Archivi categoria: Cultura digitale

Dal WEB dei documenti al Web dei Dati per una conoscenza interconnessa

Linked Open Data: perché solo Open data non basta, neppure in Italia.
By TITTICIMMINO | Published: DECEMBER 24, 2010
Il valore di una licenza “open” sta nel fatto che i dati rilasciati con tale licenza possono essere condivisi e ri-usati senza restrizioni. Per poter rivolgersi alla comunità degli sviluppatori l’apertura delle licenze è il primo step: senza questo passo il resto è come un castello di carte.

Ma la licenza “open” ha anche un altro valore: per effettuare mash up di dati o per linkarli se i dati sono allocati in differenti database , tipo Europeana o DBpedia, è necessario avere schemi di licenze compatibili per evitare di incorrere in alcuni set di dati per i quali la licenza d’uso sia restrittiva, restituendo così, di fatto, un insieme di dati incompleto o per nulla efficace.

Un validissimo esempio di Linked Data è quello dei Linked Geo Data, i dati spaziali sono cruciali per interconnettere risorse geografiche garantendo faciltà di browsing e di authoring.

Linked Open Data: cui prodest?

Andiamo per ordine: perchè solo Open Data non basta.

Il web dei documenti diventa il web dei dati, questi descrivono “cose” che hanno “proprietà” a cui corrispondono determinati “valori”.
Immaginando una tabella: le righe sono le “cose” , ogni colonna rappresenta le “proprietà”, e l’intersezione rappresenta la proprietà della cosa.
In sintesi tendiamo a pensare a dati in questo modo: “cosa”, “proprietà”, “valore”.
Ogni “cosa” può avere più proprietà e più cose possono essere in relazione. Dal punto di vista grafico, immaginando un grafo i nodi sono le cose e gli archi le relazioni tra le cose.

Precipua questione è quella della identificazione delle cose globalmente e univocamente dal punto di vista di un database. La chiave di volta dei Linked Data sono gli URIs che appunto consentono la identificazione di cui sopra. GLi URIs identificano le cose che vengono descritte, piuttosto che azioni su quelle cose, e se due persone creano dati usando lo stesso URI, allora essi stanno descrivendo la stesa cosa rendendo facile il merging di dati provenienti da data sources distinti, con la possibilità di riconoscere la distinzione tra le risorse e le rappresentazioni di tali risorse: lo stesso URI potrebbe restituire una diversa rappresentazione della risorsa, come ad esempio HTML o XML o JSON.
Quindi, se abbiamo intenzione di pubblicare i dati sul web, abbiamo bisogno di uno standard per esprimere i dati in modo che un client ricevente i dati possa capire che cosa è una cosa, che cosa è una proprietà, che cosa è un valore e, dal momento che questo è il web, anche cos’è un link. Questa è la norma fondamentale di cui abbiamo bisogno e questo è ciò che dà RDF: i dati espressi in formato RDF possono usare URI provenienti da differenti siti web. Se due insiemi di dati utilizzano lo stesso URI poi è molto facile lavorare quando parlano della stessa cosa, ad esempio, permettendo di riunire le informazioni pubblicate da una scuola con le informazioni rilevate da indagini statistiche altrove pubblicate secondo lo standard , naturalmente. E la cosa grandiosa del modello RDF (che fa uso di URI per identificare le proprietà) è che quelle serie di dati possono essere combinate automaticamente, perché lo standard consente di sapere dove cercare le informazioni necessarie.

Usare URI HTTP facilita il recupero di un documento dal web. Ciò consente di programmare, on-demand, l’accesso alle informazioni. Gli sviluppatori non devono scaricare enormi database mentre sono interessati ad una piccola parte di quei dati. Come possiamo creare facilmente dati strutturati e riutilizzabili da formati Excel o (peggio) dai file PDF? Come affrontare i cambiamenti nel tempo, e registrare la provenienza delle informazioni che mettiamo a disposizione? Come possiamo rappresentare le informazioni statistiche? O informazioni sulla localizzazione? Queste sono cose che si imparano mettendosi all’opera!

E ‘ complicato cominciare ad adottare i Linked Data, sia per ragioni sociali, culturali che per motivi tecnologici. Non succederà nulla dalla sera alla mattina, ma a poco a poco ci saranno gli effetti di rete: URI più condivisi, più vocabolari condivisi, il che rende più facile da adottare i Linked Data patterns offrendo più vantaggi per tutti.

Una volta descritti i dati e modellizzati, occorre interrogarli e questo avviene con un linguaggio standard per query: lo SPARQL.
In realtà, ciò che è necessario è la creazione di serie di dati più grandi, riunendo i linked data più granulari in elenchi e grafici, questo è essenzialmente quello che fa SPARQL.

Dunque per pubblicare Linked Data occorre
1) comprendere i principi (Uso di RDF data model con RDF links, link tipizzati tra due risorse, per collegare i dati relativi alle stesse cose)
2) comprendere i dati (con i Vocabolari condivisi FOAF SIOC Dublin Core, geo, SKOS, Review)
3) scegliere URI (http URIs) per le cose espresse nei dati (cose come Persone, posti, eventi, libri, film, concetti, foto, commenti, reviews)
4) linkare ad altri data set (con i link RDF)
In sintesi RDF è il formato per i Linked Data; RDF usa URIs per dare un nome alle cose; quando un URI è chiamato, esso restituisce descrizioni RDF delle cose chiamate con gli stessi e sempre via RDF si descrivono le relazioni tra le cose. Infine lo zenit si raggiunge linkando differenti data set.

A dispetto di problemi e questioni che si potrebbero sollevare circa le difficoltà di sviluppatori o esiguità di risorse, ritengo che il Linked Open Data data sia l’approccio migliore a disposizione per la pubblicazione di dati in un ambiente estremamente vario e distribuito, in modo graduale e sostenibile.

Perché? Linked Open Data significa pubblicare i dati sul web mentre si lavora con il web.

Linked, Open, Data!

#ebooklab, e gioie della vita.

Nella primavera del 2007, dopo aver partecipato a qualche barcamp, provavo a scrivere qualche indicazione su come meglio organizzare gli eventi pubblici tipo convegni e conferenze, siano essi più o meno destrutturati, siano essi più o meno occasioni sociali “aumentate” dall’utilizzo di tecnologie come streaming video, wifi diffuso, uso massiccio di twitter e relativo feedback tramite twittervision proiettato nella stessa sala dove i relatori relazionano relazioni e tutti gli altri si relazionano tra loro.
Giovedì e venerdì scorso sono stato a Rimini, ospite dell’EbookLab Italia
Ospite, perché avevo contribuito a pompare il buzz preparatorio dell’evento, scrivendo una cosetta pubblicata su EbookLab e anche qui
Ospite, perché nonostante io per lavoro sia un libero professionista che cerca di raccontare e/o progettare iniziative in senso largo relative alla Cultura digitale, difficilmente mi sarei potuto permettere di pagare centinaia di euro per l’entrata al convegno. E so bene che per raccogliere bisogna dissodare, seminare, concimare (ah, questi soldi simbolicamente cacca), innaffiare il terreno: semplicemente il ROI mi sembrava sproporzionato, per quanto interessante sulla carta il convegno stesso si annunciasse, per la qualità dei relatori invitati e per la sua peculiare posizione narrativa, rispetto al discorso generale che in Italia si sta tenendo riguardo all’economia – oikos-nomos, sì, siam sempre lì – dell’editoria digitale. 
E invece la sala era sempre piena, centinaia di persone confermate ogni giorno, paganti e attente.
Una prima scommessa vinta, tutto sommato.
L’estate scorsa avevo contribuito a organizzare l’EbookFest a Fosdinovo, conosco da anni molte delle persone che sarebbero arrivate a Rimini e anche qualche relatore: questa occasione aveva le carte giuste per stabilire il punto di partenza delle riflessioni nazionali e professionali del settore; ho assistito a una fiera seria, con personaggioni, parole ufficiali, prese di posizioni che rappresentavano il punto di vista dei principali gruppi editoriali italiani. Non bazzecole. Nessuna bambola da pettinare.
E mi sono divertito, ho imparato cose. Gino Roncaglia che approfondisce via via nel tempo il suo discorso sul social reading, Ricky Cavallero di Mondadori spavaldo e cinico e cosmopolita (nel senso “non strozzato da una visione provinciale” come molti altri, che provocano le tempeste in un bicchiere giusto per sentirsi vivi e darsi importanza) che ha fatto più volte sobbalzare la platea con affermazioni durissime e proiezioni radicali sul futuro del libro, Maragliano e Rotta e Quadrino per i ragionamenti sull’editoria scolastica (settore surreale, paradossale, miope oltre ogni criterio), Tallone&Balocco squisiti e suggestivi nel dipingere lo sviluppo storico secolare dell’arte tipografica, dai caratteri aldini alla grazia del corsivo italiano al palatino tedesco all’elzeviro ai caratteri moderni, scherzosamente intrecciando tipografia e genius loci.
Ma ora dovrebbero pubblicare i video integrali degli interventi, restate sintonizzati sul sito di EbookLab, anzi sarebbe bello se Tombolini (Simplicissimus, promotore dell’evento) riuscisse a distillarne un sunto video, un documentario di una mezz’oretta ben montato e commentato, una narrazione, ekkemminkia, di un evento che si occupa di libri e di editoria e di forme della narrazione del XXI secolo.
Altrimenti il prossimo convegnone, chiunque lo organizzi, dovrà ripartire da zero o quasi, e qui non riusciamo a fare costruzione cumulativa della Conoscenza, riprendiamo i discorsi sempre dallo stesso punto. Vergognoso, nella nostra epoca, con gli strumenti che abbiamo.
A parte i contenuti, riprendo a parlare dell’organizzazione dell’evento. Anzi, linko Gianluca Diegoli, che ha scritto un ottimo post metalinguistico, ragionando proprio sul come organizzare un convegno di successo, e lui era tra quelli che si occupava di far filare tutto liscio là a Rimini.
Fondamentalmente, badare alla qualità. Semplice, eh? Ma a quanto pare per niente facile, ci vuole professionalità, come l’artista che nasconde la mano. Badare alla qualità dei relatori, badare alla qualità degli spazi relazionali (a partire dalla semantica dello spazio convegnistico, l’arredamento della sala, la forma e la disposizione dei tavoli), badare ai servizi offerti (un wifi serio, e una password per tutti uguale, finalmente), aver cura del clima – nevicava fuori, ma dentro era ben riscaldato da chiacchiere e incontri informali come sempre assai fecondi. Progettare il coffe-break, come dicevo anni fa, è la chiave del successo, o una delle.
Anzi, aggiungo un’ideuzza.
Come accade spesso, i relatori si ripetono. Quando fanno i preamboli, dicono le stesse cose. E sono decisamente stufo di sentirmi raccontare (anche malamente) la storia di Napster e la bolla del 2000, soprattutto da gente che vede ancora la Rete come uno strumento, e non come un ambiente, non come un territorio.
Allora ecco un suggerimento per chi organizza. 
Pensiamo al convegno tutto come una riunione di lavoro. 
Le posizioni dei parlanti, quello che rappresentano nella loro veste ufficiale, è la ricchezza del discorso, ma al contempo è un limite rispetto a quello che possono pensare, a quello che potrebbero dire.
Se il convegno, la riunione, il discorso, hanno come finalità quella di proiettarsi nel futuro, di stabilire linee d’azione e non solo di sancire l’esistente e fare il punto, allora c’è bisogno di pensiero laterale.
Vanno rotti certi schemi, servono visioni. 
Vi ricordate di DeBono, no? Metodologie per sprigionare la creatività, permettere al discorso di raggiungere e dissodare terreni che l’impostazione classica di un convegno impedisce di praticare, per il modo stesso con cui storicamente pensiamo la forma-convegno.
Prendete i sei cappelli per pensare, e fatene una versione social-convegnistica. Un sociodramma organizzato, direi. Un brainstorming su diversa scala.
La prima mattina, si comincia con il cappello bianco: voglio sentire relatori che parlano di dati, numeri, economia, tirature di libri, trend di mercato, prezzi all’ingrosso e al dettaglio. Relatori che sappiano di cosa parlano, solidi e concreti. Tutti avrebbero subito l’orizzonte.
Poi toccherebbe al cappello rosso, e vorrei sentire le emozioni risuonare. Il panico del libro che muore, le piccole case editrici che urlano spaventate, la nostalgia, l’indignazione per le politiche errate, la vergogna dei milioni di euro buttati in cose stupide. Ci vorrebbero relatori istrionici, contrapposti ai “ragionieri” del cappello bianco, capaci di dare corpo a tutto quello che si agita nella pancia del settore editoriale italiano, e spesso non trova parole per essere espresso e raccontato.
Con il cappello nero e con il cappello giallo siamo nel classico: i detrattori disfattisti e gli apologeti entusiasti, gli ottimisti e i pessimisti, il discorso prenderebbe quota e verrebbero a delinearsi i contenuti su cui vale la pena discutere, avendo tutti ben presente il COSA e il COME stiamo parlando, dopo i primi due cappelli.
Poi verrebbero i creativi, quelli del cappello verde, che dopo aver ascoltato per bene tutto proverebbero a individuare soluzioni out-of-the-box per risolvere il problema specifico posto dal convegno come situazione comunicativa, a esempio “Come evitare di farsi del male reciprocamente e come costruire Cultura in Italia dal punto di vista delle politiche editoriali, nei prossimi dieci anni“.
Il cappello giallo è già uno che potrebbe proporre soluzioni, ma tipicamente rimane dentro uno schema di pensiero statico, mentre nelle situazioni di cambiamento occorre uno che sappia vedere il bosco, non solo gli alberi. Uno che mette in dubbio e pone il dito su cose talmente ovvie da essere invisibili, su quello che le abitudini spesso nemmeno ci lasciano più pertinentizzare e quindi problematizzare, una persona un relatore o un manipolo di relatori che sappia pensare sistemicamente il tutto, senza settorializzare, ma alzandosi in volo e scorgendo nuovi territori da abitare per l’editoria.
Poi c’è il cappello blu, che sappiamo rappresenta il meta-cappello: il moderatore, quegli attori della situazione in grado di mantenere il focus dei discorsi centrati sul problema, e gestire i turni e la circolazione della parola, che provano a stabilire i punti fermi emersi dalla discussione complessiva affinché questi possano costituire il gradino su cui salire tutti per far progredire il discorso.
Insomma, ci siam capiti: minimizzare le occasioni di parlarsi addosso, e lavorare per dare sostanza e profondità.
Volevo aggiungere ancora una cosa, mia personale.
Io ero ospite di Mario Guaraldi, persona che stimo enormemente per la sua storia personale, per il suo essere personaggio, per il suo essere editore che pubblica quello che gli piace, e gli piacciono cose matte e bellissime.
La prima sera del convegno sono andato a mangiare carne e a bere vino rosso (come in un’ecatombe sulla spiaggia, dentro l’Odissea, quando Ulisse e i suoi scendevano a terra per la notte) con lui, con Sergio Metalli (scenografo famosissimo e visionario per i migliori teatri italiani, e non solo), e con Paolo Fabbri.
Cioè, Paolo Fabbri. Quello che considero tuttora uno dei migliori intellettuali italiani, quello che diciassette anni fa ha firmato il titolo della mia tesi al DAMS in narratologia, quello che tra un boccone di piada e un brindisi mi ha spiegato (lui settantenne a me!) i risvolti pop-culture di Lady Gaga, per dire, intrecciandoli con i codici del melodramma italiano settecentesco.
Questi tre qui son tutti di Rimini, si conoscono da decenni, ora si occupano tra l’altro della Fondazione Fellini, tutti e tre potrebbero parlare per ore dell’essere vitelloni e delle zingarate fatte nel corso degli anni, aneddoti a piovere, ridono e scherzano e si divertono molto, si palleggiano le parole lievemente mentre raccontano spezzoni della vita culturale italiana degli ultimi quarant’anni, amabili e romagnoli e vivaci.
Nella foto qui sotto, Metalli Jannis Fabbri e Guaraldi.
Io sono quello anziano.
Allorquando Pitagora trovò
Il suo gran teorema,
Cento bovi immolò.
Dopo quel giorno trema
De’ buoi la razza, se si fa
Strada al giorno una nuova verità.

Cultura digitale

Carlo Infante:

La cultura digitale è in primo luogo l’opportunità per riconfigurare gli assetti sociali e culturali nell’era post-industriale, liberando le potenzialità collaborative nella disintermediazione delle risorse, a partire da quelle informative. Da subito si capì (già trent’anni fa) che si poteva diventare editore di sè stessi. In questo senso il web si sta rivelando un nuovo spazio pubblico, coniugando l’interattività digitale con una straordinaria interazione sociale possibile che va ben oltre il rumore dei social network massivi (che comunque ci fanno molto comodo perchè disseminano con una velocità sorprendente le nostre performance mediali). La creatività sociale delle reti ci permetterà di mettere in gioco una disponibilità che si rivelerà come una nuova rete del valore (nuovo paradigma che supera quello lineare della catena di montaggio, modello fondante del sistema meccanicistico che stiamo superando) grazie alle dinamiche del web 2.0 che non è un semplice update tecnologico ma un netto salto paradigmatico, un’evoluzione antropologica. E’ qui che si gioca la scommessa più ardua, nell’intercettare quei nativi digitali che oltre a vivere come naturale questa nuova condizione artificiale (come tutte le culture, dopotutto) possono essere coinvolti nella costruzione di un ponte tra civiltà, riconoscendo il valore di trasformazione culturale avviato in questi ultimi decenni. Credo, in particolare, che vadano trovati i termini per mettere in relazione il mondo dell’avanguardia (che ha anticipato molti elementi delle culture digitali) con quella cultura dell’innovazione che non deve rimanere schiacciata nell’avanzamento esponenziale dell’offerta tecnologica. Servono nuove chiavi interpretative, mobili, dinamiche, come quelle che permettano un’interazione sensibile con il territorio, con le sue biodiversità, le sue architetture, il suo genius loci, per valorizzarlo e inscriverlo in un futuro digitale sostanzialmente glocal e sostenibile.

Agenda Digitale per l’Italia

Un articolo di Stefano Quintarelli per il Sole24ore

In Australia, l’anno scorso, la strategia sulla rete digitale è diventata per i media «uno dei punti di divergenza più drammatici tra i partiti in campagna elettorale». Dopo le elezioni, sono risultati decisivi i parlamentari indipendenti che hanno orientato il loro voto verso i Labor proprio per il programma di rete in fibra più coraggioso.

Il commissario europeo per la Società dell’Informazione, Neelie Kroes, ha lanciato l’Agenda digitale europea per indicare la strategia fino al 2020 e la considera elemento cardine di sviluppo e sostenibilità socioeconomica.

Secondo uno studio di Boston Consulting Group, nel Regno Unito la «internet economy» vale il 7,2% del Pil, più del settore sanitario, e il governo ha sviluppato il piano «Digital Britain» per garantire al paese un futuro tra le maggiori economie del sapere digitale. Il Technology Strategy Board ha definito le linee guida strategiche per settori fortemente condizionati dalle tecnologie digitali quali l’Ict, l’elettronica e la fotonica, la generazione e fornitura di energia, i materiali avanzati e la manifattura ad alto valore aggiunto.

L’Italia affronta da tempo un ritardo, non solo economico, ma anche infrastrutturale e culturale, rispetto alle principali economie occidentali. Abbiamo subito una perdita di competitività anche rispetto ai nostri principali partner europei. Tra il 1998 e il 2008 il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è diminuito in Germania. L’affermarsi dell’economia della rete digitale rende necessario affrontare trasformazioni radicali dei modelli di sviluppo. Secondo un rapporto del l’International Telecommunication Union al mondo ci sono 161 paesi che si sono dotati di una strategia digitale, ma l’Italia non è in questo elenco.

Non mancano le iniziative significative in Italia. Ma non c’è una visione né un dibattito politico in materia. Eppure, molti studi indicano che i differenziali di crescita e di produttività che si sono sviluppati negli ultimi 10 anni tra i principali paesi sono spiegati dalla diversa intensità con cui imprese, pubbliche amministrazioni e individui hanno investito in Ict. Per questo molte persone si sono unite all’appello per un’Agenda digitale per l’Italia che si trova su www.agendadigitale.org.

Figura e sfondo – reloaded

Un pezzo lungo, che scrissi tempo fa per un ebook di Datamanager. Ne parlavo qui.

_____

Figura e sfondo: il libro e la società connessa
Un secolo dopo le avanguardia artistiche del Novecento, abitiamo ancora dentro modelli di pensiero che non solo concepiscono l’opera come romanticamente formata in modo compiuto dentro la scatola cranica del suo autore, ma hanno in sé una propensione a leggere comunque il fare espressivo come svincolato dal contesto culturale in cui esso appare. Senza voler esasperare i termini, senza voler estremizzare le affermazioni di cui sopra – in fin dei conti i percorsi storici dei linguaggi espressivi più o meno “artistici” appartengono alla cultura generale della nostra epoca – rimane comunque viva l’idea di un “oggetto culturale” in sé conchiuso, capace di veicolare il proprio significato contando solo sulle proprie forze, sulla propria capacità di mettere in scena le circostanze di enunciazione e la relazione comunicativa con il fruitore, che sarebbe meglio da subito chiamare interlocutore.
Nella storia del ‘900 troviamo esplicite delle riflessioni teoriche e delle pratiche progettuali e realizzative che minano profondamente questa nostra fiducia piuttosto ingenua nella solitudine dell’opera: l’ideologia romantica perde molto del suo significato in un mondo dove molti possono accedere alla fruizione e alla produzione di immaginario nelle forme codificate – abbiamo quindi una democratizzazione dell’autore. Inoltre, l’industria culturale nel suo frammentare e rimescolare i processi produttivi e espositivi delle storie giunge (o permette al nostro pensiero critico di giungere) alla considerazione merceologica del nostro abitare riti e miti che però trovano format di divulgazione mediati dall’intelligenza di chi ragiona in termini di marketing, dando luogo a una Società dello Spettacolo, del simulacro. Ancor di più, l’analisi testuale ha mostrato come il testo in realtà sia sempre molti testi, e stiamo parlando proprio del punto di vista autoriale e della sua capacità di riorganizzare il contesto narrativo, piuttosto che concentrare la propria attenzione sul semplice messaggio.
Lungi dall’essere isolato, il testo è nativamente permeabile, attraversato da altre narrazioni, da libri che richiamano altri libri, e in fin dei conti in una biblioteca tutto si tiene con tutto, e tutte le biblioteche del mondo concepite come luoghi del sapere statico riecheggiano le une con le altre, nel tessere le forme stabili della Conoscenza. Ma il modello biblioteca, tanto quanto quello di opera autonoma, oggi non sono più sufficienti.
Oggi possiamo letteralmente vedere il farsi della cultura, nei processi dinamici dell’emergere della Conoscenza in Rete, su web, o su quelle nuove pratiche fisiche rese possibili dall’esistenza della Rete. Rete che va ribadito è sempre esistita, come legame tra le persone, tra le collettività, tra i libri e i depositi di conoscenza (memoria interne o esterna a noi) che tra loro tessono trame, e che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno potenziato, facendone emergere gli strati osservabili, il fare concreto umano di condivisione e scambio, il fare cultura che è sempre intercultura.
Di un testo oggidì immateriale, slegato dal suo storico supporto e veicolo cartaceo, anzi in grado di abitare indifferentemente la nuvola dei dispositivi di lettura oggi disponibili o nelle reti di visibilità elettroniche, comprendiamo la sua capacità di ri-giocare la relazione tra la figura e lo sfondo, relazione da cui orginariamente sgorga il senso dell’opera, nonché il senso del nostro fruire l’opera, nell’interazione. Anche ragionare al di là della figura dell’Autore, della sua intenzionalità, ci riesce facile nel provare a insistere con lo sguardo su paesaggi di pratiche culturali assolutamente innovative, quali quelle che vediamo a esempio per prove e errori sperimentare dall’industria editoriale, alla ricerca di nuovi equilibri e modelli economici di funzionamento, nell’epoca in cui non tanto l’informazione quanto l’attenzione è un bene prezioso, da contendersi.
Proprio questo è il posto dove ci troviamo: non più circoli di intellettuali dell’antica Grecia o cenacoli rinascimentali o avanguardie culturali tratteggiano il valore e la forma degli oggetti della conoscenza, ma in maniera condivisa e collaborativa tutti insieme nella Grande Conversazione stiamo patteggiando tra noi il modello di pensiero con cui pensiamo lo sfondo, il contesto da cui sappiamo dipende il senso enunciato dei messaggi, dei testi, delle opere d’ingegno.
E anche noi procediamo per prove e errori, congetture e confutazioni nel negoziare un concetto stabile (una credenza, sempre ipotetica e fallibile) di come sia da rappresentare lo sfondo, utilizzando metafore della Rete tecnosociale che richiamano rizomi, città di testi, viabilità delle idee, ambienti artificiali connessi in cui le collettività vivono, la mente che abita dentro e fuori di noi, l’ecosistema della conoscenza, il bosco delle narrazioni; da questo calderone un giorno nasceranno modelli maggiormente attagliati alla complessità attuale, nativi, e non banali adeguamenti di modi di fare obsoleti.
Agli albori del cinema, i Lumiere cercavano di rendere una realtà teatrale, mentre Georges Melies già sperimentava narrazioni nuove, avendo compreso il montaggio come proprium del linguaggio cinematografico. Inizialmente abbiamo sempre adeguamenti di vecchi format dentro i nuovi linguaggi, ma dovremmo ormai anche aver compreso che proprio in simili situazioni conviene osare qualcosa in più, per avere fiducia poi nella “pubblicazione” del nostro fare, rendere pubblico tramite la Rete, quale garanzia etica di controllo intersoggettivo, di trasparenza, di dialogo e pluralità.
I libri quindi, ma in realtà ogni porzione di contenuto di qualsiasi lunghezza o argomento, su molti media differenti, insomma qualsiasi testo, abita da sempre in Rete. Oggi in più si muove rapidamente su scala planetaria, innesca conversazioni in tempo reale, connota di sé relazioni e situazioni.
E il supporto tecnologico che lo veicola, passando dalla lenta carta all’interattivo ebook reader, diventa come una polla d’acqua nelle terre di risorgiva, dove affiorano in superficie brani di contenuti che circolano comunque in Rete. Il testo che leggiamo su un dispositivo connesso diventa segno e metonimia dello Scibile tutto, segno non solo letterario ma anche concreto in quanto permanentemente connesso con l’insieme, metonimia da interpretare dinamicamente, come capacità dell’opera di restare sintonizzata con il contesto di riferimento (l’ambito del discorso), e magari di cangiar forma e contenuti su pulsione di quello.
Quello che potremmo vedere in poco tempo, e che mi piacerebbe osservare, sarebbe la possibilità per il dispositivo di lettura di “campionare” e di riportare quel contesto unico e originale dato dal nostro personale interagire con il testo, la vera situazione di fruizione, riuscendo a tracciare dentro il flusso delle conversazioni in Rete alcune caratteristiche di questa relazione, quali i suoni ambientali, il ritmo e i tempi di lettura, l’insieme delle annotazioni e dei commenti e delle sottolineature del testo… qualcosa di simile già accade con i nuovi ebook reader, dove un manuale o un saggio di studio, vivi e cangianti, si modificano sotto i nostri occhi, per mostrarci come altri hanno letto quel testo, come lo hanno sottolineato, in una piena concezione socialdella tecnologia e della condivisione culturale.
In ogni caso, io ho paura delle idee vecchie, non di quelle nuove.

Per evolverci rapidamente

Sono decenni che ci prendono in giro. Ci han fatto pagare dei pc assemblati delle cifre folli, e dopo un anno lo stesso computer costava la metà. Hanno pronti dispositivi più performanti, schermi migliori, memorie più capienti da anni e anni, e tengono queste cose in magazzino; sgranano nel marketing certe millantate novità tecnologiche che avrebbero potuto vedere la luce anni fa, c’è tutta una filiera che deve arricchirsi, e quindi centellinano i prodotti, per monetizzare al massimo il nostro voler possedere dispositivi. Aggeggi di elettronica che a prodursi costano un ventesimo del prezzo di vendita attuale, le cui spese per ricerca sono state abbondantemente ammortizzate.

Un pad o un notebook dovrebbero costare 150 euro, un netbook o un tab 100, uno smartphone touch 80 euro, un ebookreader 50 euro. Fattibilissimo.
Ne venderebbero miliardi di questi dispositivi, le aziende di hardware sarebbero comunque ricche uguale.
Ma loro vogliono fare i soldi subito, vendendoti una scatoletta. Mentre il business dovrebbe piuttosto essere orientato al software, a progettare produrre distribuire oggetti culturali e applicativi di fruizione, e questi sarebbero i servizi per cui le persone pagherebbero volentieri.

E noi tutti vivremmo dentro un tsunami culturale meraviglioso, sostenuto da dispositivi elettronici ubiqui e economici, e con facilità moltiplicheremmo le fonti da cui imparare e i luoghi su cui esprimerci.

Voglio le webtv

Neanche il tempo di rallegrarci a metà per la mezza liberazione del wifi in italia, e ecco che arriva un’altra cretinata: la regolamentazione delle webtv. Migliaia di persone che parlavano davanti a una webcam, siti come Youtube e altre piattaforme per contenuti user-generated, oppure strutture più organizzate ma non “aziendali” né commerciali che magari cercavano di fare informazione locale, citizen jounalism e “territori eloquenti” bloccati sul nascere a causa dei vincoli strettissimi descritti in questo decreto Romani.
Quel Paolo Romani noto per le articolate vicende delle sue attività imprenditoriali proprio in campo televisivo. Quel Paolo Romani noto per la sua incapacità di comprendere lo spirito della Rete – come nel suo intervento pubblico alla Camera in occasione della lectio magistralis di Lessig – eppure guardacaso efficacissimo nel legiferare contro la Rete stessa.
Dài, che voglio l’italia sia un paese normale come gli altri, dove si smetta di dover lottare contro cretinate, per affrontare i veri problemi (con un doppio turno alla francese, a esempio, o con un proporzionale serio).
Nel frattempo, anche qui, disobbedienza civile.

La libertà e il sentimento delle masse

Prendo una frase da un post di Zambardino.

Ecco il problema che si pone per la rete: la libertà è indisponibile, non è regolata dal “sentimento delle masse”.

La qual cosa agita in me questa idea: se continuiamo a parlare di quanto la Cultura digitale cambierà il mondo, cominciamo a pensare seriamente che tutto cambierà. Compresi ideali platonici come il concetto di libertà, che poi sono sempre pratiche concrete del vivere, situate, materiali. C’è sempre un contratto originario nella narrazione, che innesca l’eroe e l’azione senza la quale non c’è storia. Qui parlavo di come fosse da preferire piuttosto l’indipendenza alla libertà, ma è un’altra storia.
Ma il senso delle cose è dato da coloro che quelle cose le vivono. Attraverso le epoche.
E allora vediamo che le idee e i concetti, anche i più basilari per la nostra cultura, sono sempre storici e storicizzabili. E quindi mutano nel tempo.
Fino a ieri c’erano dei valori – reputazione, decoro, libertà, proprietà – resi stabili nel tempo, in quanto nati in una conversazione lenta e secolare fatta da poche persone con strumenti pesanti, i libri e le riviste accademiche e i quotidiani, i motori comunicativi che agitano il calderone della pubblica opinione di una data collettività.
Occorrevano pensatori e produttori di opere eccezionali, per smuovere la solidità di quei concetti, forzarne l’aggiornamento ai tempi correnti, diffondere le nuove accezioni nella società.
Il discorso dei poeti come avanguardia della specie, insomma.
Ma già da qualche decennio i poeti erano copywriter, o registi, o dj o giornalisti, gente che pubblica veloce. E già il calderone cominciava a ribollire. 
Ora noi siamo il web, che non è quotidiano, è istantaneo, continuo. Dove tutto viene ripreso e traghettato e riconsiderato, e non da mille intellettuali sparsi per il pianeta, come nel 1952, ma da centinaia di milioni di persone.
E siamo destinati a attraversare la peggiore interpretazione possibile di “power to the people”, perché avverranno cose aberranti. Una risacca emozionale può scuotere una collettività intera, un’indignazione o l’onda di uno scandalo qualsiasi, e ecco che milioni di persone negano o permettono qualcosa che fino a ieri non poteva essere facilmente toccata, come un valore. Proprio grazie a quel tasto Like di Facebook, come racconta Zambardino.
E cosa dovremmo fare? Indicare alcune stelle fisse del firmamento etico, e pretendere che milioni di persone ne facciano punto fermo della propria rotta, nel proprio lifestreaming? L’educazione, che sola può agire in questi casi, è un processo generazionale.
Dovremmo fare un wiki ufficiale, magari garantito dall’ONU o trovate voi un’autorità autorevole planetaria, dove sono esposti i cardini della civiltà occidentale? Dai Greci al Rinascimento all’Illuminismo al pensiero contemporaneo? Capisaldi del pensiero che ora vivono in forma scritta dentro supporti della Conoscenza offline, esterni alla Rete della socialità?
Se tutti fossimo connessi e partecipi, il senso di un valore è dato dal suo essere vissuto dalla collettività. Punto per punto, attimo per attimo. L’esperienza è valore di chi vive quell’esperienza, nel suo modo unico e originale.
E ora dobbiamo fare i conti con la sanzione sociale. Il fatto che noi tutti sanciamo il significato di un concetto, abitandolo quotidianamente, valorizzando e mettendo in luce un lato piuttosto che un altro, conferendogli senso situato in un qui e ora. Un qualsiasi fatto di cronaca che ci obbiga a schierarci; e stiamo ragionando di quei concetti che sono valori. Reputazione, per esempio.
Il fatto che blocchi alla circolazione delle idee avvengano dentro Facebook, che è un luogo privato, accentua il problema. Perché poi avvengono dei pateracchi tra la Polizia di uno Stato (l’Italia, in questo caso) e un’azienda commerciale (vedi Gilioli, che però sbaglia appunto a considerarlo uno spazio pubblico) che decisamente non sono rispettosi della collettività, e sono mossi da valori non più accettabili (il fare subdolo).
Se qualcuno su FB (e anche in altri posti) segnala inappropriato un contenuto, questo scompare. Quanta gente ci vuole per far sparire un qualcosa? La libertà di espressione dipende dal numero, o dall’umore della collettività? Quello che oggi è no domani potrebbe essere sì. 
Serve, come su Wikipedia, una “proposta di cancellazione”, a cui fa seguito discussione e votazione corale? Per ogni potenziale contenuto della Rete? Cioè, dovrebbe essere possibile segnalare ogni contenuto della Rete, e sottoporlo a valutazione di tutti?
Ma Facebook è un luogo privato, è un salotto e non una piazza. E ci sono cose che non dici a casa di altri, se sei accorto e consapevole, perché il padrone di casa delle tue parole può fare ciò che vuole.
Per dire, se esistesse il social network di Stato, l’ambiente online governativo (a scala e portata diversa, georeferenziata) per la socialità digitale della collettività italiana e portatori d’interesse annessi, non è che mi piacerebbe tanto se due persone che dicono “Non mi piace” facessero sparire un contenuto che io ho pubblicato in quanto cittadino digitale che partecipa alla pubblica conversazione.
E se le persone che dicono nonmipiace fossero milioni?
Non vedo soluzione, vedo sprazzi di comportamenti futuri, un’infosfera continuamente spazzata da venti emotivi, click di pancia, fuffa mediatica, guerre tra verità locali, meccanismi di attacco-fuga. 
Lentamente, e a guardar dal punto di vista dell’oggi in modo ineffabile, sorgeranno nuove opinioni, insieme ai nuovi contenitori d’opinione.
Tra una generazione tutto questo traghettamento sarà metabolizzato: i valori civili forgiati pre-Internet saranno adeguati ai nuovi ambienti di socialità e di espressione di sé, la maggior parte delle persone ci sarà cresciuta dentro, maturando altre posture esistenziali, altre gerarchie di valori, diversi orientamenti.
Insomma: credo proprio che il “sentimento delle masse” inciderà sull’idea di libertà, senza dubbio. E siccome viviamo tempi di pancia, potrebbero avvenire cose brutte, riguardo la pratica della libertà, se qualche Principe nel suo pensare lo Stato ritiene lecito manipolare l’opinione pubblica a proprio vantaggio.
Ma sono ottimista: non posso certo irrigidire i concetti e i valori storici, perché non sopravviveranno in quella forma dall’essere maneggiati da milioni di persone, ma confido che i mutamenti dell’ambiente tutto che contiene quei concetti (la socialità digitale) saprà inventare nuovi modi e garanzie per vivere la libertà di espressione, per difenderla e farsene vanto in quanto segno di civiltà.

Figura e sfondo: il libro e la società connessa

Un mese fa, durante l’Ebookfest 2010 a Fosdinovo, a un certo punto come già scrivevo ero dentro una tavola rotonda, a discettare fantasiosamente di web filosofia, il mio argomento psichedelico preferito.
Tra il pubblico c’era Lucia Montauti, che non conosco personalmente, la quale qualche giorno fa mi ha scritto una mail dove mi raccontava le sue impressioni positive sul convegno, e al contempo mi chiedeva una articoletto sulle tematiche di quella tavola rotonda, da mettere in un ebook di immediata pubblicazione tutto dedicato ai ragionamenti intorno all’ebook come oggetto tecnico e come nuovo nodo del sapere in quanto supporto digitale che modificherà la forma stessa della conoscenza e del conoscere, come sempre le tecnologie fanno.
En passant, faccio notare come nei primi cinquant’anni dall’invenzione di Gutemberg siano stati stampati circa 30.000 titoli (una fonte qua) in qualche milione di copie complessive, e non è difficile notare come l’enorme ruota della comunicazione umana abbia da queste innovazioni ricevuto una spinta notevole, a giudicare dai sommovimenti rilevabili da una storia delle idee: in parallelo stavano succedendo cose che ora identifichiamo come nascita della modernità. In italia oggi si stampano circa 60.000 libri all’anno.
Ebbene, Lucia aveva sicuramente in mano un indice del suo libro, una traccia dell’impostazione della pubblicazione 2010 che è solita curare, credo di aver capito, per Data Manager.
Questa pubblicazione, in formato .pdf, è stata presentata da Lucia Montauti oggi nel corso di Innovation Festival a Milano. E’ un bel libro, ci sono un sacco di interventi di vari personaggi coinvolti nel mondo dell’editoria digitale, ci sono buone riflessioni.
E mi fa impressione pensare che Lucia abbia potuto organizzare la proposta e la raccolta dei contributi in pochissimi giorni, costruendo rapidamente il suo libro, rendendolo disponibile per il download gratuito.
Un’opera collettiva che magari qualche secolo fa per banali motivi lgistici avrebbe richiesto un anno per essere realizzata, è stata dignitosissimamente confezionata in poche ore.
Cioè, il discorso che intendevo riguarda la rapidità con cui qui verrà giù di tutto, nel giro di pochi anni. Le solite secolari prassi sociali, i meccanismi industriali, il modo di muovere il mondo, le cose e le persone e le idee. Pensavamo queste cose fossero montagne solide, e invece sono le montagne fatte coi Lego che ci costruiamo per arredare la vita. Un piccolo rigagnolo, un’infiltrazione liquida smuove il terreno secolare, inizia la frana. Guardate quante teste si girano di scatto.

La forza social dell’organizzazione

Tempo fa postavo qui un ragionamento sulle tecnologie della comunicazione a disposizione della scuola, e intendevo proprio la singola Istituzione scolastica nel suo essere organizzazione e attore sociale con una sua voce specifica e una identità nella Grande Conversazione del web, non parlavo di didattica con i nuovi strumenti.
Lo spunto allora mi era stato dato da una riflessione tratta da intranetmanagement.it, dove si analizzava la portata e le sfere di azione degli strumenti del web20 in relazione alla progettazione di una intranet aziendale, o comunque di spazi interattivi interni e esterni di una organizzazione lavorativa.
Ora Giacomo Mason ha pubblicato un’altra bella grafica, dove fotografa i cambiamenti delle intranet, il loro diverso arredamento come spazi sociali lavorativi, l’accento differente messo sugli strumenti dall’avvento del social web e dei processi emergenti.
E anche stavolta, senza modificare nulla, suggerisco a chi lavora nel mondo della Scuola di provare a immaginarsi il proprio ambiente scolastico digitale realizzato secondo queste indicazioni, e le potenzialità che potrebbero derivarne in termini di efficienza della macchina organizzativa.

Mo’ mi morsico la nuca

Quella vecchia storiella, secondo cui il passato, ciò che vedo, è davanti a me.
Quindi il futuro è alle spalle, e sto camminando all’indietro. Capirete che il piede va a tentoni.
Provi a buttare l’occhio, ti fai una visione, uno scorcio sguincio, una teoria. In effetti, ci sono farfalle luminose, qua e là. E emergono strutture, collegamenti, posizioni, climi affettivi, interumanità, nicchie, onde del mare, perfino palazzi e strade, robe di paesaggi da abitare. Ma non del destino del tutto, ma solo di quello del libro pensiamo qui, e ormai libro non significa più nulla di quello che fino a ieri. Vive libero, immateriale ma appare il mille forme, un dio che talvolta si sustanzia, e siamo nell’aura del numinoso, una storia che costruisce anima, una storia chiusa in sé eppure opera nativamente aperta, nei tempi lunghi di una cultura fatta di libri e convegni, oppure istantanea di link e feed.
Feedare il contesto, questa era l’ideuzza. Tracciare la nostra relazione con lo specifico oggetto culturale (atto-degno-di-menzione, romanzo, news, accadimento, chiacchiera, informazione, tutto ciò che è narrato e narrabile), avere uno spime capace di recar seco (apperò!) la storia dell’interazione tra l’umano e l’opera, tirandosi dietro anche pezzi della situazione di enunciazione, contesto, e re-immettendoli nel flusso.
E se pensiamo a un opera connessa, che vive e si modifica nel tempo seguendo oscure nuvole di conversazioni in rete, e dialoga in tempo reale, eppure riesce a essere ancora “storia” nella nostra testa, pensiamo subito alla relazione tra l’opera e il lettore, tra quest’ultima e il web tutto.
Stralci di una chiacchierata: sto bloggando conversazioni, ho già modificato l’ecosistema.

V’è il momento in cui anche il pigro ginnico deve saltare. Ha provato a allungarsi, ma non basta più. S’inventa una presa: reggerà? Ogni tentativo cambia il gioco.

Sul testo come edificio lessi qualcosa, chissà dove chissà quando. Testi abitabili, con porte e finestre, e reti tecnologiche (collegamenti materia, energia, informazione… relative interfacce ormai simbiotiche con gli Umani). Ma non penso tanto ai testi che si richiamano, da sempre e per forza, in quanto veicolati dagli stessi supporti (sempre noi, gli Umani), quanto per converso al nostro *fare testo*. Quindi penso più ai collegamenti fatti dalle persone che abitano questi Luoghi testuali, e ne hanno cura: sono loro che portano il senso di qua e di là, tessendo. E il testo è diventato “atto degno di menzione” nell’ecosistema, sia esso un monoblocco lungo un sillogismo o una tragedia one-line o un’opera gigantesca e labirintica e polivocalica. Quindi, son da rendere visibili le tracce del nostro peregrinare nella città dei memi, e aggiungere il senso che produciamo vivendo al senso di ciò in cui ci imbattiamo, interagendo con i testi. Le scie dei punti di vista.[edit: palmasco nel concetto di frattali di contenuto che si riversano, è vicino a questo che ho scritto]

Yess, teatri della memoria, Giulio Camillo. Ma là siamo nella mnemotecnica, e il funzionamento della macchina (l’intero edificio e i percorsi di senso percorribili dall’Umano al centro della struttura) dipende da una combinatoria finita. Qui stiamo parlando di testi-edifici già collegati tra loro, tutto con tutto, e del nostro abitare (muoverci, vivere, fruire, consumare e produrre) che produce ulteriore senso che si aggiunge ed è rintracciabile (ogni tentativo cambia il gioco, dicevo sopra scherzando). Quindi cercavo di uscire da una visione “struttura” per andare verso una percezione del “processo”, come al solito, e quindi pensavo a scie sulla superficie (@bgeorg: ops) come pulci d’acqua nello stagno, toh.

E’ solo un testo che pretende per sé il suo mostrarsi più strutturato, si vuole così, e rientra nel range delle forme di narrazione. Poi se intendi scavare dentro l’Autore, sai che non posso farlo, sono sulla soglia della semiotica. A meno di non volere pertinentizzare come testo oggetto di analisi proprio quel testo dato dalla “personalità dell’autore”. per come essa viene percepita nell’enciclopedia la “rigidità” di quel testo in un luogo di testi fluidi crea contrasto, rigioca lo sfondo-figura, ci mostra particolari sfuggiti, fa sgorgare senso, sì. E possiamo essere benissimo al di là dell’intenzionalità dell’autore, indifferente qui allo scorcio (squarcio) di visione che ci permette di praticare sull’universo del discorso. Siamo qui: stiamo patteggiando tra di noi, qui in questo thread o nel nostro abitare quotidiano nella Grande Conversazione, il modello, la visione dello sfondo, il contesto da cui ben studiati sappiamo dipende sempre il senso enunciato del messaggio. Quando per prove e errori (qualcuno più su diceva “sperimentazioni”) avremo negoziato un concetto stabile (una credenza, sempre ipotetica e fallibile etc.) di come sia fatto lo sfondo (la rete, il rizoma oggi visibile, la città dei memi con metafora urbanistica, la viabilità delle idee, l’ambiente culturale connesso in cui le collettività vivono, la mente fuori di noi e tra noi, l’ecosistema della conoscenza, il bosco delle narrazioni) vedremo emergere modelli maggiormente attagliati, nativi, e non adeguamenti oltre al tuo intenzionale moltiplicare quell’oggetto culturale (bloggandone una recensione o innescando una fanfic), mi viene in mente che potrebbe essere tracciata *la tua relazione* con quell’oggetto cultura, se vuoi porzione di contenuto, se vuoi testo anche conchiuso. Se il dispositivo di lettura tracciasse (e alimentasse flussi in Rete) il tuo ritmo di lettura, le pause, l’eyetracking di cui si parlava, il sonoro ambientale che lo circonda, anche il tuo fare in Rete parallelo, e tutto questo venisse reimmesso nel calderone, potrebbe veder la luce un’opera cangiante, che mentre tu procedi lineare fruendo il testo quest’ultimo si modifica, cambia il capitolo 8 mentre tu sei al 7. Un’opera situazionale, dove il testo è un attore. Pausacaffèdelirio/off, ma quel “tetragono” mi sembrava eccessivo, chi può mai dire c’è l’opera che vive tranquilla in splendida solitudine, standalone. Può rientrare nella conversazione nei nelle recensioni, nelle continuazioni, che diventano magari col tempo dei cotesti (e potrebbero vivere di vita propria, come la letteratura sgorgata dai commentarii medievali, autonoma). E quella progettata e che vive connessa, sul bagnasciuga, con i piedini a mollo nelle onde del mare. Dal mare è nutrita, verso il mare sgocciola. Lo spime qui è dato dalla relazione testo-lettore, per ciascuno idiosincratica, capace però di confluire in certi flussi che poi possano ritornare verso l’opera, modificando il gioco, tracciando il contesto e reimmettendolo.

Piattaforme

Che Facebook sia un salotto e non una piazza, l’abbiam capito. Eppure lì dentro avvengono troppe cose rilevanti. Mozioni civiche, elaborazione opinione pubblica, messa in scena della collettività a sé stessa.

E non mi piace che avvenga là dentro.

Se per ipotesi ci fosse una piattaforma governativa, Piazza Italia etc., dove tessiamo le nostre reti relazionali, amicali e professionali. Dove se vogliamo cazzeggiamo, ma dove possiamo esprimere posizioni a casa nostra, una casa di tutti, e non a casa di qualcuno (che ci guadagna sopra). Posizioni etiche, espressioni di partecipazione alla vita sociale, anche atti linguistici più forti come petizioni o sottoscrizioni con identità certificata.

Che poi cazzeggiare verrebbe sicuramente meglio su altre piattaforme, anche commerciali, che raccolgono iscritti per affinità tematica o geografica.

Ma alcune robe serie no, le voglio pubbliche, aperte, dove tutela massima andrebbe posta nel fatto che nulla venga censurato. Dove vigono leggi, per rispettarsi. Dove Giorgio Jannis è Giorgio Jannis, che abita qui e lì a quell’indirizzo, che dice e fa, e gli altri lo sanno, e le sue parole hanno il peso del cittadino che si esprime.

Ma leggi che tengano conto nativamente che questo è un mondo senza atomi, e nell’immateriale alcune cose cambiano. Le nuove leggi che il mondo dovrà darsi nei prossimi dieci anni, per adeguarsi.

Più volte ho scritto che l”idea stessa di piattaforma mi sembra obsoleta, tutto questo dover concentrare le persone negli stabilimenti, luoghi chiusi. Uno schema di pensiero non più adeguato. E parlavo di tecnologie traccianti, per poter seguire le discussioni e le relazioni interpersonali in modo indifferente alla situazione di enunciazione, ovunque il senso appaia. Perché il mio dire, taggato e contestualizzato, troverebbe pertinenza da sé nelle varie nicchie della Rete, secondo i contenuti veicolati. Apparirebbe negli aggregatori e nelle bacheche giuste, avrebbe gambe per muoversi, vivere.

E come lo Stato arreda una piazza, così dovrebbe provvedere agli spazi sociali pubblici, perlomeno offrire luoghi di conversazione per una comunità che costruisce sé stessa dialogando, nel tempo. Dove poter fare tutti insieme progettazione sociale collaborativa, ottimizzando i territori e i comportamenti delle collettività che li abitano.

Chissà se funzionerebbe.

La gente, i milioni di persone che abitano in Rete, non fa cose facilmente predicibili. Un video o una battuta possono diffondersi in modo esplosivo, per caso, per complessità emergenti dei percorsi, secondo narrazioni mai viste. Cose pianificate e ben finanziate possono naufragare rapidamente in pochi mesi.

Ma di certo la nuvola della conversazione a sfondo civico di una intera nazione (anche oltre i confini geografici, nei linguaggi di chi paga le tasse) non può abitare su un social network privato.

#ebookfest

Su, che devo bloggare il mio resoconto del supercampconvegnofest di Fosdinovo. Anzi, rispondendo a caldo dentro un ambientino sociale, ho scritto:

… devo dirti che è andata bene. Non per l’organizzazione logistica e copertura media (avrei dovuto strimmare parecchio, e niente; però ho 50 giga di video da spammare in giro, ora) resa complicata dall’essere dentro un castello medievale, o spalmati per il borgo. Ma proprio la location ha fatto molto, secondo me, e ha creato un clima eccezionale. Non starò a farti le pippe su grammatica situazionale, contesto e semantica degli spazi, tranqui :) Però puoi immaginare, incontri in piccole stanze arredate strane, atmosfera informale, botta e risposta caldi (pensa ai migliori camp a cui hai assistito), dibattiti che dopo aver personalmente forzatamente chiuso cacciando fuori tutti a calci in culo – sennò i seminari duravano otto ore – vedevo continuare lungo i corridoi e le terrazze panoramiche del castello, nei ciarlieri capannelli di illustri e di sconosciuti. Maragliano chiacchierava con Quadrino, a Quadrino stesso in veste inedita ho fatto intervistare Roncaglia, Guaraldi che rideva forte con Maria Grazia Mattei, la quale mi prendeva in giro per la perizia con la quale le ho collegato il videoproiettore, e una tavola rotonda con Marco Ghezzi e Guaraldi che sembrava un copione di sceneggiata napoletana, per quanto era effervescente, e invece era semplicemente una bella chiacchierata tra persone competenti. E i problemi sul tavolo erano quelli grossi, amazon che arriva, mondadori e rcs che hanno rotto il cazzo, drm una cippa, cultura digitale quasi sempre ben compresa, e non imparaticcia, se non dai soliti tecnosauri prontamente litigati da tutti. Nelle loro stesse parole, nelle parole dei personaggioni, un’ottima occasione di incontro vero tra studiosi e operatori del settore. Un anno di lavoro ci aspetta, a me, Noa Carpignano di BBN, Mario Guaraldi, tutta la crew, e chissà cosa succederà nel frattempo, ma vediamo cosa riusciamo a migliorare per il prossimo anno – a esempio, speriamo che arrivi l’adsl in castello :)

Riprendendo le parole di Mario Rotta, aggiungo due riflessioni.
Molti di coloro che hanno parlato nei seminari e nelle tavole rotonde lasciavano trasparire nei loro discorsi il giusto approccio rispetto ai nuovi modelli economici e logistici innescati dalle pratiche di Rete, a esempio riguardo le questioni della proprietà intellettuale o dei DRM. Eppure sentivo mancare in loro una vera cultura digitale, per come essa sorge in chi abita in Rete per un certo tempo con una certa assiduità.
Queste persone hanno raggiunto la posizione adeguata al mutato contesto con un percorso faticoso, fatto di piccoli miglioramenti apportati al vecchio modello economico editoriale e distributivo, e quindi sia reso loro l’onore del traguardo raggiunto. Ma nelle loro parole c’erano metafore sbagliate, contesti obsoleti del discorso, da cui poi discendono quelle incomprensioni e quelle modalità di conversazione in presenza eccessivamente polemiche, in quanto poggianti su fondamenta traballanti, quando in realtà lo sfondo tutto su cui inquadrare il fenomeno dei cambiamenti dell’editoria è sempre quello delle modificazioni culturali e sociali ampie e epocali, quale quella di internet che stiamo vivendo.
Gente brava nonostante, mi viene da pensare, nonostante il loro non essere abitanti consapevoli.
Come un bambino che passa dalla macchina per scrivere al pc, che capisce quanto un programma di videoscrittura possa essere più performante rispetto alla prima, ma ancora non ha modificato il suo sguardo in direzione di un orizzonte più vasto, dove vengono ripensate le stesse pratiche umane di scrittura (soprattutto quando si lavora connessi).
Nel mio intervento durante la tavola rotonda che mi vedeva partecipante, sono stato esplicitamente provocato da Mario Guaraldi a dare una lettura “filosofica” delle questioni in ballo, e come filosofo catastrofista ho risposto: ho provato a dipingere i cambiamenti sociali radicali in atto, ho mostrato come di qui a cinque anni il mondo dell’editoria e non solo potrebbe essere completamente diverso, ho messo in guardia su quelli che infervorati asseriscono oggi cose che domani stesso potrebbero essere differenti. Ma ho chiuso con nota positiva, essendo il mio l’ultimo intervento della giornata: ho parlato dei valori della Rete, della compartecipazione della condivisione, della fiducia e della reputazione, e ho riproposto il soltio parallelo del messaggio e del contesto in cui esso cade, da cui soltanto possiamo disambiguare i significati giungendo a un senso compiuto di una frase effettivamente pronunciata, le frasi che gli editori stanno provando a dire, nel loro fare, nel fronteggiare in modo nuovo la Grande Conversazione.
“Dare and share”, come si diceva in Rete tanti anni fa: “osa e condividi”, dove gli sperimentalismi assolutamente necessari trovano risonanza e validazione nella comunità sociale dei portatori di interesse.
Le solite cose: c’è di mezzo il fatto che ci sono in giro case editrici, persone appassionate di libri e di lettura, che queste cose non le capiscono, e su questi dinosauri incombe inesorabile la Morte, mentre già piccoli mammiferi a sangue caldo, più agili e adattati al mutato ambiente, stanno conquistando il mondo.

Ebookfest, un bel po’ di gente, gustose chiacchiere

Ok, oggi si parte.
Noa Carpignano di BBN editore si è fatta in quattro e ha imbastito questa tre giorni di ragionamenti intorno al mondo dell’ebook, qui a Fosdinovo. Tanti relatori, tanti spazi espositivi, titoli interessanti per cogliere lo stato dell’arte, per lanciare lo sguardo su scenari futuri.
Il wifi non è disponibile ovunque, in paese non arriva l’adsl, però vedrò di gestire al meglio lo streaming video dei seminari importanti, cercherò di twittare o comunque di dare rapide segnalazioni sullo svolgimento.
Personalmente parteciperò a una tavola rotonda dal titolo Il futuro del libro si chiama biblioteca: biblioteche, ricerca semantica e folksonomy, insieme anche all’eccezionale Andreas Formiconi, moderata dall’inarrivabile Mario Guaraldi, dell’omonima casa editrice: proverò a dire qualcosa di sensato su alcune tendenze che vedo svilupparsi nella cultura digitale, sugli eterni atteggiamenti ambigui che adottiamo dinanzi al cambiamento.
Trovate tutto sull’evento qui http://www.ebookfest.it/.
Rock’n’roll.

Il balletto degli eventi

Mantellini segnala un bell’articolo di Vittorio Sabadin sulla Stampa, leggetelo.
L’articolo parla del balletto che avviene tra la Redazione di un giornale online e l’insieme dei lettori. 
A ogni mossa sul piano delle tematiche trattate corrisponde un passo di danza da parte dei fruitori, e viceversa ogni spostamento dell’attenzione corale di questi ultimi modifica la percezione dei redattori riguardo la notiziabilità degli eventi nonché la loro rappresentazione attraverso le forme storiche dell’industria dell’informazione (il concetto stesso di “giornale quotidiano”, il carattere tipografico prescelto, la “prima pagina”, l’organizzazione semantica degli spazi di scrittura, il tipo di relazione tra giornalista e editore). 
Questo balletto, uguale per secoli, oggi è costretto a imparare nuovi passi di danza, perché i lettori non si fanno solo trascinare passivamente, ma interagiscono attivamente con la creazione e la distribuzione delle notizie, costruiscono la propria realtà in modo autonomo con percorsi di lettura personali e idiosincratici, pronunciano pubblicamente commenti e osservazioni che insieme all’atto-degno-di-menzione originale costituiscono il testo completo, l’universo locale di discorso su un determinato argomento o su un comportamento di fruizione.
E sul digitale, posso misurare molte cose.
Mi ha colpito quell’immagine della redazione giornalistica, che alla riunione di primo mattino osserva sui monitor in tempo reale le statistiche di fruizione del sito web giornalistico, potendo facilmente tracciare i trend dei comportamenti dei lettori, la predilizione cangiante per questa o quell’area di contenuti nel corso dell’ultimo mese o dell’ultimo anno.
Pensate a questa comunicazione bidirezionale, dove feedback e messaggio non han più senso forte di differenziazione (non ha senso azione e reazione) perché sul puntuale potrei stabilire una linea cronologica degli eventi, dalla notizia ai commenti e quindi la parola di nuovo ai giornalisti, ma in realtà se solo provo a pensare in termini “ambientali” quello che emerge è il dialogo incessante nel tempo dell’opinione pubblica, il calderone di quello che val la pena sia narrato, una scena dove il pubblico che fino a ieri poteva solo sbraitare o spedire lettere al direttore, ma certo non argomentare dignitosamente, è diventato un autore e un attore a tutti gli effetti.
Di gusti pessimi, peraltro, perché madimmiunpotu a guardare quelle statistiche sui monitor del traffico web pare emerga che il popolino sia soprattutto interessato a puttanatine, boxini morbosi, gossip finto ma comunque flamboyante e bombastico (che parole strane), caratteri cubitali, strilloni e imbonitori.
Qui va a finire, questo il problema evidenziato dall’articolo di Sabadin, che la Redazione segue pedissequamente le aree tematiche più visitate, moltiplicando le percentuali delle puttanate, e quindi si innesca la spirale nera, il gorgo della mediocrità che trascina tutto verso il basso. Il balletto si avvita in un corpo a corpo prevedibilissimo, stereotipato e sguaiato. 
Certo, il ragionamento dice che siccome è tempo di crisi gli editori dell’informazione fanno spallucce alla deontologia professionale, vedono branchi di pesce, buttano la rete a strascico che tira su tutto, usano esche facili per lettori di bocca buona. Così fanno traffico, e si fregiano e ottengono soldi per quei numeri da vantare presso gli inserzionisti, si concentrano sulle tette della sciantosa di turno e di quelle tette raccontano fotograficamente le gesta sui palcoscenici mediatici.
Per una volta, non sto qui a ragionare di cosa si potrebbe fare per migliorare la qualità di vita di una collettività, portandola a leggere e commentare cose più nobili e utili a tutti come l’economia o la politica o i ragionamenti per aumentare il benessere del nostro abitare i territori; per queste cose esiste la Scuola e l’educazione, e sono cambiamenti profondi da concepire in ottica generazionale.
Quello che non si può confutare è la fotografia della società italiana, per come emerge dai flussi di frequentazione e partecipazione al mondo dell’informazione, e stiamo parlando di milioni di persone, delle loro scelte e dei loro comportamenti. 
E’ notorio come in italia, a guardare le percentuali di analfabetismo di ritorno, la propensione a fruire cultura (libri o eventi, cinema o quotidiani) sia ridicolarmente bassa, da vergognarsi, e il cittadino medio italiano è più stupido e ignorante di quanto pensate. Ok.
Mi preoccupo più di questa deriva al peggio da parte dei professionisti, mutuata dai meccanismi profondi dell’ambiente stampa-televisione (broadcast) che però oggi su web non si rivelano adatti, e anzi fanno scorgere in loro l’incapacità di pensare i nuovi Luoghi della socialità e in particolare quelli dell’informazione e della narrazione del mondo in modo adeguato ai tempi e al mutato contesto ecologico.
E quindi il giornale deve parlare di tutto, come se noi frequentassimo solamente l’edicola del paese e avessimo soldi e tempo solo per un quotidiano, dove il supporto cartaceo continua a pre-ordinare la mentalità dei confezionatori di notizie con le sue regole, dove le dinamiche televisive portano ancora l’attenzione alla quantità.
Ma non abitiamo più, noi e i contenuti culturali, in un ambiente dove le risorse sono limitate, e quindi in una economia che strutturalmente precondiziona l’esistenza solamente di un certo numero di attività editoriali, di testate giornalistiche, lasciando al tempo e alle pratiche umane l’individuazione di quel punto di equilibrio tra domanda e offerta di contenuti culturali o riguardanti gli accadimenti. 
Il gradino del cartaceo, ovvero quel salto che separa le parole pronunciate dalla loro diffusione di massa su un supporto più performante della voce, non costituisce più un ostacolo, e scomparendo rende obsoleto il proprio essere una sorta di filtro selezionatore, che nelle cose determina cosa meriti la pubblicazione e cosa possa restare flatus vocis.
Oggi tutto può essere pubblicato, ogni singolo pensiero dell’umanità, ogni chiacchiera ogni conversazione, ogni atto videoripreso, spontaneo o costruito; siamo tutti autori e lettori, il nostro fare contribuisce alla realizzazione collettiva dell’arazzo della società e della socialità, variopinto come mai e sempre cangiante.
E c’è oggi lo spazio per alloggiare tutta questa massa di contenuti, non siamo limitati a qualche migliaio di pagine di giornale. Non abbiamo limite.
Quindi è inutile, come in tempo di carestia dei supporti della conoscenza, che ciascun nodo si senta in dovere di coprire molte aree tematiche, per poi baruffarsi i clienti e ingraziarseli con manovre di basso ventre.
In una visione ecologica, possono esistere diverse realtà, specializzate in differentissime nicchie, e il lettore nelle sue traiettorie di partecipazione mediatica soggiornerà qui e là, nel suo abitare nomade.
Ma una cosa i giornali potrebbero fare, quelli che intendono fare informazione e nutrire l’opinione pubblica in maniera seria e consapevole: togliere tutti i boxini morbosi.

Risponde l’esperto in studio

Ucchequasimidimenticavo. 
Saran venti giorni che su Radio Onde Furlane (qui su Facebook) stanno andando in onda delle conversazioni tra me e il Diretôr Mauro Missana, dei piacevoli botta e risposta sulle tematiche della Cultura digitale. Sui cambiamenti che le innovazioni tecnologiche stanno apportando alla nostra vita quotidiana, in particolare, nella socialità e nelle istituzioni.
Abbiam parlato di Pubblica Amministrazione, di Scuola, dei nuovi modelli di funzionamento dell’editoria e del mondo dell’informazione giornalistica, di digital divide e di potenziamento della partecipazione delle collettività alla pubblica opinione, dell’industria culturale al tempo dell’mp3 e delle webtv.
E di altro, immagino: avevamo registrato sedici interventi di circa dodici minuti l’uno, all’inizio di agosto, che poi sono stati trasmessi da Onde Furlane il venerdì e il sabato mattina, per tutto agosto. Potete ascoltare le ultime puntate in questi giorni, anche in streaming dal sito della radio, verso le 10.30 di mattina.
Poi vedrò di recuperare le registrazioni e magari le metto da qualche parte.
E’ già previsto un ulteriore ciclo di chiacchierate, ne parliamo a metà settembre. La radio è cosa meravigliosa.

Giù nel calderone

Oh, quanto si litiga, in Rete. 
Qui urge ricercar qualche riflessione sui ruoli attoriali nelle situazioni di flusso, e vedere se ci sono novità in qualche sistematizzazione microinterazionista delle posizioni dei parlanti negli ambienti digitali, quelli più votati alla conversazione interpersonale. Una volta notoriamente lo spazio commenti sui blog, prima ancora i newsgroup e le stanze di chat. Ma a me quei ragionamenti su ruoli e leadership circolante son venuti un po’ a noia, benché siano grammatiche utilissime per comprendere cosa stia succedendo nella situazione enunciativa. 
Si potrebbero trovare dei rivestimenti figurativi diversi per connotare i personaggi, e raccontarci la storia di una suddivisione secondo correnti filosofiche, per distinguere i parlanti.
Stoici, nominalisti, realisti, materialisti, esistenzialisti.
Se c’è Candido l’integrato, c’è anche Diogene, quello che piscia sulla gente, quello iconograficamente reso con la botte, col lanternino in mano a cercare l’Uomo vd. l’Essere umano, nella versione correct del 2010. Cinici , certo. In prima battuta si fan notare, cinici in senso moderno come freddezza (cool), distacco, bastardaggine inside, manifesta immoralità, iconoclastia, due spruzzi di blasé e una fetta di flâneur, ma tengono vivo il dialogo, cosa vuol farci signoramia? 
Se si vuole fare gli opinion leader in quel dire pubblico che riguarda la definizione negoziata e patteggiata di cosa sia la realtà (i giornalisti, i politici, gli opinionisti) raccomando almeno un sano fact-checking come atteggiamento costante, e una scorsa a cosa possa essere inteso con la locuzione “critical thinker”, vedi qui qui e qui su wikipedia, dove criticare vale distinguere, e avere una teoria significa sapere di abitare il nostro sguardo, che nessuno può avere uguale (è il nostro punto di vista), e per raccontarlo agli altri è meglio comportarsi in un certo modo.
Come emergono ora i “commentatori pubblici”, gli opinion maker del 2015? Un giornalista si faceva notare per la lucidità dei suoi articoli, e da qualche centinaio di persone per il proprio carattere, negli scambi interpersonali. Dalla Rete emergeranno delle personalità, che si son fatte notare per le loro competenze specifiche su un tema o per il loro stile conversazionale (ci vuole più pluralismo, il cinismo da solo stucca, volevo dire), per la padronanza del contesto enunciativo su cui furoreggiano attirando fan e like, per la spreadability del loro dire. Che chissà se si riuscirà mai a capire le tendenze secondo cui qualcosa diventa spreadabile, il passaparola è ineffabile/impredicabile/indicibile/indecidibile, la serendipity sguazza, i meme s’ingrossano senza motivo. Rivoli modaioli, nel grande flusso del Fiume che tutto trascina.
Quello che vediamo è un panorama differente, dove elementi del paesaggio webbico (i Luoghi digitali) vanno interpretati secondo linee diverse, nel rispetto della loro ecologia. E dove conseguentemente il dire e il fare dei personaggi web (blogger, opinionisti, giornalisti, esperti, formatori e docenti, urbanisti digitali, scrittori, poeti, fustigatori dei costumi) assume un senso nuovo, mai sperimentato dalla specie umana, nel permetterci di comprendere (nel 2015) i percorsi, le tracce. Tutte la facce assunte nella linea dei loro comportamenti, tutto documentato nei loro stessi lifestraming. E l’oblio, e la privacy, e i Luoghi conversazionali, e i gruppetti che si spostano di qua e di là, scherzando tra loro per anni e anni.
Quelli che poi al bar o in un salotto possono essere o più quieti della loro persona digitale, o più turbolenti, o uguali. Che tutti connessi sempre, vuol dire che finalmente quelli quieti potranno parlare forte e a lungo, e inondare il web di punti di vista. Magari domani riusciremo a descrivere per bene il punto di vista di una collettività, quell’insieme statistico eppure dinamico di una visione del mondo, non unitaria ma anzi policroma, come una fune fatta di mille trefoli, tutti punti di vista dell’opinione pubblica, le correnti maggioritarie rispetto alle grandi idee di cosa sia civile e cosa non lo sia. 
In questo bell’articolo Mario Rotta paventa un peggioramento della Rete, nella qualità del tessuto con cui la rivestiamo abitando quotidianamente su web, trascinati da dinamiche efficientiste o da modi di fare ricavati dalla pubblicità, dalla comunicazione orientata, e non più liberi secondo i valori stessi su cui la Rete è stata creata e che tuttora la animano. Questi aspetti di orizzontalità della Rete non sono ben visti dall’industria della pubblicità e dell’orientamento al consumo e dalla gestione del consenso, che quindi tentare di entrare nel web con le sue vecchie logiche verticali di comunicazione direttiva, uno-a-molti, senza in realtà praticare né comprendere il modello conversazionalista, il web basato sull’User Generated Content e l’habitat sociale vivo dove gli eventi accadono.
Sono cambiate molte cose qui sul web, ora ci sono milioni di persone in italia che quotidianamente fanno un gesto qui dentro. Teniamolo presente a noi stessi, questo sentimento del Settembre Eterno, che tutti prima o poi sperimentiamo, anche più volte.
Segnalo anche questo piccolo saggio di Antonio Sofi, sulla moderne strategie di comunicazione politica, perché leggendolo in controluce ci dà le coordinate per meglio nominare certi fenomeni indotti dalle buone prassi comunicative della Rete, riversate nella progettazione di interventi territoriali concreti, azioni politiche per l’ottimizzazione del territorio e della comunicazione con la collettività che lì risiede. Senso e territorio, ascolto e condivisione, trasparenza.
Facendo lo stesso giochetto, utilizzare i risultati di un ragionamento altrui come materiale base (un “semilavorato”, ma in altra linea progettuale) per comprendere i nuovi centri di aggregazione del senso, leggete questo interessante scritto di Fabio Giglietto, dedicato a Lost e ai sette principi del transmedia storytelling, dove le descrizioni di nuovi assi semantici dell’universo del discorso Spreadability vs. Drillability, Continuity vs. Multiplicity, Immersion vs. Extractability etc. permettono a noi di capire come le linee di senso organizzato (le isotopie interpretative, in gergo) che gettiamo sul flusso degli eventi per catturarlo e coglierlo appieno, nel mutato contesto propulso della Cultura digitale, vadano oggi rieducate a uno sguardo trasversale, aggregativo, nella capacità di radunare pezzi di storie sparsi per molti media diversi, con personaggi complessi, osservando attentamente lo snodo con il contesto ambientale situazionale (fisico e/o digitale) where the action is.
Quei Luoghi di creazione e mantenimento dell’opinione pubblica che tra cinque anni determineranno cosa sia da definirsi Realtà (le parole con cui penseremo, i punti di vista con cui guarderemo) stanno nascendo oggi, tutt’intorno a noi.
Come sono fatti questi Luoghi di socialità digitale, come agiscono, chi li anima, che stile di narrazione adottano, attraverso quale percorso di prove e errori giungono a formarsi compiutamente, come specie viventi che nel dialogo con il mutato ambiente adattano il proprio corpo e la propria mente e i propri comportamenti per meglio adeguarsi alla nicchia ecologica di riferimento, e altre domande.
UPDATE: un articolo sulla Stampa, L’autore-cyborg, una intervista di Artieri a Thierry Crouzet, su argomenti proprio attinenti.