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Stili

da Oltre l’e-learning by Gianni Marconato
Predichiamo costruttivismo e razzoliamo istruzionismo

Brent G. Wilson nel suo eccellente libro del 1996, “Constructivist Learning Environments”, un libro che ha influenzato non poco il mio pensiero (spero non tanto “debole”), proprio in apertura (pag. 4) offre una illuminante ed autorevole rappresentazione di come diverse visioni della conoscenza influenzino le nostre visioni dell’istruzione (instruction).

Wilson afferma che:

  • Se pensi che la conoscenza sia una quantità oppure un pacchetto di contenuti che aspettano solo di essere trasmessi, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come un prodotto da essere distribuito attraverso un veicolo
  • Se pensi che la conoscenza sia uno stato cognitivo come viene riflesso negli schemi e nelle abilità procedurali di una persona, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad un insieme di strategie didattiche finalizzate a modificare lo schema di quel individuo
  • Se pensi che la conoscenza sia un significato personale costruito nell’interazione con il proprio ambiente, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad una persona che lavora con strumenti e risorse all’interno di un ambiente ricco
  • Se pensi che la conoscenza sia un processo di acculturazione o di adozione di modi di vedere e di agire di gruppo, allora, il tuo orientamento sarà quello di pensare all’istruzione come ad una partecipazione alle attività di tutti i giorni di una comunità;

Con questo post chiudo la serie sulla coerenza tra tra pensiero dichiarato ed azione, sulla molteplicità delle visioni e delle pratiche e sulla necessità di rendere esplicite e consapevoli le nostre “teorie implicite”.

Internet, la città, la rete sociale

di Sergio Maistrello

Da Apogeo, giugno 2006

Che cosa resta della retorica dell’innovazione alla fine della tormentata primavera elettorale? Poco coraggio e molta dispersione di risorse, soprattutto. E se all’amministrazione pubblica applicassimo le stesse intuizioni che stanno alla base di Internet? Il territorio come rete, il cittadino che dialoga, il municipio come social network: un’ipotesi tra Simcity e Monopoli.

Col referendum confermativo sulla riforma costituzionale, si chiude un lungo e a dir poco sofferto periodo elettorale. Qui, su Apogeonline, si era aperto con una riflessione di Andrea Granelli sulla retorica dell’innovazione, così presente e al tempo stesso così assente dai programmi elettorali dei partiti politici alla ricerca di un voto. Il bilancio, tre mesi e tante parole dopo, non è confortante. L’impressione, per farla semplice, è che la via all’innovazione suggerita nei programmi politici della collezione primavera-estate 2006 sia ancora saldamente ancorata alla retorica di inizio 2000: le autostrade dell’informazione, il divario digitale, i corsi di informatica per i cittadini. È chic e impegna poco, ma soprattutto non serve.

E dunque, visto che si avvia alla conclusione questa stitica stagione di realpolitik e si può ricominciare finalmente a progettare un mondo migliore, proviamo a tracciare uno stato dell’arte per il governo della complessità attraverso tecnologie nuove ma a misura d’uomo. Immaginiamo, per esempio, di essere il sindaco di un comune italiano di medie dimensioni che si pone il problema di come tradurre in pratica questa benedetta innovazione. Abbiamo due scelte a disposizione: possiamo inseguire faticosamente le buone pratiche altrui, disperdendo a pioggia un budget che per definizione è contenuto; oppure possiamo immaginare di prendere tutti i soldi a disposizione e investirli in un progetto complessivo in grado di anticipare (per una volta) l’innovazione e dare vita spontaneamente a buone pratiche. Visto che questo è l’equivalente di Simcity e i soldi sono come quelli del Monopoli, prendere la seconda strada richiede soltanto un po’ di immaginazione.

La prima considerazione è che abbiamo un bene scarso, la connettività, e un bene talmente abbondante da andare sprecato, l’informazione. Affrontare il primo ci mette nelle condizioni di dominare il secondo e mettere in circolo esperienze e competenze altrimenti disperse. Si tratta, in altre parole, di trasferire la complessità di un territorio in un ambiente in cui la gestione sia più agevole: per fare questo è necessario – ricorrendo a una locuzione che piace molto alle amministrazioni locali – fare rete. Questa volta però non è una metafora: si tratta proprio di posare un po’ di cavi, montare punti di accesso senza fili (e quel Naaw di cui si parlava in questo spazio nei giorni scorsi casca a fagiolo), distribuire l’accesso a Internet quanto più possibile e quanto più liberamente concede oggi la legge – considerandolo, come presto potrebbe essere davvero, un diritto insito nell’idea stessa di cittadinanza. Un investimento di questo tipo è costoso e non dà risultati immediati, ma è il volano imprescindibile.

Se la città è una rete sociale, dotare ciascun nodo di una connessione (dunque della cittadinanza digitale) significa proiettare su Internet una mappa della realtà locale, con tutti i vantaggi che si ottengono in fatto di velocità, bidirezionalità e uniformità di scambio delle informazioni. La città in Rete sarebbe un classico esempio di applicazione basata su rete sociale, un social network in cui una volta tanto lo scopo non sarebbe soltanto quello di incontrare amici (MySpace, Orkut, Friendster), pubblicare fotografie e video (Flickr, YouTube) o cercare lavoro (LinkedIn), ma di diventare protagonisti di un territorio e rappresentarne la complessità. Le reti sociali ci stanno educando all’idea di emergenza: partendo da regole semplici si ottengono schemi complessi che la semplice somma delle parti non avrebbe lasciato immaginare. Le formiche e il formicaio, i neuroni e il cervello, l’uomo e la civiltà: la dimensione collettiva è l’evoluzione del sistema. Più il sistema è efficiente ed esalta l’azione del singolo, più il sistema cresce: in questo senso, lo strumento Internet – con tutta la dotazione di pratiche con cui ottenere il miglior ordine possibile dal caos – fornisce l’opportunità di fare un salto epocale d’efficienza.

Metti progressivamente tutti i tuoi cittadini su un social network cittadino, lasciali esprimere, stimolali a costruire punti di presenza personali, promuovi la creazione di reti di identità e di comunità di interesse, invitali a spendere il loro capitale sociale nelle cause che stanno loro a cuore: avrai uno strumento inaudito di interpretazione del territorio. Tutto ciò richiede evidentemente una profonda rivisitazione dei ruoli: l’amministrazione, in una logica reticolare, non è più il centro ma uno dei nodi della rete senza ragno, un hub di hub, il primo tra i pari. Se la città è l’insieme di tante visioni del mondo quanti sono i suoi cittadini, chi la governa è il nodo deputato alla sintesi di questo flusso di comunicazione che prorompe dal basso. La rappresentanza non è più soltanto un voto quinquennale, ma l’interpretazione costante del racconto della realtà di ciascun nodo, corrisponda esso a un cittadino, a un’associazione, a un’istituzione o a una realtà produttiva. Chi interpreta meglio, governa meglio.

A cascata vengono tutte le sfide complesse che già ci si pone urgentemente, pur senza avere un supporto tecnologico adeguato: il superamento delle barriere d’accesso, le difficoltà di dialogo sociale, le opportunità imprenditoriali. Il circolo virtuoso nasce con l’infrastruttura di comunicazione e con le tecnologie per la condivisione sempre più diffuse, facili da usare ed economiche: gli strumenti più maturi di Internet stanno abilitando le persone a esserci, a partecipare, a organizzarsi spontaneamente tra di loro, a contribuire con le proprie idee, a supportarsi a vicenda in caso di bisogno. Un patrimonio di conoscenza (più o meno locale) distribuita e facilmente accessibile – in grado di dare risposte al giovane e all’anziano, all’imprenditore e al disoccupato, all’immigrato extracomunitario e al turista, all’associazione e all’istituzione – è un motore formidabile per la crescita di un territorio. Se dai alle persone un motivo per esserci, e non solo generiche istruzioni per accendere un aggeggio e lanciare programmi, è molto probabile che ci saranno.

Fantascienza? Sì, se si dovesse immaginare un progetto del genere imposto dall’alto, da un giorno all’altro. Tuttavia i fronti più evoluti di Internet ci parlano di un pubblico sempre più attivo, che non ragiona più come massa ma è informato e soddisfa facilmente bisogni individuali che in precedenza dipendevano da catene di mediazioni di tipo culturale, politico, informativo o economico. Non chiede più di essere ascoltato, lo pretende. Dove non trova orecchie disponibili, si organizza da sé aggregando spontaneamente competenze per risolvere esigenze nuove in modo nuovo. La scelta, già oggi, è tra il presidio sempre più costoso e conflittuale degli accentramenti di potere e l’accoglienza progressiva di quest’onda lunga, che promette di ridefinire la società almeno quanto a suo tempo fece la scrittura. Le prime scelte, a cominciare da quella di mettersi in ascolto, devono essere fatte già oggi. L’alternativa è la solita: accumulare ritardo e perdere competitività.

Da Espresso

Da vergognarsi.

spreconi

Spreconi punto itdi Federico Ferrazza e Letizia Gabaglio

Un sito turistico da 45 milioni. Altri 37 per un portale culturale. Più centinaia di costosissime iniziative locali. E migliaia di pc regalati agli onorevoli. Così la pubblica amministrazione getta i soldi on line

Per favore, visitate il sito Web, per favore visitate l’Italia. Per favore, visitate il nostro paese: noi vi accoglieremo calorosamente… Il tormentone corre sul Web con un video in cui il vicepremier Francesco Rutelli, in un inglese non proprio da Oxford, invita gli stranieri a venire in Italia. Il leader della Margherita parla dall’ultimo sito della pubblica amministrazione: Italia.it, il portale del turismo italiano pensato per ospitare tutte le indicazioni utili per visitare il nostro paese. Indicazioni che l’Italia pagherà a peso d’oro: 45 milioni di euro è la somma stanziata per il progetto, la cui piattaforma tecnologica (7.850.040 euro, Iva esclusa) è messa a punto dalle tre aziende che si sono aggiudicate il bando per la sua realizzazione Ibm, Its, e Tiscover. Una cifra impressionante soprattutto se si considerano i prezzi di mercato: con alcune centinaia di migliaia di euro al massimo si realizzano portali Internet con i fiocchi.

Il webmostro Italia.it è nato nella scorsa legislatura quando, nel 2003, all’allora ministro per l’Innovazione Lucio Stanca venne affidato il compito di sostenere progetti ‘di rilevanza strategica e di preminente interesse nazionale’. Così fu istituito il Fondo di finanziamento per i progetti strategici nel settore informatico. Per il periodo 2002-2004 il fondo ebbe 154,938 milioni di euro e nella finanziaria del 2004 si autorizzò la spesa di ulteriori 181 milioni e mezzo di euro per il 2004-2006. Con un decreto ministeriale del 28 maggio 2004, il progetto ‘Scegli Italia’ (poi divenuto Italia.it) venne finanziato: 45 milioni di euro, appunto.

Ma è in questa legislatura che il portale vede la luce. E il 20 febbraio 2007, ancora in fase di realizzazione, viene messo on line, in tempo per presentarlo alla Bit (Borsa internazionale del turismo), come fortemente voluto dal ministro per i Beni culturali Rutelli. Immediate le reazioni su Internet: molti blogger parlano di un progetto poco interattivo, con contenuti obsoleti e con evidenti errori di programmazione. Sul blog Scandalo Italiano (scandaloitaliano. wordpress.com), nato per l’occasione, ci sono gustosi resoconti di chi ha intrapreso un viaggio in Italia attraverso le pagine del portalone, pieno di errori, di traduzioni sommarie e con alcune stranezze (fra i personaggi toscani sono citati sullo stesso livello Dante Alighieri e il campione di scherma Aldo Montano…). E per il prossimo 31 marzo è stato organizzato un evento pubblico presso l’Università Bicocca di Milano (www.ritalia.eu) dove chiunque (programmatori, project manager, grafici, creativi etc) potrà intervenire per proporre migliorie al sito.

Ma Italia.it, in nome dello spreco digitale, ha pure un fratello gemello. Anzi, tanti fratellini. Infatti mentre nelle stanze del Ministero dell’Innovazione si preparava il sito turistico nazionale, nove regioni – poi diventate 12 – si mettevano d’accordo per realizzare, con le sovvenzioni dello Stato (legge 135/2001 “per il co-finanziamento di progetti dei sistemi turistici locali interregionali e sovraregionali”), un portale interregionale di promozione turistica. Capofila la Liguria, partecipanti: Basilicata, Calabria, Campania, Friuli, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto. La domanda delle regioni venne accolta nella Dgr n.3304 del 21 novembre 2003 che stanzia i primi 200 mila euro. Praticamente un doppione di Italia.it, realizzato inoltre con un approccio quindi esattamente contrario a quello del sito ministeriale che prevedeva un sistema di prenotazione gestito a livello centrale. Il progetto per il portale interregionale è stato preso molto sul serio dalle regioni coinvolte, che hanno investito milioni di euro nella realizzazione di quei siti regionali che dovevano essere veicolati dal portale sovraregionale. Così, per esempio, la Puglia a novembre 2006 ha presentato solo agli operatori del settore (ma si può vedere all’indirizzo http://138.66.34.243/turismo/) il suo portale, finanziato con 3.273.719 euro, come si evince dal documento di programmazione per il turismo della regione che destina per l’anno 2007 ulteriori 900 mila euro. Anche la Campania nel frattempo ha fatto il suo sito (www.turismoregionecampania.it) per un costo di 3,719 milioni (più altri 3,5 milioni di euro per un portale “di supporto all’Internazionalizzazione nel bacino mediterraneo”, finora non realizzato).

“Portali come Italia.it”, spiega Marco Calvo, amministratore di E-Text, azienda che realizza siti Internet, “possono essere messi a punto al massimo con un milione di euro. Il problema sta nelle gare per l’assegnazione del progetto che richiedono fatturati minimi (dell’ordine dei 100 milioni di euro) sempre più alti da parte dei proponenti. Possono partecipare quindi sempre aziende molto grandi che fanno pagare anche il loro marchio. Ma la storia dell’informatica dimostra che i prodotti migliori arrivano da aziende molto piccole: Google, Skype, Kazaa e altri software che hanno rivoluzionato Internet sono nati dalla testa di un paio di persone”.

Se il turismo genera sprechi pubblici in Rete, anche la cultura non scherza. Il caso di Internet Culturale (www.internetculturale.it) ne è un esempio. Nella scorsa legislatura per il sito vennero stanziati 37,3 milioni di euro (7,1 dal comitato dei ministri per la Società dell’informazione e 30,2 dal ministero dei Beni culturali) per un progetto di un motore di ricerca (che quindi rimanda ad altri siti) per versioni digitali di opere di pubblico dominio (libri, musica e così via). Un intento lodevole se non che la Rete è piena di iniziative pubbliche e private che già assolvono questo ruolo. Forse era sufficiente un semplice accordo con una di queste realtà per risparmiare un bel po’ di denaro. A realizzare la piattaforma del portale è stata la cordata formata da Ibm (azienda di cui era top manager Lucio Stanca prima di diventare ministro, e presente anche in Italia.it), Finsiel (società che dalla fine del 2005 ospita nel suo Cda Paolo Vigevano, ex capo della Segreteria Tecnica e consigliere politico di Stanca) e Società Servizi Bancari.

Mentre lo Stato spendeva 37 milioni, la Campania si faceva il suo sito culturale ad hoc (www.culturacampania.rai.it) costato altri tre milioni di euro. Peccato sia solo in italiano e per la promozione del patrimonio culturale campano non pare una scelta lungimirante.

Altrettanto antieconomico è il modo in cui sono stati realizzati i 657 siti Web che fanno riferimento ai 25 ministeri e alla Presidenza del Consiglio. Se infatti 300 appartengono al ministero degli Esteri con le sue ambasciate, gli altri 357 hanno i compiti più disparati e sono realizzati ciascuno con una grafica diversa e con tecnologie diverse: se si fosse usato un solo modello per tutti si sarebbero potuti risparmiare milioni di euro. Peraltro i siti non sono neanche costruiti nel modo migliore. Usando lo strumento di valutazione del W3C (il consorzio internazionale che fra l’altro detta le linee guida per realizzare siti Web accessibili anche ai disabili) ‘L’espresso’ ha per esempio osservato che 15 siti (14 ministeri più quello del governo) non rispondono a tutti i requisiti del W3C: fra questi ci sono quello del ministero degli Esteri, della Giustizia, della Difesa, della Salute, delle Politiche comunitarie e dell’Ambiente. Ci sono poi tutti gli strafalcioni e le sviste sui contenuti. Una per tutte: il sito del ministero delle Infrastrutture ha le informazioni sulla viabilità stradale, ferroviaria, aerea e marittima ferme al settembre 2006.

E pensare che nel 2002 il ministero per l’Innovazione e le Tecnologie aveva introdotto dieci obiettivi sui quali orientare le attività negli anni successivi. A distanza di cinque anni solo uno è stato raggiunto (firma digitale); cinque hanno superato il 60 per cento di realizzazione (servizi on line prioritari, trasparenza, mandato di pagamento, uso dell’e mail e alfabetizzazione informatica), due hanno superato il 30 per cento (Carta di identità elettronica e Carta Nazionale dei servizi e servizi dotati di un sistema di soddisfazione dell’utente); dell’obiettivo di svolgere un terzo dell’attività di formazione via Internet (e learning) non c’è traccia e dell’e procurement (acquisto-vendita di beni) il Cnipa (Centro nazionale per l’informatica nella Pubblica amministrazione) consiglia una revisione in toto del progetto.

Se poi dai siti passiamo alle stanze dei ministeri, si va di in male in peggio. Secondo il Cnipa per l’acquisto di beni e servizi informatici nel 2005 lo Stato ha speso 1.676 milioni di euro. La spesa si concentra sulle grandi amministrazioni: sei (Economia e Finanze, Tesoro, Giustizia, Interno, Difesa, Inps e Inail) hanno impegnato il 66,5 per cento della dotazione informatica. Guardando poi il numero di computer per dipendente ‘da ufficio’ (cioè con una scrivania e a cui un pc può dare una mano) si scopre che in quasi tutti i ministeri ci sono più terminali che lavoratori, con picchi degni di una azienda che sviluppa software. Al ministero delle Politiche agricole ci sono per esempio 2,4 pc per dipendente, agli Esteri 1,6, al Lavoro 1,4 e alla Salute 1,4. E, come se non bastasse, molti di questi computer vengono usati solo come macchine da scrivere: solo il 48,3 per cento delle postazioni della Pubblica amministrazione centrale è collegato a Internet. Ma anche se fossero connessi, quanti sarebbero stati in grado di usarli? Pochi, molto pochi. Fra tutte le amministrazioni centrali solo tre (Agenzia delle Entrate, Carabinieri e Presidenza del Consiglio) hanno più del 50 per cento dei dipendenti a bassa formazione informatica.

La spesa informatica per postazione è in media, fra le amministrazioni centrali, di quasi 4.500 euro, anche qui con dei picchi interessanti: l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura ha speso (nel 2005) 199 mila per postazione, un cifra da sommare ai 123 mila euro del 2004; alle Politiche fiscali hanno speso (nel 2005) 21mila euro, al Tesoro 11 mila e all’Istruzione 9 mila.

Non contento, lo Stato regala soldi a deputati e senatori per dotarsi di strumenti informatici: i primi hanno la possibilità di spendere fino a 3 mila euro in una legislatura, i secondi 4 mila. Denari pubblici con cui gli onorevoli si fanno un paio di ottimi pc portatile, presumibilmente, visto che in Parlamento hanno tutte le postazioni fisse che vogliono. Gli acquisti informatici della Pa vengono effettuati con trattativa privata per il 32 per cento del volume di spesa, con gara nel 30 per cento, e intorno al 28 per cento con affidamento ‘in house’, cioè tramite società di proprietà pubblica con cui le amministrazioni hanno un accordo (per esempio Sogei e Aci Informatica) e in convenzione solo per circa il 10 per cento della spesa. Per favorire la razionalizzazione della spesa il Consip, una società per azioni del ministero dell’Economia, è stato incaricato di stipulare delle convenzioni con fornitori scelti da esperti dell’ente sulla base del rapporto qualità-prezzo oppure attraverso un mercato virtuale (www.acquistiinretepa.it) dove i fornitori, una volta registrati, possono pubblicare i loro listini. Molto attivi su beni e servizi tradizionali, gli esperti del Consip non si sono però ancora misurati a pieno con il reparto informatico. Poche le convenzioni stipulate, ma anche sfogliando queste poche si può capire come il sistema di acquisto in convenzione, se solo fosse sfruttato a pieno, si tradurrebbe in un risparmio. Un pc da tavolo di ultima generazione con schermo piatto, per esempio, non costa più di 550 euro, stesso prezzo che si paga per un portatile. Il pacchetto Office di Windows, l’unico fornitore di software per ora considerato, costa intorno ai 300 euro. Ma senza convenzione, come vengono fatti la maggior parte degli acquisti, i prezzi schizzano. E, per esempio, per un pacchetto Office più antivirus si possono spendere quasi 800 euro.

Da queste cifre è facile intuire che i costi informatici potrebbero essere abbattuti. E di molto. Soprattutto guardando il software. Un’associazione di Caserta , la Hacklab, ha lanciato in merito una petizione on line (http://81100.eu.org/petizione/) che ha già raccolto quasi 5 mila firme per chiedere al governo di puntare più sul software open source (gratis e replicabile per tutte le amministrazioni a costo praticamente nullo) per abbattere gran parte dei costi degli applicativi che nel 2005 hanno toccato quota 474 milioni di euro. “Guardando le spese informatiche nella pubblica amministrazione”, dice Giorgio Sebastiano di Adiconsum, “viene da chiedersi: perché non c’è un unico software per tutti i comuni che per esempio gestisca l’operatività standard? Perché ogni comune ha fatto una gara per comprare un programma che sarebbe potuto essere acquistato a livello centrale consentendo risparmi notevoli?”. Un esempio sono i cosiddetti software Gis (Geographic Information System) utili per la navigazione. Ogni amministrazione, centrale o locale, ne acquista uno a un prezzo variabile, nella maggior parte dei casi, da circa 10 mila a 20 mila euro. Senza contare che ne esistono di gratis in Rete, lo Stato ne potrebbe acquistare uno da girare a tutte le amministrazioni. E invece ogni regione, provincia o comune conduce una trattativa separata.

Intanto le amministrazioni locali producono nuovi portali a suon di milioni. In Lombardia, per esempio, il sito della Regione (www. regione.lombardia.it) è costato 1.291.513 euro (790 mila finanziati dallo Stato). L’Italia è poi il paese delle piccole comunità ed ecco allora i progetti delle reti civiche. In Sicilia queste iniziative sono 46 per un totale di 33 milioni di euro di finanziamenti. Il valore unitario è variabile: da poco più di 160 mila euro del progetto per la rete civica di Alcantara presentato dal Comune di Roccella Valdemone al piano del Comune di Castrofilippo che, insieme ad altri 13 municipi della provincia di Agrigento, ha dato vita al progetto Mercurio per una sovvenzione di un milione. Oppure c’è il progetto Eureka del Comune di Siracusa, valutato 1,2 milioni di euro e oggetto di gara a gennaio 2006 aggiudicata per una cifra superiore agli 800 mila euro. Ma del sito, per ora, non ci sono tracce.

La scuola italiana è vecchia (e non solo l’edificio)

Da un articolo di Repubblica



La scuola sempre più ‘vecchia’ Over 50 la maggioranza dei prof – Scuola Giovani – Repubblica.it

Il “sorpasso” per la prima volta negli ultimi vent’anni

Irrilevante la percentuale di docenti giovani: un caso raro in Europa



La scuola sempre più ‘vecchia’ Over 50 la maggioranza dei prof

di SALVO INTRAVAIA



Insegnanti italiani sempre più ‘maturi’. Per la prima volta negli ultimi vent’anni gli ultracinquantenni rappresentano la maggioranza e anche gli over 60 ancora alle prese con registro, interrogazioni e compiti in classe crescono.

Sempre irrilevante in Italia la percentuale di maestre e prof giovani: nelle aule italiane rappresentano una assoluta minoranza. E anche i supplenti, che dovrebbero rappresentare il serbatoio per la scuola del futuro, invecchiano rapidamente mentre resta prevalente la presenza femminile.



La radiografia del cosiddetto corpo docente impegnato quest’anno è stata appena completata dai tecnici di viale Trastevere. Nell’anno scolastico in corso (il 2006/2007) il numero complessivo di docenti si avvicina alle 900 mila unità con precari in aumento e titolari in calo.



L’età degli insegnanti. Quest’anno, l’età media degli insegnanti di ruolo è di 50 anni (49,9, per la precisione) con un ulteriore incremento rispetto a 12 mesi fa di oltre mezzo anno. Tra le cause del rapido invecchiamento del corpo docente il risicato turn over imposto dal precedente governo e l’innalzamento dell’età pensionabile. E se qualcuno pensa che per ringiovanire la scuola italiana basti attingere dalle graduatorie dei supplenti è destinato a rimanere deluso. L’età media dei precari ha ormai superato i 40 anni e oggi, girando per i corridoi delle scuole, incontrare supplenti con i capelli bianchi e tutt’altro che una sorpresa.



I numeri. Per comprendere un fenomeno che ci allontana sempre più dai partner europei bastano pochi dati. Per la prima volta nel corso degli ultimi venti anni la classe docente a tempo indeterminato del nostro Paese è over 50. La percentuale degli ultracinquantenni con cancellino e gesso in mano è passata dal 49 per cento del 2006 al 52 del 2007. E gli oltre 40 mila insegnanti con più di 60 primavere sulle spalle (pari al 6 per cento del totale) la dicono lunga sul distacco esistente in classe fra giovani sempre più tecnologici e insegnanti che hanno studiato con penna e calamaio. I meno di 5 mila insegnanti under 30 (4.792, appena lo 0,6 per cento) costituiscono una sparuta presenza abbondantemente compensata da un numero simile (4.445 in totale) di docenti over 65.



Il confronto. Basta andare indietro di un decennio per comprendere come si è evoluto il fenomeno. Nell’anno scolastico ’97/’98 gli insegnanti con meno di 30 anni erano il 2 per cento e quelli con meno di 40 addirittura 23 su cento: quasi il doppio di oggi. Per converso, gli over 50 erano il 27 per cento, quasi la metà di quelli in cattedra quest’anno, e gli ultrasessantenni il 2,7 per cento. In pochissimi anni, da un rapporto quasi paritario fra gli over 50 e gli under 40 (1,2 per l’esattezza) si è passati a 4. Cioè, oggi, gli ultracinquantenni in cattedra sono il quadruplo di coloro che non hanno ancora spento 40 candeline.



La presenza femminile. A scuola sono decisamente le donne a farla da padrona che con la loro presenza surclassano i colleghi maschi. Sono infatti 8 su 10 le cattedra occupate quest’anno dal gentil sesso. Segno che per decenni l’insegnamento è stato uno dei lavori preferiti dalle donne, forse perché ritenuto non troppo impegnativo e perché consentiva di conciliare gli impegni familiari con quelli del lavoro.



Gli insegnanti europei. Il confronto con gli altri paesi (europei e non) è destinato ad impressionare. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osce sui sistemi di istruzione e formazione in Francia, Corea, Irlanda, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone il tasso di insegnanti non ancora trentenni supera abbondantemente il 10 per cento, con punte del 20 per cento in alcuni gradi di istruzione. L’Italia ne può contare un numero quasi venti volte più piccolo. (28 febbraio 2007)

I gruppi pensano

Riprendo da Totanus un piccolo elenco delle disfunzioni degli ambienti gruppali



» The Five Dysfunctions of a Team » Totanus.net » Blog Archive

The Five Dysfunctions of a Team

Luke Wroblewski segnala un libro interessante, nel quale si analizzano – sotto forma di fiaba moderna – le ragioni per cui spesso i team lavorano male.
L’autore del libro identifica in particolare 5 punti fondamentali alla base di ogni critical failure.

Ognuno di questi punti lavora a cascata sui successivi, o comunque in forma di inter-relazione, impedendo di norma il miglioramento della situazione:




  • Assenza di fiducia: in pratica non ci si vuole mostrare più vulnerabili rispetto ad altri; i membri della squadra che non ammettono le debolezze o gli errori commessi rendono impossibile la costituzione di una fiducia condivisa.
  • Timore del conflitto: un team composto da membri che non si fidano gli uni degli altri non può iniziare discussioni appassionate e prive di remore su temi realmente importanti.
  • Mancanza d’impegno: in una situazione di ambiguità dei rapporti tra i membri della squadra raramente qualcuno è disponibile partecipare attivamente decisioni. Le decisioni vengono prese da pochi soggetti, generalmente sfiduciati dal resto del gruppo.
  • Rifiuto delle responsabilità: senza un chiaro e condiviso piano d’azione difficilmente i singoli cercheranno il coinvolgimento loro e dei colleghi in attività che paiono controproducenti.
  • Disinteresse verso i risultati:la mancanza di un contesto sereno per il giudizio delle azioni porta a considerare le necessità dei singoli più importanti delle necessità della squadra.

Ammappalo

Aggiornamento sui toollini per fare mappe concettuali su web, in pieno stile 2.0

Bubbl.us il più veloce, anche senza iscrizione, con la grafica fatta di rettangoli stondati e cicciotti.

Mindomo sofisticato, con i livelli di visualizzazione, e formattazioni avanzate

Mindmeister, che richiede una iscrizione via mail arzigogolata, però trasforma la mappa in vero strumento collaborativo, permettendo ai più utenti remoti di lavorarci sopra in modalità sincrona, chattando o skypando.

C’è anche Skrbl, una lavagna interattiva su web abbastanza funzionale

Mindomo – Web-based mind mapping software

La parte abitata della Rete

Segnalo un libro appena uscito, dell’ottimo Sergio Maistrello da Pordenone.

La parte abitata della Rete › Sergio Maistrello
Spero, più di ogni altra cosa, di aver reso giustizia all’impegno delle tante persone che stanno rendendo Internet un luogo interessante, vivo, utile, pieno di umanità. Comunque sia, ora a voi la parola.

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Studenti e web

Di quando sono tornato a scuola

La settimana scorsa ho fatto l’insegnante per una manciata di ore. Di tutto, l’effetto più stupefacente – e non necessariamente nell’accezione positiva – è stato ripiombare in quel mondo avulso dalla realtà che è la scuola. Il tempo scandito da campanelle, una pausa ogni due ore cascasse il mondo, le note sul registro, i rapporti tesi tra compagno e compagno, tra compagno e professore, tra professore e professore, tra professore e preside. Tralascio ogni ragionamento su quanto smunta ed emaciata ho trovato la scuola pubblica italiana, quindici anni dopo. E anche sulla mia incapacità di stare in un’aula senza sentirmi inguaribilmente studente.

Perché non è di questo che volevo parlare. Il fatto è che parlavo a questi ragazzi di blog, di wiki e di social network. E ci ho messo quattro giorni ad appassionarli (comunque poco) all’idea. La teoria non gli è andata giù nemmeno a fare il saltimbanco sulla cattedra o ricorrendo alle peggiori animazioni di PowerPoint. La pratica un po’ di più, che era sempre meglio di un’interrogazione di filosofia, ma insomma nemmeno troppo, e i giovani si sa hanno cose di molto più importanti a cui pensare.

Poi li guardavo nelle pause, oppure quando qualcuno finiva la sua esercitazione prima degli altri. Il blog diventava un’estensione naturale al sms: chiacchiere in codice nei commenti. Questi ragazzi hanno la conversazione nel sangue, ma quando gliela mostri non la riconoscono (ancora). Sfrucugliano nella ricerca per immagini di Google dentro un web tutto visuale, ma poi restano freddi davanti a Flickr. E appena non li guardi corrono nei reconditi meno opportuni di YouTube, che se poi glielo presenti come social software perde ogni fascino.

La morale di tutto questo è che in quattro giorni non ho trovato affatto una morale. Solo un gruppo di ragazzini pieni di opportunità, ma molto distratti e assai annoiati – pur con le debite, confortanti eccezioni. Hanno il mondo davanti e strumenti che noi ci sognavamo. Ai miei tempi (ecco, l’ho detto) pregavamo il tecnico perché ci prestasse la videocamera e poi ci montavamo i video col videoregistratore, pur di comunicare. Loro oggi hanno il mondo alle loro dita, ma spesso sembrano accontentarsi di fargli il solletico.

Pipes

Yahoo! lancia Pipes, per selezionare e manipolare le fonti

from downloadblog by Cristian

Yahoo! Pipes logoYahoo! lancia un nuovo sensazionale servizio chiamato Pipes e porta ad un nuovo livello il concetto di Mashup, cioè la possibilità di mettere insieme, aggregare e montare insieme le fonti della rete.

Per chi conosce Unix sarà più immediato capire il concetto di Pipes, cioè la possibilità di costruire dei flussi, dei “tubi”, dove far scorrere diversi input, inserire filtri e strumenti di manipolazione dei dati che permettono di avere al termine un numero enorme di possibili combinazioni e risultati in uscita.

Tim O’Reilly l’ha già definito “una pietra miliare nella storia di internet”: Yahoo! Pipes è un editor grafico dove possiamo collegare, spostare, mettere insieme i dati che provengono da diverse fonti.
E’ un pò quello che finora abbiamo chiamato mashup, cioè lo sforzo creativo e materiale di tanti programmatori che hanno preso due siti web e li hanno rimescolati come i loro creatori non avevano pensato, unendo funzionalità, estendendoli, e creando qualcosa di unico, ma comunque creando un altro sito.

Pipes semplifica tutto questo.

Yahoo! Pipes permetterà a tutti, e quindi non solo ai programmatori, di creare mashup di molteplici tipi di dati, partendo dai feed, e creando filtri e inserendo altri elementi. Yahoo! Pipes, l'editor grafico per le fonti

Da alcuni punti di vista assomiglia a Dapper, servizio che permette di delineare gli elementi di un servizio web e remixare le sue parti a nostro uso e consumo, permette di creare nuovi servizi ex-novo o clonando quelli creati da altri utenti come Ning, e offre un servizio simile a quello abbozzato da Plagger ma con una interfaccia grafica intuitiva.

Facciamo alcuni esempi: potremmo semplicemente filtrare i dati di un feed, attraverso alcune parole chiave, oppure fare questo con una serie di feed, per creare una selezione delle nostre fonti di informazione. Possiamo però fare questo anche con diversi servizi web che offrono dati molto diversi tra loro come foto, video, annunci, eventi, oggetti in vendita, mappe, dati meteo, basi di dati, testi e altro ancora.
Oltretutto se penso a quei servizi in grado di creare feed RSS da siti che non forniscono i propri aggiornamenti in questo modo, possiamo capire che siamo di fronte ad un passo importante del web programmabile: facciamo passare il tutto dentro questi tubi e alla fine possiamo ottenere il succo, scremando quello che non ci interessa. Oppure unire tante fonti di diverso tipo in una sola.

Yahoo! Pipes permette quindi di remixare i feed e creare mashup che forniranno nuovi dati in un ambiente grafico visuale che permette con facilità di ottenere quello che altrimenti richiederebbe notevoli conoscenze nel campo della programmazione.
Yahoo! ha dimostrato che è in grado anche di produrre grande innovazione e non solo di acquisire le migliori startup del web 2.0.

L’immediato successo di questo nuovo servizio e, a quanto riportano diverse voci, una notevole necessità di potenza di calcolo, ha velocemente messo in ginocchio il servizio, che riporta la voce “I nostri tubi sono bloccati! Abbiamo chiamato gli idraulici!”.