Identità digitale, socialità in rete, progettazione di ambienti

L’aula scolastica è l’ambiente dove ha luogo la situazione sociale di apprendimento, e non è un luogo neutro. L’arredamento, la disponibilità di supporti alla didattica, perfino il colore diverso della tinteggiatura delle pareti potrebbe modificare nei partecipanti la percezione dei flussi comunicativi gruppali tramite cui avviene apprendimento. Facebook non è uno strumento, è un ambiente. Non è certamente neutro, non è trasparente, e non è il più indicato per attività didattiche. Non è nemmeno un luogo democratico. Quale messaggio di educazione alla cittadinanza digitale ‘passerebbe’ agli allievi? Dov’è la capacità critica degli insegnanti, nel valutare innanzitutto gli stessi (oggetti, parole, libri, strumenti, situazioni, ambienti) supporti alla conoscenza?

Ok, dopo aver reiterato i miei dubbi per le attività didattiche che certi insegnanti (persone che sono arrivate in Rete ieri, evidentemente, e si comportano come bambini in un negozio di giocattoli) svolgono dentro Facebook, procedo con una di quelle liste di segnalazioni che talvolta metto giù per prendermi degli appunti.

Avete presente quando si dice che il web è un posto caldo, fatto di relazioni? Ne parlava il buon Livraghi anni e anni fa. Beh, siccome il web moderno è definito social web, ecco che un tot di sociologi e antropologi e social designer e media strategist e narratologi specializzati nelle dinamiche affettive delle conversazioni e delle strategie identitarie dei gruppi (ehm) stanno provando a individuare le peculiarità delle nuove forme di socialità su web.
Ad esempio, visto che il passaparola è fondamentale per l’evoluzione della specie umana, quando mi serve qualcosa a chi posso chiedere? Ecco uno schemino per una esplicitazione delle competenze digitali secondo una sorta di prossemica sociale.

L’altro giorno dovevo augurare buon compleanno a un tipo. La domanda era: dove? Si tratta di una mia conoscenza di tipo professionale, ma abbiamo condiviso anche momenti informali con buon feeling interpersonale. Telefonargli a casa, telefonargli al cellulare, sms, facebook, altri social network, strumenti di lifestreaming tipo Friendfeed, mail? In occasione dei rituali più strutturati, la competenza sulla scelta del mezzo e sul tono da tenere risulta decisiva, perché in quei casi la situazione comunicativa dice ben più del messaggio stesso. Non è importante cosa si dice agli sposi o a un funerale, le frasi sono sempre quelle, assai più importante è compredere la grammatica dei tempi e dei modi, per evitare gaffe. Codici, sissignori. Possedere i codici interpretativi della circostanza e delle aspettative altrui, secondo cultura di appartenenza.
Nel caso di ambienti online, queste diventano appunto competenze digitali, che non c’entrano nulla con l’alfabetizzazione informatica, tanto quanto – vecchio parallelo – saper come funziona un motore quattrotempi o come si cambiano le marce (cultura tecnologica, consapevolezza dell’interfaccia) in un’automobile ha poco a che fare con il sapersi comportare in autostrada.
Nel mio caso personale, dovendo anche per lavoro portare in superficie queste grammatiche di socialità digitale inespresse che molti di noi dopo molti anni in rete possiedono senza saperlo, sono riuscito ad appoggiarmi a dei ragionamenti per stabilire quale fosse il giusto media da utilizzare.
Per rifarmi al caso degli insegnanti sopraespresso, non sono sicuro della loro capacità di far chiarezza in se stessi rispetto all’adeguatezza degli ambienti di socialnetworking, soprattutto in relazione alla specificità della didattica e dell’organizzazione scolastica.

Piercesare Rivoltella offre sempre riflessioni interessanti: qui su Medialog ragiona su autonomia e narrazione, in occasione di un seminario dedicato a “Media, storia, cittadinanza”. In particolare, Rivoltella organizza il suo pensiero sulle forme della socialità digitale intorno a tre coppie di termini: sfera pubblica / sfera privata, apprendimento insegnato / apprendimento non insegnato, autonomia / eteronomia.
Sempre su Medialog, in aprile, un bel post provava a “riflettere sulla necessità di dare risposte da parte della scuola agli aspetti che riguardano l’uso sociale dei nuovi media. Tra i tanti, l’economia dell’attenzione che essi comportano (diversa da quella implicata dalel forme più convenzionali di comunicazione) e la pluricollocazione nello spazio e nel tempo dei soggetti”. Interrogandosi sul rapporto esistente nuovi media, educazione e cittadinanza, Rivoltella descrive tre cornici: il frame alfabetico; il frame critico; il frame autoriale. Tre approcci differenti (ma da intendersi forse come sfaccettature della stessa realtà) da tenere in considerazione per una scuola che intenda far ragionare le nuove generazioni sulla partecipazione alle forme di cittadinanza digitale, che va da sé non può essere disgiunta da una seria Media Education.

Ragionando di identità personale, ecco un articolo di Luciano Floridi da “Philosophy of information”

“Who are you online?” is a question with enormous practical implications, and yet, crucially, individuals as well as groups seem to lack a clear, conceptual understanding of who they are in the infosphere and what it means to be an ethically responsible informational agent online.

Qui trovate invece qualcosa per ragionare di integrazione tra network di sensori e network sociali, per meglio provvedere informazioni di contesto. Stiamo già parlando di socialità dentro la Internet delle cose (vedi anche qui e qui per argomenti attinenti).

La Microsoft ci racconta dell’utilizzo di tecnologia per i mercati emergenti: “The research in this group consists of both technical and social-science research. We do work in the areas of ethnography, sociology, political science, and economics, all of which help understand the social context of technology, and we also do technical research in hardware and software to devise solutions that are designed for emerging and underserved markets, both in rural and urban environments.”
Ad esempio, coinvolgere agricoltori in progetti di educazione informale alle tecniche di coltivazione mediante l’utilizzo di video digitale; usare interfacce utente di tipo non testuale, per popolazioni non alfabetizzate, elaborando con supporto di studi etnografici alcuni principi per il design; studiare pc multi-utente; creare reti sociali tra microimprese; avviare interventi di miglioramento in campo sanitario, supportati da utilizzi avanzati di tecnologia a basso costo.

Molte delle riflessioni riguardano la centralità di una progettazione (delle reti informatiche, delle interfacce, dei luoghi di comunicazione pubblica per imprese o pubbliche amministrazioni, delle organizzazioni lavorative, delle architetture di informazioni) che sia in grado di porre l’utente al centro dell’approccio speculativo. Anzi, qui non si tratta più di progettare l’interazione con l’utente, ma proprio di ragionare sulla progettazione dell’esperienza dell’utente, quella che in gergo viene detta UX, ovvero User Experience, l’nsieme dato dalle componenti cognitive e patemiche nella “convergenza tra design digitale e industrial design, tra hardware e software, tra applicazioni e servizi, che a volte sfocia perfino nella progettazione degli spazi (interni ed esterni) in cui l’esperienza avviene. In questo caso la sfida più grossa è quella della multicanalità e della multidimensionalità dell’esperienza, e di quelle che Joel Grossman chiama “esperienze ponte”. Tutto questo lo trovate su questa pagina di UXmagazine.

Cosa vuol dire progettare l’esperienza utente? Ci sono tante risposte. Storicamente è un’attività strettamente connessa allo User Centered Design, da cui ha tratto filosofia di base, metodi e strumenti. Qualcuno la definisce mettendo insieme le competenze o gli ambiti disciplinari che concorrono al progetto (Steve Psomas), oppure elencando cosa non è. Qualche anno fa Peter Morville propose un modello con sette facce che descrivono le qualità dell’esperienza utente . Più recentemente Nathan Shredroff ha proposto un modello simile basato su sei dimensioni.

In realtà, in tempo di socialnetwork, qualcuno sta giustamente pensando di passare da un “user-centered experience design” a un “group-centered experience design”, proprio perché appare sempre più chiaro (per via dell’emergere alla visibilità di questi processi finora immersi nella complessità, grazie ai socialcosi) che le linee dei comportamenti sociali digitali – il marketing virale, la diffusione dei memi, i meccanismi del passaparola, la status-sfera, la folksonomia degli oggetti culturali di qualità, le reti relazionali umane – dipendono dalle dinamiche dei gruppi online, dalla loro capacità di essere organizzatori di senso, o banalmente trend-setter, in grado poi di connotare con la loro sanzione esplicita, positiva o negativa, una configurazione riconoscibile delle conversazioni online con una veste di “accettabilità” o di “novità” o di “sei out se non sai/fai questo o quello”. Per dire, il meccanismo in Facebook è riconoscibilissimo, nella circolazione delle appartenenze ai gruppi e nei dispositivi di condivisione delle informazioni, anche se viene persa la significatività specifica a causa del calderone in cui tutto viene riversato, della cornice onnivora che vampirizza il senso delle singole discussioni, livellandole verso il basso (il famoso cazzeggio).

Qui su Ibridazioni (ne parla anche con buoni esempi Alberto Mucignat) c’è una proposta di riflessione (un bel documento da scaricare) sulla progettazione basata sull’esperienza gruppale, a partire da un design di tipo motivazionale, fondato quindi sugli utenti e non sulle piattaforme, ad esempio per avviare ambienti sociali per le organizzazioni lavorative:

La nostra proposta metodologica si fonda su quattro concetti chiave:
1. Bisogni Funzionali: gli obiettivi di progettazione rivisti in chiave di necessità.
2. Usabilità Sociale: l’usabilità rivista in dinamica sociale (partendo dalla definizione di Nielsen).
3. Motivazioni Relazionali: il concetto di motivazione rivisto in chiave relazionale (one-to-one e sociale).
4. Flusso di Attività Circadiano: ovvero le attività abituali delle persone durante la giornata.

Fra queste, le componenti caratterizzanti sono, come intuibile, Usabilità Sociale e ancora più Motivazioni Relazionali. La prima definisce quattro proprietà RICE: Relazioni interpersonali, Identità, Comunicazione ed Emergenza dei gruppi, mentre la seconda quattro motivazioni CECA: Competizione, Eccellenza, Curiosità, Appartenenza.

Il Design Motivazionale si applica sia ai Sistemi a Social Newtwork presenti nel Web che alle Intranet e Community Aziendali che vogliono sfruttare le nuove prassi collaborative che si sono evolute nel Web 2.0 (l’ormai nota Enterprise 2.0).

I ragionamenti sulla condivisione della conoscenza nelle organizzazioni aziendali (Enterprise 2.0) sono certo fondamentali, ne parla anche RobinGood qui, dove la Torre (gerarchia e verticalità) incontra la Nuvola del bottom up e delle relazioni orizzontali.

Putting People First riporta l’attenzione sul service design, grazie alla segnalazione di un articolo scientifico di Daniela Sangiorgi, dove si prova a ristabilire una prospettiva basata sulla considerazione dell’interfaccia (da intendere come l’intera situazione dove l’esperienza ha luogo), rispetto ai “prodotti” di un’attività di design, nella definizione di servizi, dove soggetti azioni norme ruoli e artefatti vanno tutti considerati senza troppo spezzettare lo sguardo, per una comprensione più ampia dei fenomeni, e soprattutto in ottica groupware.

Alla base di molti approcci scientifici recenti allo studio delle socialità in Rete e della human-computer interaction (qui il link per il blog di Luca Chittaro – direttore dell’HCI Lab dell’Università di Udine – su Nova100 ilSole24ore, vi è indubbiamente quella che viene definita “Activity theory” (vedi Wikipedia)

Activity theory is a psychological meta-theory, paradigm, or framework, with its roots in the Soviet psychologist Vygotsky’s cultural-historical psychology. Its founders were Alexei N. Leont’ev (1903-1979), and Sergei Rubinshtein (1889-1960) who sought to understand human activities as complex, socially situated phenomena and go beyond paradigms of psychoanalysis and behaviorism. It became one of the major psychological approaches in the former USSR, being widely used in both theoretical and applied psychology, in areas such as education, training, ergonomics, and work psychology [1]. Activity theory theorizes that when individuals engage and interact with their environment, production of tools results. These tools are “exteriorized” forms of mental processes, and as these mental processes are manifested in tools, they become more readily accessible and communicable to other people, thereafter becoming useful for social interaction.

Ora metto un paio di fotografie. Si tratta di anziani in casa di riposo che usano la Wii Nintendo.
Ne trovate altre qui: occhio che è un sito che contiene anche robe pornelle :)

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