Brevettare l’umano

Il design che ricorre a una semiotica naturale, si sarebbe detto. Quel mondo là fuori e qui dentro la mia testa e su di me senza soluzione di continuità, quel mondo che è già linguaggio e narrazione per le sue qualità sensibili – fisiche, biologiche, chimiche. Pensate al famoso gesto cinematografico di utilizzare un osso come protesi del braccio, e colpire con più forza, un gesto vecchio di qualche milione di anni, che nasce nel dialogo tra sviluppo corporeo e habitat naturale, è come una frase nel discorso della specie umana rispetto all’ambiente di vita di questo pianeta. Impugnare qualcosa per l’uomo è naturale, e il pollice opponibile è proprio una nostra caratteristica (non siamo gli unici), e le forme del fare che una mano permette hanno condizionato nei millenni il nostro pensare, vadasé.
E se vedo una foto piccolina sullo schermo di un smartphone mi viene abbastanza naturale provare a ingrandirla stiracchiandola con due dita. Come se fosse di pongo, elastica. L’ho già fatto con altre cose, nel corso della mia vita. Si può fare certo in altri modi, dipende da quale concetto guida la tua mano, per come il nostro vivere in un ambiente naturale e sociale dipenda dalle metafore del “funzionamento” della realtà che abbiamo appreso. Esistono le porte, esistono i cardini le maniglie le serrature le chiavi. Impariamo, fissiamo il senso nelle credenze (il destino di ogni segno), automatizziamo il fare nelle abitudini, ne ricaviamo pattern di comportamenti a cui diamo vita, nell’occasione, con il nostro corpo. Un mondo significante, che giunge a noi già significante, impastato di natura e cultura.
Una volta c’erano i carri, e chi li guidava teneva le redini per gestire i cavalli. Un oggetto millenario, il morso è un’invenzione, stringhe di cuoio comode e efficienti, per gestire un cavallo. Poi è arrivata l’automobile, e chissà perché si è deciso di utilizzare un volante come interfaccia per le azioni di sterzo. Oppure due leve, o una cloche, quello che volete. Tanto sono tutte macchine che realizzano tecnologicamente una metafora e un modello di intervento sulla realtà, e ci risultano facili da apprendere, proprio perché basate su semiotiche del mondo naturale. Alto-basso, destra-sinistra, vicino-lontano. Un volante, tondo, che gestisce in modo analogico l’angolo di sterzata delle gomme, e un bambino di due anni non ha difficoltà a gestire la complessità cognitiva e motoria del gesto.
E nessuno che io sappia ha provato a brevettare il volante.
Mentre qui ora si brevettano i gesti, dice Luca DeBiase. I gesti diventano proprietà.
Le interfacce diventano trasparenti perché vanno a cercare i gesti nelle grammatiche del corpo, e picchiettare o zoomare con due dita sono i fonemi o le sillabe del linguaggio della mano, come stringere a pugno o ruotare o afferrare o indicare. Siamo vicini alla soglia bassa della semiotica, dove la cultura si scioglie nel fisiologico, a sua volta frutto di un dialogo con l’ambiente della nostra forma di vita, dei nostri geni. 
Credo si potrebbe arrivare al “darsi al mondo”, al nostro essere gettati in una vita, con un corpo. E quei gesti diventano manipolazione del mondo, e quindi segno, e quindi valore. Universale, perché credo nessuno sul pianeta abbia trovato assolutamente inconcepibile l’operazione di zoomare con due dita.
E insomma, non si brevetta questa roba qui.

Ma se i gesti naturali possono diventare proprietà intellettuale vuol dire che qualcosa sta andando storto.

Il punto è che la proprietà intellettuale è diventata un campo sofisticatissimo nel quale si intrecciano brevetti e copyright, marchi e segreti industriali, storytelling e pubblicità. Ogni nuova piattaforma digitale è in realtà un mondo di senso, abilitato da funzionalità tecniche ma utilizzato in base a una metafora che a sua volta discende da un’identità e una narrazione e si comprende solo attraverso un design. Non se ne esce facilmente.

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