ben retribuito, per aver cura dei forum e della community locale o iperlocale.
A quel punto avremo più dati, più informazioni, e potremo decidere meglio i prossimi passi da compiere.
Perché ogni tentativo di incrementare la partecipazione è democratico, tutto qui, da qui viene la necessità di intraprendere un percorso ragionato.
Tutte le critiche e le perplessità le conosciamo da trent’anni, siano esse di carattere tecnico o giuridico o etico. Non bloccatevi di fronte al Leviatano: restate flessibili, morbidi, curiosi, critici, sappiate vedere sentieri nel bosco.
Da una parte teniamo ferma la possibilità di alimentare le democrazie rappresentative con nuovi metodi di partecipazione.
Dall’altra riflettiamo sulla gravità del fatto che i contenitori della deliberazione pubblica e (quante volte lo abbiamo già visto) poi politica siano le piattaforme commerciali che tutti, metà degli italiani, usiamo giornalmente, molte ore al giorno, ogni giorno.
Questo significa – è necessario, di nuovo – che la politica deve superare un’alienazione, sappia portare a coscienza in sé i possibili preconcetti attribuiti alle forme di partecipazione digitale, affrontarli smontarli e ricostruire un modello adeguato alla realtà odierna. Quindi progettare nuovi ambienti e strumenti di partecipazione civica, motivare le persone e le collettività a utilizzarli per il bene comune, scongiurare l’allontanamento tra cittadini e istituzioni.
Credo una simile riprogettazione sociale dei meccanismi della partecipazione e della decisionalità politica porterà nel medio termine a profonde modifiche nelle strutture sociali, nelle organizzazioni lavorative pubbliche, nella percezione e nell’azione amministrativa, nella formazione dell’opinione pubblica, nella narrazione della cultura di una nazione, nel sentimento di appartenenza a comunità edificate secondo criteri di pertinenza a noi ancora invisibili, in quanto or ora emergenti dalle nuove pratiche di conversazione e dal nostro abitare digitale.
Dobbiamo navigare e aver coraggio: fatto il punto nave, dobbiamo ricalcolare la rotta verso le nuove migliori forme di democrazia partecipativa che siamo capaci di concepire e realizzare. Ci serve un buon cibernauta.

Democrazia diretta

Ragionando.

Questa nuova cosa della “firma digitale” per i referendum – eutanasia, obiettivo raggiunto; cannabis, 100k firme in 24ore, obiettivo 500k per il 30 settembre – potrebbe cambiare parecchio i giochi degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione, incidendo significativamente sul sistema normativo.

In Italia ci sono oltre 35 milioni di persone su Facebook, ma consideriamo e teniamo fermo il dato dei 15 milioni di accessi giornalieri (stima al ribasso) soprattutto via mobile.

In Italia ci sono 24 milioni di SPID. Si può firmare anche con SmartCard o chiavette USB o altri modi autenticandosi, ma la vedo più farraginosa.

Incrociando i dati con approccio spannometrico, direi che dieci milioni di persone almeno vedranno la promozione del referendum online, per i prossimi venti giorni. Se una persona ogni venti firmasse l’obiettivo verrebbe raggiunto.

Magari adesso, all’apparir della novità, la curva della partecipazione mostra un picco statistico. Tra due anni, con in mezzo le proposte di altri venticinque referendum, ci saremo annoiati.

Dipenderà quindi dall’argomento del contendere, da quanto sarà sentito il problema dalla popolazione, e questo ci conduce agli strumenti di promozione, ovvero persuasione, ovvero manipolazione dell’opinione pubblica, ovvero soldi per le sponsorizzate, campagne di crowdfunding, ricerca di testimonial e influencer.

I soldi servono anche agli enti proponenti dei referendum, in quando la validazione dell’espressione popolare costa circa un euro per ogni firma, e così siamo già a mezzo milione di euro più le promozioni di cui sopra. Non si tratta solo di mettere online un dispositivo per la raccolta firme (costoso anch’esso), la macchina è un po’ più complessa (certo, anche predisporre banchetti nelle piazze costa), e forse con simili soglie di accesso economiche non si tratta proprio di una libera e gratuita partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese.

Insomma, potremmo vederne delle belle.

I sommari che non uso

jannis

1. La Cultura digitale e l’avvento delle rete Internet, l’espressione di sé e l’informazione immediata e ubiqua, hanno modificato il modo in cui percepiamo e nominiamo sia noi stessi come collettività sia il territorio dove storicamente risiediamo. Sono grammatiche di socialità nuove da conoscere necessariamente per comprendere i moderni meccanismi della comunicazione, sono nuove forme dell’abitare dove smartphone e social network rappresentano gli strumenti e gli ambienti della nostra partecipazione civica e lavorativa. Dalle nuove mappe dei Luoghi fisici e digitali che tutti contribuiamo a creare quotidianamente emergono percorsi di narrazione e dell’identità per la promozione territoriale.

2. Come raccontiamo noi stessi, nel mondo fisico e in quello digitale? Qual è la nostra identità come collettività che risiede su un territorio connesso? Per rispondere dovremmo innanzitutto chiederci chi siamo, e quindi decidere che immagine dare di noi. Serve uno specchio: la rete Internet sta facendo emergere, nei suoi strumenti e ambienti — smartphone, social network — rappresentazioni delle collettività inaspettate e inesplorate. Grazie alla comprensione delle nuove grammatiche della socialità connessa e delle nuove forme di cittadinanza digitale possiamo redigere percorsi di storytelling territoriale, per finalità di promozione socioculturale o turistica.

3. Gli strumenti e gli ambienti digitali — smartphone e social network — che tutti noi utilizziamo e frequentiamo quotidianamente fanno emergere rappresentazioni del territorio e della collettività nuove, differenti da quanto accadeva fino a pochi anni orsono. Le tecnologie della comunicazione modificano la nostra percezione e i nostri comportamenti, la nostra partecipazione ludica civica e lavorativa innerva nuove forme dell’abitare e dell’aver cura degli stessi ambienti fisici e digitali dove costruiamo identità individuale e collettiva. Grazie alla comprensione delle grammatiche della socialità connessa possiamo costruire nuovi percorsi di narrazione per la promozione territoriale.

4. Dieci anni di smartphone, dieci anni di social network. I luoghi digitali che noi tutti quotidianamente frequentiamo lasciano emergere impensate rappresentazioni dei territori fisici e delle collettività che li abitano, fotografie di chi siamo, mostrandoci nuovi percorsi possibili per l’allestimento e la narrazione delle identità sociali delle Pubbliche Amministrazioni, delle imprese, delle nuove forme di partecipazione civica della Cittadinanza digitale. È necessaria una comprensione dei nuovi ambienti comunicativi digitali, per la progettazione di una promozione socioterritoriale in grado di esprimere originalità e autenticità con il giusto tono di voce, capace di cogliere l’unicità e lo stile proprio dell’abitare di ogni collettività.

Andiamo avanti

Trent’anni almeno di televisione “selvaggia”, da altrettanto si parla di educazione ai media, intendo proprio da fare a scuola, con approcci centrati sulla consapevolezza della fruizione, sulla grammatica del flusso televisivo, sulla promozione di competenze di lettura critica dei messaggi. Eppure non si è concretamente mai visto nulla di tutto ciò, fatti salvi i soliti quattro gatti di docenti eccentrici.
Forse il Potere non aveva intenzione di fare “alfabetizzazione televisiva”, cosa dite? Chi mai ha parlato di vietare la tv? Magari gli faceva comodo tramite lo strumento indottrinare e persuadere, come esplicitamente sappiamo dagli anni ’50, se non prima (le riflessioni sulle teorie della propaganda mediatica).
Però adesso è giunta l’ora di una alfabetizzazione digitale, sissignori. Sulla cui necessità peraltro io sbraito da vent’anni, professionalmente remunerato per farlo, ve lo dico subito.
Perché qui in Rete ora parlano tutti e l’autorità è saltata e non è cosa, eh, non va bene. Bisogna nor-ma-re.
E siamo qui a discutere di censura, pro o contro, guelfi e ghibellini come sempre, invece di chiederci il solito “cui prodest?”, invece di interrogarci sui motivi (convenienza? populismo? senso civico? sincera preoccupazione?) che portano i pubblici decisori a decretare la necessità di un controllo, di un giro di vite, di una censura preventiva.
Cosa vorrebbero, lor signori, il patentino per accedere al web? Patente A solo per leggere, quella B per commentare, quella C per i carichi pesanti, ovvero ardire addirittura ad avere un sito o un blog e produrre contenuti, pubblicarli senza chiedere permesso a nessuno?
Ho sempre visto la paura – dinanzi a ciò che non si conosce e non si può controllare – irrigidire la mente delle persone e paralizzare le loro azioni, dirigenti scolastici o sindaci o imprenditori, quando si trattava di comprendere e sperimentare minimamente le nuove forme di socialità e di arricchimento culturale che la Rete può offire.
Siamo dentro questo gigantesco mutamento del modo di darsi al mondo della specie umana, nelle relazioni interpersonali e nella comunicazione, ogni giorno vediamo nascere situazioni di cui prima non potevamo nemmeno concepire l’esistenza, mancavano i contenitori e i linguaggi delle nuove forme di realtà.
Se metto in atto dei “piani ministeriali per la formazione all’abitanza digitale”, chi li redige? Persone novecentesche, lente e sconnesse? E il sistema giuridico, pachidermico, come può rapidamente sentenziare su quello che quotidianamente si manifesta nelle società moderne, azioni per cui non esistono nemmeno parole per definirle? E le Pubbliche Amministrazioni, e la Politica, come può compiutamente dirsi “trasparente” senza giocare proprio sulla ambiguità di questa parola (se è trasparente, non si vede: ma io vorrei invece vedere tutto), e furbescamente sancire la propria ragion d’essere nella manipolazione del “sembrare trasparente”, visto che in fin dei conti vuole stabilire cosa possiamo o non possiamo vedere?
Sì, ci aspettano molti anni di “barbarie”, di sgretolamenti dei macro-paradigmi su cui l’intera civiltà umana si è costruita negli ultimi cinquecento anni, di negoziazioni e ripatteggiamenti delle identità individuali ormai prepotentemente connesse alla Rete e grazie alla Rete sviluppatesi e interconnesse agli altri, delle identità – in quanto essere e fare – di enti governativi e soggetti collettivi minate alle fondamenta dai nuovi modi di intendere e vivere la socialità, il desiderio, l’affettività, la maturazione di una visione del mondo, l’immaginario tutto.
E in una dimensione organicista, credo che la mutazione – progettata o casuale, educazione formale o autoapprendimento – e non l’irrigidimento sia la soluzione: dinanzi a nuove condizioni ambientali ovvero socioculturali su scala planetaria andrebbero favorite promosse sollecitate nuove sperimentazioni locali di sistemi sociali (giuridici, legislativi, formativi, nonché sul piano relazionale interpersonale), e queste sperimentazioni dovrebbero essere molte e di tipo diverso, per vedere quali maggiormente si adattano ai nuovi contesti di vita degli umani, per poterne poi trarre insegnamento.
Ci vuole coraggio, e fiducia.
Le nuove generazioni si muoveranno tra le macerie di questo terremoto culturale, eppure stiamo insegnando loro a camminare schivando i pericoli che conosciamo, auspicando sappiano domani distinguere i pericoli che ancora non conosciamo: eppure devono andare, senza proibizioni e senza divieti.

yo - www.jannis.it

YO! Furbetto e lungimirante

Con Yo ci sei, e inneschi scintille, e ingaggi

Credo di essere stato velocissimo a installare Yo sul telefonino, forse maggio scorso, perché il concetto mi è piaciuto da subito. Yo è un single-tap zero character communication tool. Non potete scrivere niente a nessuno, semplicemente fare Yo, o pokare come si faceva una volta su Facebook.

Ma questo significa aver trovato una nicchia laterale, sempre esistita eppur forse quasi mai percepita e valorizzata, nell’ecosistema della comunicazione interpersonale mediata, ovvero tralasciare il contenuto del messaggio per concentrarsi sulla funzione fàtica del linguaggio (verificare il canale), a cui si aggiungono necessariamente piccole dosi di funzioni conative (interpellazione del destinatario, con richiesta di reazione) e referenziali (come deissi, un riferimento al contesto enunciativo). Vedi wiki per ricordarti di Jakobson.

Come molti già sottolineano – Federico Guerrini su La Stampa, Fabio Lalli che sottolinea gli aspetti economici dietrogiacenti, TechCrunch – quella che pareva una app interpretata all’inzio frettolosamente come stupidina si sta rivelando una macchina capace di amplificare notevolmente la nostra presenza in Rete, per il nostro stesso fatto di esserci e dire di esserci, facendo Yo. E la presenza su Web, tracciabile, già significa molto. Basti pensare all’interpretazione che diamo al “pallino” verde o rosso che rappresenta il nostro esserci e la nostra disponibilità, da ICQ a Skype a Hangout.

Detta ancora più filosoficamente, un “Io dico” è sempre un “Io sono io dico”, perché la voce ha un’origine, e ci situa nel mondo, in una circostanza di enunciazione, e quel dire veicola un’identità. Ora sul web quel semplice “Io sono”, quel “ci sono” fa già scoccare scintille sulle reti interpersonali mediate, la semplice presenza ingaggia software e persone a interagire con noi, messaggi estroversi che mandiamo e messaggi che possono raggiungerci, tramite i meccanismi automatici della Rete.

Ora Yo, che appunto non è un giocattolino come sembrava all’inizio, ha aggiunto dei servizi, rafforzando al contempo la nostra identità. Servizi per restare sintonizzati con quanto accade nel mondo, segnalazioni eventi e nuovi articoli su varie testate giornalistiche, uscite discografiche, annunci di Obama, oppure per dare dei comandi domotici e dire alle luci di spegnersi a casa nostra. Ma soprattutto Yo ora si interfaccia con IFTTT, e questo significa potersi programmare migliaia di azioni che possiamo compiere verso noi stessi, verso gli altri e verso gli spazi di pubblicazione, cliccando solo una volta. Qui è il valore, nella propagazione attraverso il sistema nervoso, prima ancora di una elaborazione cosciente dei contenuti.

Giorgio Jannis - www.jannis.it

Urban Center come cervelletto per i flussi di narrazione territoriale

Quasi un anno fa, tempus fugit, ho tenuto un workshop a questo bel convegno presso la Facoltà di Economia di Udine dedicato a Media e Cittadinanza digitale, promosso da Media Educazione Comunità www.edumediacom.it.

Il titolo del mio intervento era Smart City come Smart Community: reti di luoghi, flussi di narrazioni territoriali. Strategie identitarie per comunità ed Enti Locali e qui ora provo a lasciare una traccia del filo del ragionamento che intendevo dipanare, ma siamo ancora all’arcolaio e alla matassa, vediamo se ne faccio almeno un gomitolo riutilizzabile. Avevo anche una presentazione, ma è fatta di quattro parole e spunti, non la linko nemmeno. Vediamo.

Cultura TecnoTerritoriale, grammatiche di narrazione

L’esordio come mio solito contempla la necessità di provvedere nozioni di Cultura Tecnologica nel settore dell’educazione, nella consapevolezza di quanto poi il tutto si trasformi in Cultura Tecnoterritoriale, capacità e abilità di leggere il territorio e il paesaggio in quanto Oggetto tecnologico progettato e plasmato dalla specie umana, nel dialogo millenario tra la produzione e la distribuzione di risorse e la collettività che su quel territorio risiede.

Si tratta di fornire grammatiche della narrazione dei Luoghi, dove questi ultimi rappresentano appunto le parole o le parti del discorso millenario summenzionato, che quindi possono essere analizzate e comprese secondo una morfologia propria, una semantica, una sintassi. Pubbliche Amministrazioni, le imprese, le banche, gli enti territoriali, gli spazi naturali o naturalizzati, le città, tutti gli attori sociali sono nodi di una rete, e con strumenti di grammatica territoriale adeguati possiamo indagare sia i singoli nodi sia la sintassi delle loro relazioni storiche e attuali, funzionali e simboliche. Per gioco, provate a guardare la scheda madre di un computer come fosse una mappa geografica satellitare: trovate degli elementi che corrispondono alle stesse funzioni – luoghi di memoria (dischi fissi ovvero biblioteche e archivi pubblici), luoghi di elaborazione dell’informazione, luoghi di alimentazione energetica, pipelines di vario tipo. State interpretando ruoli e funzioni con una grammatica che vi permette di dare un nome alle parti e alle loro relazioni.

Certo, possedere grammatiche per leggere significa auspicabilmente poter disporre di strumenti per “scrivere” il territorio, per progettare un domani gli interventi che come collettività decidiamo di attuare, dando vita a un elettrodotto o a una facoltà universitaria o a un progetto di politiche giovanili.

Empowerment della collettività

Tutto parte dalla percezione del Luogo dove poggiamo i piedi e il suo orizzonte antropologico, da cui ricaviamo identità. Uno spazio di conoscenza, la cui frequentazione determina i noti meccanismi di partecipazione, da cui il nostro sentimento di appartenenza. Cose di secoli che ci avvolgono, storie di persone e eventi e topografie scritte e narrate dal nostro abitare. Eppure innanzitutto il territorio va misurato come paesaggio costruito, come risultato del nostro agire in esso, secondo dimensioni analizzabili tecnosocialmente.

Ho il Territorio e ho i gruppi che lo abitano, flussi nella collettività, tracce di espressione, forme di coinvolgimento. E tutto il nostro Abitare sul territorio da secoli determina una forma di empowerment della collettività, la quale vedendosi specchiata nel paesaggio e nell’economia e nelle infrastrutture e in tutte le rappresentazioni culturali che emergono dalla quotidianità prende consapevolezza di sé, del proprio stile dell’abitare, unico e originale per ciascuno collettività di questo pianeta.

Come due lati di una stessa medaglia, come hardware e software: in realtà non esiste una smart city senza una smart community, e forse riportare l’attenzione sulle dinamiche e sui comportamenti delle collettività umane può tornare utile per calibrare meglio il cambiamento che i luoghi dell’Abitare stanno vivendo, sotto la spinta delle innovazioni tecnologiche. Certo, Internet delle Cose e wifi cittadino, fibra ottica e sensoristica diffusa rendono la dimensione iperlocale eloquente; ma una vera e nuova Cittadinanza, su cui riflettere e a cui educare le giovani generazioni, non può non passare per una consapevolezza di una nostra identità personale costruita e negoziata nelle prassi quotidiane di comunicazione mediata e sociale, tanto quanto le collettività possono ora veder emergere narrazioni territoriali spontanee in grado di far meglio comprendere lo stile concreto del nostro abitare sul pianeta.

Ovviamente, tutta questa rappresentazione di noi stessi a noi stessi, che fino a ieri veniva messa in scena nelle arti e nei massmedia dell’informazione, trova nella Rete uno strumento potentissimo, ove avviene la messa in scena della nostra identità, dinamica e cangiante. La percezione della città, ora da concepire come Smart city, ne viene radicalmente modificata. Ora abbiamo sensoristica, local awareness, luoghi eloquenti.

Dashboard cittadine, cruscotti dell’Abitare, flussi e sensoristica

Per farvi ispirare, ecco un link al sito Art is Open Source (Iaconesi e Persico) che mostra in tempo reale come si può tracciare l’ecosistema culturale della città di Roma, oppure buttate un occhio alle varie dashboard (bacheca/display di visualizzazione, cercherei/inventerei un’altra parola ma per ora teniamoci “cruscotto”) delle città come Londra, Oberlin in Ohio, Amsterdam.

A questo punto possiamo intrecciare un’altra considerazione, ragionando sugli Urban Center, strutture, pubbliche o pubblico-private, che da alcuni anni operano anche in Italia nell’ambito delle politiche urbane, con funzioni documentali, partecipative ed analitiche, di solito per accompagnare i nuovi piani urbanistici, strategici e strutturali. Gli Urban Center sono fortemente caratterizzati da una mission civica, ovvero dall’obiettivo di migliorare l’efficacia delle politiche pubbliche e, nello specifico, di quelle urbane (mobilità, edilizia pubblica, infrastrutture, progetti privati, etc.). Questo si traduce nel tentativo di stimolare il dibattito con mostre, convegni e pubblicazioni e nella volontà di dotare la cittadinanza di strumenti e competenze per incidere nel processo delle trasformazioni urbane. Si tratta insomma di luoghi di orchestrazione e confronto degli interessi dei gruppi sociali cittadini/territoriali, accesso della società civile ai processi decisionali che producono le politiche d’intervento.

Ebbene, come dicevo, intersechiamo questi ragionamenti. Abbiamo delle nuove modalità di rappresentazione delle strutture e dei flussi territoriali di energia materia e informazione, possiamo tracciare in tempo reale la distribuzione e il movimento di persone e merci, la visibilità di questi specchi elettronici ci permette di vederci e prendere coscienza di noi stessi come compagine sociale in modo nuovo. Abbiamo dei luoghi territoriali deputati a incanalare e organizzare e ridiffondere i flussi informativi prodotti dalla collettività residente su una determinata estensione geografica, quegli Urban Center (i quali dovrebbero essere palestre di Cittadinanza digitale, dove molti ragazzi dei varii Progetti Giovani o Agenzie giovani tipicamente promosse dai Comuni potrebbero passare un po’ di tempo, familiarizzandosi e professionalizzandosi con la narrazione multimediale del territorio, una Civic Curation dei flussi cittadini) che funzionano un po’ come dei grossi gangli del sistema nervoso cittadino, dove l’informazione degli organi di senso viene organizzata e rielaborata e rispedita verso i luoghi decisionali da una parte e come feedback nuovamente verso il sistema nervoso periferico.

Anzi, di più. Non essendo lo Urban Center il centro decisionale, il cervello di questa metafora organicistica, lo possiamo equiparare al cervelletto, dove tutti i segnali nervosi, le connessioni convergono per prime sistematizzazioni, restando sotto la soglia della coscienza. Ma una volta pubblicati i flussi informativi cittadini, sulle dashboard, tutti ne diventano consapevoli, tutti gli attori sociali. Pubbliche Amministrazioni possono progettare meglio la città e i suoi servizi, e ne traggono vantaggio anche le aziende, le associazioni, i cittadini.

Gli obiettivi sono quelli soliti, ma risulterebbero potenziati dall’adozione di questi specchi elettronici in cui vediamo chi siamo mentre viviamo:

  • possiamo incrementare la governance urbana, attivando un processo di co-decisione e co-pianificazione tra i gestori e gli attori della trasformazione urbana
  • possiamo produrre un quadro conoscitivo e interpretativo delle risorse patrimoniali, umane e culturali della città, capaci di attivare processi di rigenerazione e promozione
  • possiamo produrre un quadro valutativo delle trasformazioni in atto e dei progetti di riqualificazione e sviluppo urbano
  • possiamo ridefinire metodologie e strumenti per il coordinamento e l’integrazione dei progetti di riqualificazione urbana e per la progettazione di scenari di sviluppo
  • possiamo sperimentare e mettere in atto pratiche di pianificazione, politiche urbane e progetti di rigenerazione

“Perché nasca un significato condiviso, l’informazione deve essere interpretata dai singoli attori e l’interpretazione data da ciascuno di essi deve essere socialmente negoziata”.

Critica della democrazia digitale, con Fabio Chiusi

reblogLa democrazia è una tecnologia. Un artefatto concettuale, che poi diventa metodo e prassi. Strumento di civiltà che la collettività sceglie da sé, per sé stessa. Qualcosa che abbiamo inventato progettato e cerchiamo di applicare, su cui possiamo intervenire per migliorarla. Un modo storico per garantire una maggiore qualità dell’Abitare, seguendo certi valori che riteniamo prioritari. Nel tempo, cambiano i valori, cambiano i modi. Oggi si parla di democrazia digitale. E forse la narrazione di queste nuove forme di partecipazione e rappresentatività e decisionalità merita uno sguardo capace di discernere, una critica.

Per Vicino/lontano e Friuli Future Forum domani alle 18.00 alla Libreria Tarantola a Udine chiedo a Fabio Chiusi di raccontare ombre e luci di una innovazione tecnosociale che riguarda tutti noi.

vicinolontano.it/eventi/critica-della-democrazia-digitale/

Where the action is

Tutto è social. I social sono dentro le organizzazioni, e già dieci anni di storia di ambienti di apprendimento o di condivisione o di partecipazione civica ci insegnano che le cose non vanno avanti da sole, semplicemente. Come lo zucchero nel caffè, se lo mescoli riesci ad addolcire la bevanda prima che si raffreddi. Poi è meglio usare lo zucchero in polvere, piuttosto che buttare dentro la tazza una zolletta, questione di intimo contatto. Insomma, ragionare e lavorare sulla relazione. Dalla quale nasce poi una eventuale collaborazione, anche se in questo caso devo provocare una reazione, e quindi un catalizzatore come un enzima aiuterebbe, vedi i recenti ragionamenti su motivazione empowerment gamification e amenità simili.
Insomma, alla base c’è un atteggiamento, di quelli che si trovano nel calderone della socialità digitale, e da parte di quelli che per lavoro devono indurre partecipazione in questi contenitori di socialità ludica o professionale. Un atteggiamento che troppo spesso latita. Perché appunto si pensa che lo zucchero faccia tutto da solo, non serve mescolare: butti dieci o un milione di persone dentro un social, e si accende la scintilla da sola, forse è sufficiente mescolare un po’, come quando i community manager imparaticci fomentano delle ahimé provocazioni trollanti per muovere la conversazione. Si attende qualcosa, ma si aspetta invano, le curve di partecipazione parlano chiaro: fiammata iniziale, tre o quattro filoni thread che prendono piede, poi tutto si spegne. Su LinedIn, a esempio notavo come i gruppi vivono intensamente per poco tempo, poi la cosa che accade è che le persone – in particolare quelle più attive e parolaie, espressive, critiche, proponenti – migrano verso altri gruppi. Oppure nascono gruppi da singole conversazioni originarie, quello che chiamo scavare la nicchia.
1 – 9 – 90, ricordate? Qui wikipedia. E come fare per portare le persone a coinvolgersi, a partecipare? Non certo aspettandosi che accada qualcosa. Forse meglio sarebbe promuovere una interazione e una conseguente collaborazione tra i partecipanti basata sull’affrontare tematiche specifiche, delimitate. Occorre poi che un facilitatore con una visione più ampia o multidisciplinari riesca a approntare un piano generale di intervento, modulare, dove le singole iniziative e soluzioni raccolte in crowdsourcing possano amalgamarsi in un percorso strutturto e sensato. Se la comunità è orientata a un obiettivo, va stabilita una strategia. La comprensione delle singole tessere e del puzzle tutto dona motivazione ai partecipanti, le quali saranno attratte naturalmente a intervenire. Occorre un senso di comunità, occorre una organizzazione chiara, occorre una propedeuticità degli obiettivi da proporre nel tempo, assecondando lo sviluppo della community.

Trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni

Roberto Scano per IWA sintetizza il decreto del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 2013, su obbligo trasparenza delle Pubbliche Amministrazioni
Il Consiglio dei Ministri n. 66 del 22/01/2012 ha approvato, su proposta del Ministro della pubblica amministrazione e semplificazione, due decreti legislativi che attuano la legge 190 del 2012 (“Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”).
Il primo provvedimento riordina tutte le norme che riguardano gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle PA e introduce alcune sanzioni per il mancato rispetto di questi vincoli. Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:
  1. viene istituito l’obbligo di pubblicità: delle situazioni patrimoniali di politici, e parenti entro il secondo grado; degli atti dei procedimenti di approvazione dei piani regolatori e delle varianti urbanistiche; dei dati, in materia sanitaria, relativi alle nomine dei direttori generali, oltre che agli accreditamenti delle strutture cliniche.
  2. viene data una definizione del principio generale di trasparenza: accessibilità totale delle informazioni che riguardano l’organizzazione e l’attività delle PA, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche. Il provvedimento ha infatti lo scopo di consentire ai cittadini un controllo democratico sull’attività delle amministrazioni e sul rispetto, tra gli altri, dei principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza dell’azione pubblica.
  3. la pubblicazione dei dati e delle informazioni sui siti istituzionali diventa lo snodo centrale per consentire un’effettiva conoscenza dell’azione delle PA e per sollecitare e agevolare la partecipazione dei cittadini. Per pubblicazione si intende la diffusione sui siti istituzionali di dati e documenti pubblici e la diretta accessibilità alle informazioni che contengono da parte degli utenti.
  4. si stabilisce il principio della totale accessibilità delle informazioni. Il modello di ispirazione è quello del Freedom of Information Act statunitense, che garantisce l’accessibilità di chiunque lo richieda a qualsiasi documento o dato in possesso delle PA, salvo i casi in cui la legge lo esclude espressamente (es. per motivi di sicurezza).
  5. si prevede che il principio della massima pubblicità dei dati rispetti le esigenze di segretezza e tutela della privacy. Il provvedimento stabilisce che i dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari possono essere diffusi attraverso i siti istituzionali e possono essere trattati in modo da consentirne l’indicizzazione e la tracciabilità con i motori di ricerca. È previsto l’obbligo di pubblicazione dei dati sull’assunzione di incarichi pubblici e si individuano le aree in cui, per ragioni di tutela della riservatezza, non è possibile accedere alle informazioni.
  6. viene introdotto un nuovo istituto: il diritto di accesso civico. Questa nuova forma di accesso mira ad alimentare il rapporto di fiducia tra cittadini e PA e a promuovere il principio di legalità (e prevenzione della corruzione). In sostanza, tutti i cittadini hanno diritto di chiedere e ottenere che le PA pubblichino atti, documenti e informazioni che detengono e che, per qualsiasi motivo, non hanno ancora divulgato.
  7. si disciplina la qualità delle informazioni diffuse dalle PA attraverso i siti istituzionali. Tutti i dati formati o trattati da una PA devono essere integri, e cioè pubblicati in modalità tali da garantire che il documento venga conservato senza manipolazioni o contraffazioni; devono inoltre essere aggiornati e completi, di semplice consultazione, devono indicare la provenienza ed essere riutilizzabili (senza limiti di copyright o brevetto).
  8. si stabilisce la durata dell’obbligo di pubblicazione: 5 anni che decorrono dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui decorre l’obbligo di pubblicazione e comunque fino a che gli atti abbiano prodotto i loro effetti (fatti salvi i casi in cui la legge dispone diversamente).
  9. si prevede l’obbligo per i siti istituzionali di creare un’apposita sezione – “Amministrazione trasparente” – nella quale inserire tutto quello che stabilisce il provvedimento.
  10. viene disciplinato il Piano triennale per la trasparenza e l’integrità – che è parte integrante del Piano di prevenzione della corruzione – e che deve indicare le modalità di attuazione degli obblighi di trasparenza e gli obiettivi collegati con il piano della performance.
  11. Altre disposizioni riguardano la pubblicazione dei curricula, degli stipendi, degli incarichi e di tutti gli altri dati relativi al personale dirigenziale e la pubblicazione dei bandi di concorso adottati per il reclutamento, a qualsiasi titolo, del personale presso le PA.

Italia connessa – Agende digitali regionali

Italia indietro sui servizi digitali. Questa volta ad analizzare lo stato di attuazione dell’agenda digitale europea, è una ricerca di Telecom Italia “Italia connessa – Agenda digitali regionali” presentata oggi a Bologna con la regione Emilia Romagna.
Il rapporto, secondo anticipazioni stampa, rende evidenti le forti differenze persistenti tra le diverse regioni in quanto ad innovazione tecnologica e sviluppo digitale, sottolineando il ritardo particolarmente forte per quanto riguarda lo sviluppo dei servizi digitale. L’analisi di fondo prevede il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati a livello europeo e nazionale a meno che le Regioni non accelerino e rinnovino i loro piani digitali.
Lo sviluppo delle infrastrutture necessarie a garantire il raggiungimento degli obiettivi fissati è in ritardo, ma sarebbe possibile ancora tenere fede agli impegni. La UE ha stabilito che tutti i cittadini dovranno avere accesso a reti a banda larga (almeno 1 megabit al secondo) entro fine anno, ma al momento il 10% delle abitazioni italiane non è ancora stato raggiunto. Il rapporto di Telecom ritiene, però, l’obiettivo UE raggiungibile entro l’anno a patto di agire in fretta. La situazione italiana è, al contrario, più grave a livello infrastrutturale per quanto riguarda la banda ultralarga (11% di copertura), ma c’è ancora un po’ di tempo per raggiungere gli obiettivi fissati dall’Unione (entro il 2020, 100% di copertura con connessioni a 30 megabit e 50% a 100 megabit).
Gli obiettivi più difficilmente raggiungibili, secondo il rapporto, riguardano, però: utilizzo delle reti e servizi digitali. Il 75% dei cittadini dovrebbero utilizzare regolarmente la rete Internet entro il 2015, stando agli obiettivi europei, ma ad oggi lo fa soltanto il 47% degli italiani. Situazione ancora peggiore per l’e-commerce (terzultimi in Europa) utilizzato per gli acquisti dal 15% degli italiani contro un obiettivo fissato nel 50% entro tre anni. E altrettanto lontano appare l’obiettivo per le aziende (33% entro il 2015). Soltanto l’11% delle piccole e medie imprese acquista tramite rete e addirittura solo il 4% vende attraverso il canale digitale. Se i servizi digitali commerciali non decollano, non lo fa, però, neanche l’amministrazione digitale (penultimi in Europa, circa il 22% dei cittadini ha utilizzato servizi di e-government).
Il rapporto, come si accennava, si concentra particolarmente sull’apporto delle regioni all’Agenda Digitale, riscontrando forti differenze tra i vari enti territoriali. I ritardi sono forti e mentre alcune regioni hanno varato piani, esplicitamente riferiti all’Agenda Digitale Italiana o più genericamente allo sviluppo dell’ICT, altre ci stanno ancora lavorando. L’implementazione di molte delle novità introdotte per l’amministrazione digitale è, inoltre, scarsa e fortemente disomogenea. A questo vanno ad aggiungersi ritardi forti, rispetto alla media nazionale, di alcune regioni riguardo all’utilizzo delle rete e dei servizi digitali, che danno il quadro di un forte digital divide territoriale. La maglia nera per l’utilizzo di Internet va alla Puglia (57% non usa regolarmente), mentre quella per il più ridotto utilizzo di servizi di e-commerce alla Campania (6%).
Ritardi gravi, quindi, che possono essere colmati soltanto con forti interventi a livello sia nazionale, che regionale. Interventi che potrebbero, però, non arrivare in tempo visto che come sottolinea Franco Bernabè, amministratore, delegato di Telecom Italia, il tema dell’Agenda Digitale è sostanzialmente assente dal dibattito politico-elettore. “Non mi sento di rimproverare nessuno . Siamo ancora nel pieno di un’emergenza che, dopo il salvataggio del sistema finanziario, adesso impone la ripartenza dell’economia. E’ questa la vera priorità, del resto solo restituendo respiro alle imprese si potrà riattivare un ciclo di investimenti ad ampio raggio, incluso ovviamente l’Ict”. Il manager non riterrebbe una cattiva idea quella di un ministero dedicato alla tematica. “Spetterà al nuovo Governo stabilire le priorità, ma parlare di un nuovo Ministero delle Comunicazioni e dell’Agenda digitale o comunque di un Ministero dell’Industria con una forte delega avrebbe senso. In altre parole, assegnare una responsabilità politica per i grandi fattori di competitività dell’economia italiana, l’economia digitale al pari di infrastrutture ed energia, sarebbe un grande passo avanti”.
Bernabè ritiene più di tutto prioritari, però, l’approvazione dei provvedimenti attuativi del decreto crescita 2.0 messo e il coinvolgimento degli enti territoriali, vanno “mobilitate le Regioni, le Province, i Comuni”.
Gerardo Di Meo

Agenda digitale: è legge

“Lo Stato, nel rispetto del principio di leale collaborazione con le autonomie regionali, promuove lo sviluppo dell’economia e della cultura digitali, definisce le politiche di incentivo alla domanda dei servizi digitali e favorisce, tramite azioni concrete, l’alfabetizzazione e lo sviluppo delle competenze digitali con particolare riguardo alle categorie a rischio di esclusione, nonché la ricerca e l’innovazione tecnologica quali fattori essenziali di progresso e opportunità di arricchimento economico, culturale e civile.”

E’ legge italiana, gente. Anni di battaglie.

Digigenius loci

Arriverà a breve una valanga di opendata delle Pubbliche Amministrazioni. Attività commerciali, demografie di quartiere, flussi di beni e merci e rifiuti, mi piacerebbe tracciare la connettività alla Rete.
E un mucchio di gente per lavoro elaborerà questi dati crudi, cuocendoli, e servendoli dietro compenso a chi di questi dati ha bisogno. Si scoprirà moltissimo, si potranno ottimizzare un bel  po’ di sistemi tra quelli che da decenni o secoli utilizziamo per abitare sul territorio, dai trasporti di beni e persone all’energia. Fioriranno visioni raffinate della società e del suo funzionamento concreto. Sapremo molto meglio chi siamo e come ci comportiamo, come collettività. Si scopriranno esistere, dalle analisi semantiche e dal tono affettivo del social locale e iperlocale, delle comunità territoriali che parlano molto di sé, quelle più narcise, e altre invece molto orientate a qualcosa da fare là fuori, sul territorio. Finora abbiamo usato i proverbi e le filastrocche per descrivere certi aspetti del carattere di certi “popoli” arditamente generalizzati, friulani piemontesi genovesi francesi, tra poco sapremo molto di più sullo stile dell’abitare e del conversare di ciascuna comunità territoriale. Qualcuno incrocerà i dati in modo imprevedibile, e scopriremo cose impensabili, non vedo l’ora.