Quest’interfaccia non mi è nuova

Ne parlava anche Pierre Lévy, ma la suggestione arriva da più lontano. Noi siamo interfacce, parti del nostro corpo sono delle interfacce, come gli occhi e il naso e i sensi, ma anche come i polmoni, la pelle. Anche le stazioni e gli aeroporti sono interfacce, in scala socioterritoriale. Ma per restare sull’individuo, anche gli organi genitali sono interfacce. Tutte cose che trasportano traducono connettono, e in quanto in tal modo o tal altro conformate contribuiscono a dare senso alla relazione (interumana, o uomo-macchina) che veicolano, lasciano tracce di “semantica naturale” nella semiosi che poi innescano, nell’interpretazione degli eventi.
Stazioni ferroviarie architettonicamente differenti organizzano diversamente i flussi di socialità al proprio interno, e fondano esperienze-utente affettivamente e cognitivamente differenti, nella relazione con gli altri e con il mondo.
L’usabilità di un software può decretarne il successo, molto più della sua effettiva efficacia come strumento per produrre/distribuire documentazione o operatività; il merito è di chi ha disegnato l’interfaccia grafica.
La conformazione fisica dei nostri organi sessuali ha portato molte culture a fondare dicotomie assiologiche forti tra penetrazione/ricezione, attivo/passivo.

Eppoi, come dire, ciascuno di noi conosce bene la propria interfaccia gonadica, ci giochicchiamo da sempre. Vi è dimestichezza, comodità psicologica all’interazione, feedback. La mia mano conosce il mio pisello, lo ammetto. E tu donna che leggi, la tua mano conosce la tua patata, è indubbio.

Andate a vedere il video qui, da MailofDay, poi tornate.

Ecco quindi che il joystick dei videogiochi assume decisamente forma fallica, e ne replica le modalità d’interazione classica, ovvero andare su e giù con la manina.
La curva di apprendimento è un concetto obsoleto, nessuno può dire di trovare ostica l’interfaccia.
Immagino si possa realizzare anche la versione “patata”.

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