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Sempre SchoolbookCamp: le videointerviste

L’altra settimana al convegno di Fosdinovo, usando il cellulare come videocamera, ho fatto delle rapide interviste ad alcuni partecipanti ponendo tre domande tre.

Si trattava di indagare quali cambiamenti tecnologici e socioculturali abbiano reso significativa la proposizione di un evento barcamp dedicato all’e-book e all’editoria scolastica, quali posizioni fossero emerse dagli incontri, quali indicazioni il convegno stesso poteva dare per suggerire le azioni da intraprendere nel futuro, per un utilizzo adeguato dei testi digitali su supporto elettronico negli àmbiti della scuola e della formazione alla persona, per una riflessione tematiche inerenti i modelli economici dell’editoria elettronica, l’introduzione dell’e-book a scuola, le comunità professionali online.

Ho posto queste domande a Noa Carpignano della BBN Edizioni, ad Agostino Quadrino della Garamond, a Mario Guaraldi per la omonima casa editrice, a Marco Guastavigna insegnante e autore di testi sull’apprendimento, a Gianni Marconato quale operatore nel settore della formazione; ne esce certamente un quadro interessante e variopinto.

Il video è lunghetto, 25minuti, però ha un andamento abbastanza rapido.

Se siete interessati a partecipare ai ragionamenti sull’e-book e l’editoria scolastica, qui sulla community Ning di BookCamp trovate il gruppo SchoolbookCamp.

SchoolbookCamp a Fosdinovo. Videointerviste from Giorgio Jannis on Vimeo.

Web20: politiche e prassi della comunicazione politica

[Post lungo, ma spero sufficientemente discorsivo. Oggi i ditini correvano sulla tastiera, e come sapete quello che si scrive in venti minuti abbisogna di due ore di tempo per essere presentabile. Oggi avevo mezz’oretta.
“Se avessi avuto più tempo, avrei scritto una lettera più breve.” Marco Tullio Cicerone, filosofo e politico.
In ogni caso, paragoni irriverenti a parte, in fondo al post trovate dei link per interessanti documenti sul tema de “La Pubblica Amministrazione e il web 2.0]

Norberto Bobbio e Giovanni Sartori ci hanno insegnato che la democrazia è soprattutto un insieme di regole, un insieme di procedure che consentano la libera scelta dei governanti da parte dei governati. Questo è il nucleo minimo fondante senza il quale, giusta la lezione dei fondatori della politologia italiana contemporanea, discorrere di democrazia è esercizio retorico, quando non fuorviante. L’esistenza di questo nucleo minimo di procedure democratiche rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente affinché si consolidi e si sviluppi una democrazia e, a maggior ragione, una democrazia di qualità. Alle procedure della democrazia, infatti, vanno aggiunte quelle dimensioni di contesto che ne rendano effettiva l’applicazione. Se è vero che i governi democratici possono scaturire solo dalla corretta applicazione di procedure democratiche, purtroppo non è vero l’inverso: l’esistenza di regole democratiche non ci garantisce mai completamente dall’utilizzo perverso delle medesime.
(Marco Almagisti, su ComunicatoriPubblici)

Certo, la democrazia è una tecnologia.
Tecnologia abilitante, si suole dire oggidì. Tutte le tecnologie sono in realtà abilitanti, perché un telaio tessile del neolitico non solo permette di costruire tessuti, ma anche di pensare meglio alla progettazione dei vestiti, tanto quanto un computer connesso non è solo uno strumento per redigere documenti come la macchina per scrivere, ma consente una raffigurazione mentale e proiezioni operative migliori delle nuove forme di abitanza delle collettività umane, come nel caso delle suggestioni offerte dai ragionamenti sulla cittadinanza digitale.
Le collettività umane sono da sempre interconnesse tramite strade, semplicemente le moderne reti telematiche fanno emergere e rendono visibile la socialità su scala planetaria, e la loro maggior efficienza nello scambio di informazioni (sincronia, multimedialità) permette al pensiero di immaginare prima e di sperimentare poi miglioramenti qualitativi nelle forme dell’abitare umano, anche rispetto alle forme di governo, sempre storicamente deterninate, di cui le collettività intendono dotarsi e ai meccanismi del loro funzionamento pratico.
Se le strade fossero ancora in terra battuta e non ci fosse il telegrafo, la dimensione delle province italiane sarebbe diversa, tanto per dire, perché vi sono dei limiti nell’estensione geografica che è possibile amministrare efficacemente senza una dovuta organizzazione, tant’è che l’impero romano possedeva un sistema di posta a cavallo ineguagliato fin quasi l’Ottocento.

Torniamo alla democrazia. Vi è una domanda in noi in quanto collettività che riguarda le modificazioni dell’ambiente interumano in direzione di forme di governo rappresentativo e di giustizia sociale, e la democrazia è uno dei modi possibili per rispondere al come organizzare le strutture sociali di potere, controllo e promozione culturali e economiche (quest’ultimo termine da oikòs nomòs, ovvero “le regole della casa/ambiente”, acconcia amministrazione, cerchiamo di non dimenticarcelo).
Poi la tecnologia, in quanto attività tutta umana, veicola necessariamente valori ed è valore in sé, e la Storia ci porta oggi a considerare appunto la democrazia stessa come un valore in cui credere e da difendere, almeno dalla Rivoluzione americana e francese in qua, in quanto forma di governo preferibile.
Il perché sia preferibile risulta abbastanza semplice, una volta indagate le assiologie valoriali soggiacenti al pensiero che pensa in che modo certi uomini debbano governare altri uomini, e giungendo così a comprendere come la democrazia, grazie ai suoi meccanismi di funzionamento, offra maggiori garanzie nel rispetto del valore dell’uguaglianza sociale – una testa un voto, e nessun feudatario accede a verità più profonde in virtù della sua ricchezza, né possiede per status o ceto maggior ragione per governare gli altri – e al valore della partecipazione soggettiva alle riflessioni e alle scelte politiche nella gestione della cosa pubblica, in direzione di una maggiore qualità della politica.

La democrazia come tecnologia ci abilita a pensare un mondo migliore.
Se fossi incapace di pensare un concetto come la democrazia, non potrei raffigurarmi mentalmente né dar luogo concreto (tramite pensiero tecnologico, quindi progettazione per il futuro e modificazioni dell’ambiente) a innovazioni sociali riguardanti il benessere delle collettività, misurato sull’uguaglianza degli esseri umani e la loro libera partecipazione alle decisioni sull’amministrazione dei territori.

I valori e le conquiste sociali democratiche vanno poi diffusi capillarmente nella società, mantenuti vivi, alimentati. Questo ci porta a ragionare di comunicazione politica, o meglio delle possibili politiche della comunicazione politica.

Certo, l’informazione è potere, e una storia delle forme di governo potrebbe essere tranquillamente scritta a partire da una classificazione delle forme di comunicazione istituzionale permesse o promosse all’interno di una data collettività. Dove evidentemente un principe ben poco concedeva al popolo riguardo la pubblicazione dei suoi affari di stato (perché avrebbe dovuto?), e di converso gli individui ben poco potevano decidere riguardo le scelte politiche inerenti la collettività di appartenenza.

Giungiamo ora rapidamente ai giorni nostri, e notiamo l’esistenza di molti Luoghi di dialogo “dal basso” tra cittadini e istituzioni (i partiti politici, i movimenti, i comitati) che da molti anni possono contare su tecnologie in grado di amplificare la voce come i giornali e la radio, la televisione e Internet.
Dall’Indice dei libri sottoposti a censura ecclesiastica con il famoso “visto-si-stampi” e l’imprimatur, alle scenografie e alla propaganda naziste e fasciste, alle moderne sottili forme di manipolazione del consenso e dell’opinione pubblica tramite il controllo (o la diretta proprietà) dei mezzi di comunicazione di massa, molto sappiamo e molta letteratura ci mette in guardia rispetto alla comunicazione “dall’alto”, alla capacità del Potere di allestire visioni del mondo funzionali al riconoscimento sociale della bontà del proprio operato, misconoscendo o inibendo la diffusione di informazioni od opinioni a sé controproducente.

Oggi però esiste il web, sociale e partecipativo, paritetico e neutrale, libero luogo di espressione.
La partecipazione dei cittadini è stata disintermediata, non è più necessario possedere un giornale o un sistema di produzione radiotelevisivo per esprimere la propria opinione ed essere ascoltati da migliaia di persone. In Rete avvengono aggregazioni sociali spontanee, basate sulla condivisione di interessi, e riflettere e proporre iniziative sulla gestione della cosa pubblica è fortunatamente prassi diffusa, dentro i forum di discussione a dimensione planetaria oppure nei blog urbani.

Le recenti evoluzioni tecniche del web (web 2.0) hanno reso la partecipazione ancora più facile, abilitando in tutti noi una concezione finalmente sociale della Rete quale Luogo antropico abitabile, di cui aver cura proprio in quanto nativamente connotato di democrazia (non esistono bit di informazione “privilegiata” rispetto ad altri, nel correre lungo i cavi delle connessioni planetarie; la mail di un ministro viaggia veloce come la mia, e questo blog è “visibile” tanto quanto quello di una multinazionale) e campo stesso di esercizio dell’agire democratico, da parte di individui o gruppi sociali più o meno organizzati.

Le persone ora usano il web.
Se camminate per strada, guardate quelli tra i venti e i cinquantanni: la metà di loro ha un account su Facebook, in italia (il che non è in sé buona cosa, però a FB verrà riconosciuto il fatto di aver introdotto allo scambio e al confronto interpersonale milioni di persone, sbozzandone le prime competenze di cultura digitale: comprendere che Facebook non è un luogo democratico è già un primo passo in questa direzione).
Il passaparola delle relazioni interumane concrete come pure le milioni di parole scritte qui in Internet nel corso degli anni sono costantemente disponibili per l’auto-formazione sul corretto utilizzo dello strumento, dalla netiquette alle considerazioni sull’identità e sulla reputazione personale. I nuovi arrivati potranno all’inizio essere un po’ disorientati dall’esplosivo fiorire di mille luoghi espressivi, ma rapidamente comprendono come Internet sia oggi il posto migliore per pensare con la propria testa, trovare informazioni ed esprimere opinioni, dove l’autorevolezza del dire non dipende automaticamente dalla fonte (i giornali, i governi, le multinazionali) ma dalla capacità di articolazione del proprio pensiero nel rispetto della conversazione pubblica e del dialogo, nell’apertura e nel confronto.

Quindi noi semplici cittadini per prove ed errori, nel coinvolgimento personale fatto di passione e di stupide salatissime bollette telefoniche (soprattutto in italia) per un servizio di connettività alla popolazione che per una banale questione di civiltà dovrebbe funzionare secondo il modello delle strade statali, siamo riusciti ad affacciarci sul web e ad abitarci in modo stanziale e costruttivo, mentre a tutt’oggi in Parlamento ancor più stupidi legislatori o sedicenti esperti locali di etica e comunicazione cercano di proibire, oscurare, censurare la libertà della Rete, di cui palesemente non comprendono né il funzionamento tecnico né le implicazioni sociali, culturali e civiche, in relazione al futuro e alla qualità della vita delle prossime generazioni. E per fortuna la stessa maggioranza parlamentare cui appartengono rigetta le loro proposte di legge: sto pensando ovviamente alla figura meschina fatta di recente da D’Alia e Carlucci.

Tra l’altro i politici in tempo di elezioni da sempre promettono di asfaltare le strade, ma ne ho visti pochissimi parlare seriamente di riduzione dello spartiacque digitale – ché divario digitale non è digital divide, la corretta traduzione è ben più radicale – tra chi può e chi non può accedere al web in maniera dignitosa, e ancor meno comprendere l’assoluta impellente necessità di provvedere competenze civiche ai cittadini sulle nuove forme di abitanza e di democrazia elettronica, e non sto ovviamente parlando di alfabetizzazione agli strumenti.

Nonostante esistano buone leggi e indicazioni per l’ammodernamento del paese, le istituzioni indubitabilmente sono rimaste indietro, nel loro fare comunicativo. Un po’ perché le pubbliche amministrazioni sono frequentate da personaggi, da un ministro a un preside scolastico giù giù fino a un’impiegata dietro uno sportello, che pensano di vivere ancora in un’epoca in cui “non sono tenuti a dare informazioni” (notare la peculiare costruzione grammaticale), un po’ perché nell’istituzione stessa manca una cultura della comunicazione intesa come dialogo con i cittadini (i famigerati “siti-vetrina” altro non sono che una attualizzazione dell’Albo Pretorio, evidentemente monodirezionale), un po’ perché le indicazioni legislative sulla trasparenza delle procedure amministrative, back-office e front-office, almeno dalla Bassanini 1997 in qua, sono state ampiamente disattese.
En passant, vi ricordo che in quanto cittadini, secondo il Codice dell’Amministrazione digitale del 2006, avete diritto all’uso delle tecnologie (art. 3), diritto all’accesso e all’invio di documenti digitali (art. 4), diritto ad effettuare qualsiasi pagamento in forma digitale (art. 5), diritto a ricevere qualsiasi comunicazione pubblica per e-mail (art. 6), diritto alla qualità del servizio e alla misura della soddisfazione (art. 7), diritto alla partecipazione (art. 8), diritto a trovare on-line tutti i moduli e i formulari validi e aggiornati (art. 58).

E-government ed e-democracy sarebbero in buona misura praticabili oggi stesso, se gli amministratori pubblici non si comportassero come feudatari medievali, timorosi di una sana e proficua comunicazione bidirezionale tra Istituzioni e cittadini.

Dicevo che esistono numerose Indicazioni e Linee guida per la qualità della comunicazione pubblica della Pubblica Amministrazione: sul sito del Formez potrete trovare documenti e relazioni relativi all’adozione delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione nei settori pubblici.
In particolare, di recentissima pubblicazione sono gli Strumenti per le Amministrazioni 2.0, a cura del CNIPA Centro Nazionale per L’Informatica nella Pubblica Amministrazione, relativi all’utilizzo di approcci moderni 2.0 nella progettazione e nella conduzione di siti web e nelle attività di comunicazione pubblica delle Istituzioni.
Interessante anche questo articolo di Flavia Marzano “Pubblica Amministrazione 2.0” pubblicato su Astrid (altri articoli rilevanti sulla stessa pagina).

E se vi imbattete su Facebook sulla pagina del vostro Comune o della Regione, oppure se vi accorgete che il vostro Sindaco utilizza Twitter per raccontare ciò che viene dibattuto durante il Consiglio Comunale, non inorridite subito: anche le Istituzioni stanno imparando per prove ed errori l’effettiva portata comunicativa e l’efficacia dei singoli strumenti, ma nel frattempo le informazioni circolano un po’ di più, le competenze digitali si diffondono, il mondo migliora.

Reportage dalle Venice Sessions

Esiste il modo in cui raccontiamo il futuro, e questo racconto ha delle conseguenze.

Telecom Italia e Nòva24 – Il Sole 24 ore, con il contributo dei curatori Luca De Biase e Giuliano da Empoli, sono partiti da qui, dalle conseguenze, per chiedersi: come si può narrare il futuro?
È tramontata l’era delle certezze alimentate dai professionisti delle previsioni, i cosiddetti futurologi. Resta, però, l’esigenza di comprendere gli scenari mutevoli e complessi generati dalla globalizzazione: è una sfida che l’Italia non può rimandare per cogliere le opportunità di cambiamenti epocali.

Invitati da Telecom Italia e da Nòva 24, tecnologi e umanisti si incontrano a Venezia nel convento di San Salvador, sede del Future Centre di Telecom Italia.

Narratori e imprenditori, filosofi e scienziati, artisti e giornalisti: sono menti sorprendenti che si confrontano in eventi ogni volta diversi capaci di stimolare la creatività. Insieme esprimono un’intelligenza collettiva curiosa, fertile, imprevedibile. Che esplora il futuro interrogandosi sulle esigenze del Paese: il racconto di esperienze, visioni e progetti diventa, infatti, un metodo di ricerca in grado di unire culture differenti in un percorso condiviso.

Gli argomenti toccati dagli speaker, poi, vengono rielaborati in mappe concettuali che il pubblico può commentare sul web e sui Social Network. Arricchendo, così, la narrazione di un futuro che appartiene a tutti.

Segnalo qui un interessante quanto articolato reportage di Irada Pallanca dedicato alle Venice Sessions dello scorso 31 marzo, ripreso da Key4Biz.

Diritto di privacy nell’Era digitale – Viviane Reding

Riscrivo sinteticamente uff questo post, dopo aver per la prima volta qui su Blogger perso la prima stesura nonostante presunto salvataggio in bozza.

Europeans must have the right to control how their personal information is used. European privacy rules are crystal clear: your information can only be used with your prior consent.

Lo spunto è dato dalla comunicazione settimanale della Signora Reding, a questo indirizzo presso la Commissione Europea “Information Society and Media” trovate il video e anche il pdf con il testo. L’argomento è costituito dall’esercizio individuale del diritto di privacy rispetto ai nuovi rilevanti fenomeni tecnosociali, con particolare riferimento ai social network, al behavioural advertisement (profilatura avanzata dei navigatori grazie alla informazioni raccolte dai loro comportamenti online, a fini commerciali) e agli àrfidi RFID, le etichette connesse da aggiungere a ogni prodotto per realizzare la cosiddetta “Internet delle cose”.

Viviane Reding nel suo discorso tiene centrale il valore per il soggetto di poter sempre controllare l’utilizzo che altri fanno delle sue informazioni personali online.

La Commissione Europea ha già invitato i responsabili delle piattaforme sociali a provvedere degli strumenti di tutela per i profili dei minori, mediante quindi auto-regolamentazione, e intende promuovere eventuali nuove regole solo come ultima scelta, se non vi saranno altre strade percorribili.
Per quanto riguarda il caso delle indebite profilature commerciali dei consumatori, viene sottolineato come le regole attuali europee sulla privacy siano di una chiarezza cristallina, dove indicano come le informazioni riguardo una persona possano essere utilizzate solo con suo previo consenso. Le istituzioni europee anzi sorveglieranno e agiranno concretamente verso quegli Stati europei che non riusciranno a rispettare questo proprio obbligo esplicito, di tutelare il diritto di privacy dei cittadini rispetto alle iniziative commerciali.
In relazione agli smart chips, di riconosciuta importanza per l’ottimizzazione dei sistemi distributivi commerciali, la Reding offre una visione ben delineata, dove nuovamente focale risulta la consapevolezza del cittadino europeo sul funzionamento specifico di questa recente tecnologia, sulle implicazioni rispetto alla propria persona, sulla possibilità tecnica di poter rimuovere l’etichetta RFID o spegnerla in ogni momento.
L’accento è sul lato sociale delle tecnologie, dove si dice che l’Internet delle cose funzionerà solo se accettata da tutti.

Verso la fine dell’intervento, viene ribadita la necessità di metter mano alle regole generali europee per la protezione dei dati personali, del 1995, alla luce dei recenti sviluppi delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione.

Ma è positivo poter dire che le indicazioni sulla strategia istituzionale europea riguardo il diritto di privacy sanno eludere e anzi additare come controproducente un infuocato legiferare in termini proibizionistici – chiaro riferimento a ultimissimi fallimentari intenti politici di controllo della rete Internet, qui in italia e in altri Stati europei – sia in relazione alla promozione di responsabilità personale nell’essere informati e consapevoli di tutti noi fruitori della rete, sia riguardo alla stessa internet, che giungla ora certo non è, e tale diventerebbe solo se venisse tralasciata appunto la tutela dei diritti della persona.
E le regole che ci sono ora vanno già benissimo, vi è fiducia nel sistema libero attuale della rete, e piuttosto bisognerebbe puntare sull’educazione alla cittadinanza digitale, se proprio si intende fare una bella cosa.

Comprendere l’umanità aumentata

La comprensione culturale di un mondo che cambia così in fretta richiede una ridefinizione dei parametri che utilizziamo per orientarci. Tuttavia è fortemente probabile che la scuola avrà il compito di occuparsi dell’educazione tradizionale, dai classici alla matematica. Quindi il senso dello spirito del tempo, la comprensione culturale, l’educazione ai media saranno un problema delle famiglie. E starà a noi riportare sull’uomo la centralità dell’azione, che le tecnologie abilitano e che oggi ha nuove potenzialità. Il governo stesso della nostra vita emozionale, dei nostri affetti, dei nostri interessi e la tutela dei nostri diritti, la difesa dei nostri valori: sono tutti aspetti che possiamo, oggi, gestire in maniera accresciuta.

Ma se sapremo guadagnarci, o se guadagneremo, solo ansie, dipenderà solo da noi, dalla decisione di cominciare a governare culturalmente il cambiamento o di subirlo lasciando ad altri (i nostri figli) il compito di affrontarlo e di gestirlo. Loro, non potranno farne a meno. (grassetto mio)

Queste riflessioni le trovate su Piovono rane, la rubrica di Alessandro Gilioli su L’Espresso. Sono le righe conclusive dell’anticipazione del nuovo libro di Giuseppe Granieri, “Umanità accresciuta” (Laterza, in libreria il 17 aprile), dove uno dei migliori studiosi italiani di tutte queste cose di social web e abitare in rete prova a fare il punto della situazione attuale e a delineare qualche scenario futuro, con sensibilità tutta umanistica.

Chi mi segue sa quanto e da quanto tempo (ne parlo qui, qui, qui e toh anche qui, qui e qui), io provi a promuovere cultura digitale in àmbito scolastico e a sviscerare le problematiche relative alla corretta “postura” del fare scuola oggi, rispetto alla necessità civica di fornire ai giovanissimi degli orizzonti culturali e delle competenze digitali che li rendano in grado di fruire appieno dei loro diritti di cittadinanza, di accesso all’informazione e agli strumenti sociali di espressione di sé.
Per questo la posizione pragmaticissima di Granieri, riguardo il fatto che con estrema probabilità tutti questi apprendimenti non avverranno tramite educazione formale, mi fa male, perché ha ragione.
La Scuola sta perdendo tempo, simili tematiche verranno con dignità (dentro la testa dei docenti, dentro i curricoli, nella stessa organizzazione didattica) affrontate solo tra molti anni, quando i ragazzi di adesso saranno già parte attiva della popolazione, adulti che affronteranno la complessità del mondo futuro con una preparazione abborracciata tipica del loro essere abitanti digitali nativi (evito l’etichetta “barbari” – oppure leggete seriamente cosa dice Baricco – perché questi parlano molto, altro che balbettare, hanno una cultura vivacissima, e perché è parola eccessivamente razzista nel connotare il loro nuovo e vincente stile abitativo biodigitale rispetto alla nostra morente civiltà del pensiero scritto e stampato), alla cui formazione nessun insegnante grazie al filtro della propria sensibilità ed esperienza ha potuto contribuire, educandoli alle forme di significatività del mondo e alla costruzione consapevole della propria identità sociale.
Perché gli insegnanti, tranne ovviamente i soliti illuminati che ora soffrono come cani per le difficoltà che incontrano nel provare a introdurre degli ammodernamenti didattici o organizzativi resi possibili dalle TIC, di queste cose non capiscono nulla, non avendone appunto esperienza. Nulla.
E i nuovi insegnanti che vedo arrivare nelle scuole o che provano timidamente ad affacciarsi qui in Rete con dei propri Luoghi personali o professionali, sono lì a perder tempo con le stesse domande che ci facevamo dieci anni fa, con gli stessi software tipo Ufficio, senza avere nemmeno l’umiltà di leggersi qualche libro aggiornato oppure di scandagliare le profondità della rete, su quei forum e bacheche dove da anni fioriscono le riflessioni sui risvolti educativi delle ex-nuove tecnologie… poi qualcuno mette una parola di finto buon senso, “l’apprendimento è così e cosà”, “alla fin fine niente sostituirà mai un buon libro”, “l’approccio pedagogico di TaldeiTali”.
Tutti pensieri fatti da gente, autori prestigiosi o educatori, che magari vent’anni fa avevano tutta la loro ragion d’essere, ma oggi non funzionano, e cadono inesorabilmente fuori luogo.
Perché questa gente non ha un blog, non commenta sui blog o sui forum, non ha un account su YouTube, non usa un aggregatore, non frequenta Luoghi websociali, usa la Rete solo per rubare come predoni nomadi, ma non abitano, non hanno cura dei territori digitali dove i ragazzi vivranno, non donano niente, non costruiscono niente. E poi tutti baldanzosi di essere alfieri del web20, ovvero della ormai banale normalità del vivere in Rete, giungono con fare messianico a dire agli altri cosa devono fare, di quello che loro stessi non fanno e non sanno fare.

“Eh, signora mia, qui non si più come vestirsi, non ci sono più le mezze stagioni”.
Ma soprattutto, “qui una volta era tutta campagna”: nel frattempo il web è diventato il principale Luogo di socialità del pianeta, struttura e flusso costitutivo del nostro essere cittadini consapevoli e critici della modernità, qui è dove ci informiamo e dove discutiamo e dove agiamo professionalmente e ludicamente, e non esisterà un futuro senza Rete, potete esserne certi.

Abitare il video aka “Mai distrarsi”

Le cose sono andate così.
Sergio Maistrello, conoscendo la mia accidia – era bello quando ero giovane, ed ero solamente pigro – circa un mesetto fa mi ha chiesto se potevo prestargli un intervento video di una decina di minuti, dedicato agli argomenti dell’abitanza digitale, da mostrare ai partecipanti di un master in digital marketing a Milano.

Ovviamente, me ne sono dimenticato per tre settimane. Quando GoogleCalendar mi ha avvisato con un sms, ho fatto spallucce: avevo davanti ancora dei giorni interi per fare brutta figura.

Poi mi sono ammalato, un raffreddore da trasformare il naso in rubinetto e la testa in una confezione di ovatta. Ma il video era da fare, perbacco. Ci ho provato un paio di volte, ma dimenticavo sempre il microfono chiuso oppure mi saltava la webcam, e oltre a me anche il pc ha preso un virus.
Soluzione drastica: ho continuato a sproloquiare liberamente, registrando, così poi da un’ora di girato ho ricavato quindici minuti di montato. Tutte le volte che starnutivo o tiravo su col naso o prendevo l’aspirina o mangiavo un paninetto con lo speck, le ho tagliate via, ho ritenute superfluo documentare tutto tutto. Nel delirio raffreddoso, mi ha sfiorato anche per un attimo l’idea di farne un videoclip musicale, un rap su una base funkettara di tosse e starnuti.

Quello che è rimasto, è qua sotto ovvero su Vimeo. Enjoy.


Cultura TecnoTerritoriale, Abitanza BioDigitale from Giorgio Jannis on Vimeo.

L’importanza di …

Fare le cose per bene, con quell’accento sullo stato del mondo ottimale in seguito all’azione svolta.
Meglio far le cose per bene, che farle al meglio, forse.

Ecco, quel “bene” non è un valore assoluto, dipende anch’esso dal contesto.
L’azione “fatta bene” è quella più adeguata al contesto. Prendete il galateo di Della Casa o di Lina Sotis, e noterete che spesso le regole dei cerimoniali non tendono a ottenere il miglior risultato possibile, ma il risultato migliore nella situazione sociale in cui l’azione si svolge… dove spesso infatti i rituali strutturati sono progettati per far sì che ciascuno abbia un ruolo sociale definito nella situazione e sappia cosa fare/dire, non per l’efficacia dell’azione. L’obiettivo situazionale è più rendere le situazioni fluide, rispetto all’efficacia perfetta. Tant’è che spesso il galateo complica le situazioni, ma tutti sono a loro agio se seguono l’etichetta. Prendere le forchette via via dall’esterno verso il piatto non può creare imbarazzo, è una cosa funzionale nella situazione. Se la regola non è funzionale fa saltare l’agio dei partecipanti, e quindi la regina margherita mangia il pollo con le dita, e tutti si sentono a proprio agio nella situazione sociale.
Alla base, certo la funzionalità, ma credo più importante sia l’adeguatezza sociale nella situazione. Perché la situazione può sostenere (spesso il cerimoniale prevede anche i rituali di riparazione) una funzionalità farraginosa, ma nessuna situazione sociale umana può sostenere l’imbarazzo di una persona, perché l’imbarazzo è di tutti gli altri che non sanno più come interagire con una persona che d’un tratto si trova “senza faccia” (Goffman, da qualche parte).

Ma fare un lavoro per bene nel mondo degli atomi, come riparare una sella di uno scooter (ecco che questo mio cuore a forma di Vespa comincia ad accelerare) significa fare un lavoro che appunto prenda come misura della propria qualità il proprio essere adeguato al contesto fisico del mondo. Quindi l’artigiano (dentro di lui si muovono generazioni di artigiani che da millenni dialogano con tessuti e aghi e fili, con la grammatica tecnologica donata da Atena) cercherà di realizzare un lavoro che resista all’usura di un jeans che per ore si strofina sulla sella. La sua competenza sta nel trovare i materiali e nel possedere informazioni sul comportamento fisico/chimico/meccanico, nel tempo, dei materiali, per adeguarli al contesto della relazione sella-sedere.

Ma fare un lavoro sul web non riguarda la materia. I pixel non si consumano a guardarli, i bit non arrivano stanchi per l’attrito.
Fare un lavoro per bene su web significa adeguarsi al contesto immateriale e perennemente in progress, il web è sempre beta-release. Quando dieci anni ho cominciato a rompere l’anima alle maestre con gli ipertesti e i power(colpoditosse)point, era importante far loro comprendere come l’opera potesse essere ripresa l’anno successivo, ed ampliata: questo contrasta con la mentalità editoriale dell’edizione definitiva. Non c’è più niente di definitivo. E non ci saranno più appendici e integrazioni alle opere, l’opera è in continuo farsi. E quindi fare bene un lavoro non vuol dire finirlo, e neanche farlo bene. Su web, per cominciare, significa farlo. Poi il vivere stesso autonomo di quell’opera (quel sito, quel documento pubblicato, quel post sul blog) conterrà gli strumenti del proprio miglioramento, auspicabilmente grazie agli apporti di tutti quelli che ci interagiscono.

Tutto questo per rispondere a Gino Tocchetti, che in un suo post dedicato alla cultura del lavoro artigianale riprende un suggerimento di Andrea Beggi che parlava proprio del suo incontro un vecchio meccanico di scooter, esempio vivente di un’etica del lavoro encomiabile, nello svolgere il suo compito “a regola d’arte”.

Ma credo che siano cambiate le regole dell’arte (ars, techne, Atena e Vulcano), qui, dentro il web. E appunto fare un lavoro “per bene” non significa finirlo -> chiuderlo al meglio, ma forse aprirlo al meglio. Non volere le cose perfette, mettersela via, pubblicare in bozza, scrivere di getto e fidarsi degli altri. Per i nevrotici sarà un delirio, la signorina Perfettini potrebbe dar di matto.
Eppure funziona così, qui. Se fai una cosa perfetta, è vecchia, o non maneggiabile. Non permette serendipità nel suo uso, che fa scoprire ciò per cui non era stata progettata, come fare i cartoni animati con powerpoint reinventando la sua destinazione d’uso, con approccio mentale bricolage.

Giustamente Gino sottolinea (lui è veneto, io friulano, viviamo dentro una cultura del fare artigianale ben precisa, storica, concreta) la qualità del pensiero professionale di quell’artigiano. Ma non credo che il miglior artigiano del web debba necessariamente condividere quella mentalità. Potrebbe darsi il caso che per lavorare a regola d’arte qui dentro quell’artigiano debba avere in sé (nel pensiero di sé che pensa la professionalità del proprio essere dignitosamente artigiano ai propri stessi occhi) una gerarchia di valori completamente differente, su cui appoggiarsi per impostare e giudicare sia l’opera sia il processo di produzione dell’opera.

Su David Orban (ora il sito non si carica, mah) trovate una traduzione italiana del Cult of Done Manifesto di Bre Pettis, da tradurre appunto come Manifesto del Culto del Fare rispetto a Culto del Fatto, proprio per mantenere aperta la visione dinamica (sennò bisognere spiegare che il Fare è un Fatto, e via rotoloni giù per la scala a chiocciola del Senso). Ecco qui.

Il Culto del Fare
  1. Ci sono tre stati dell’esistere. Ignoranza, azione e completamento.
  2. Accetta che tutto è una bozza. Questo aiuterà a fare.
  3. Non c’è un secondo passaggio, di editing o montaggio.
  4. Far finta di sapere cosa stai facendo è quasi lo stesso che saperlo fare davvero, quindi accetta che sai quello che stai facendo, anche se non è vero e fallo.
  5. Non procrastinare. Se aspetti più di una settimana per agire su un’idea, abbandonala.
  6. Lo scopo del fare (being done) non è finire, ma poter fare altro.
  7. Quando l’hai fatto puoi buttarlo via.
  8. Ridi in faccia alla perfezione. È noiosa e ti trattiene dal fare.
  9. Le persone che non si sporcano le mani sono nel torto. Se fai qualcosa hai ragione.
  10. Il fallimento conta come fare. Quindi devi fare sbagli.
  11. La distruzione è una variante del fare.
  12. Se hai un’idea e la pubblichi online in Internet, conta come lo spirito (ghost) del fare.
  13. Il fare è il motore del più.

Bello, eh? Di che capottare le fondamenta su cui abbiamo costruito nei secoli la dignità e l’etica del lavoro. Se restiamo fermi a manufatti atomici. Ma nel web, è l’unica soluzione valida. Tant’è che oggi Encarta (pensiero artigianale/industriale) ha chiuso, e Wikipedia evviva.

Retrofuturo web

La personalità di un bambino comincia a formarsi da quando è ancora in pancia. Anzi, la personalità del bambino comincia a formarsi nel pensiero dei suoi genitori, dentro una relazione, prima ancora del concepimento.

Qui un servizio televisivo di un tg americano del 1981 parla del nostro web, “chissà che mondo sarà quello in cui a colazione leggeremo le nuove sullo schermo di un personal computer”.

Che poi, quand’è finita quella tonalità futuro-progresso-startrek-ottimismo con cui si dipingevano le notizie tecnologiche negli anni Settanta e anche primi Ottanta? Son passati BladeRunner e il cyberpunk e hanno steso una vernice cupa a rivestire tutto? Quale intellettuale opinionleader gatekeeper quindici o vent’anni fa ha magari ripreso in mano quell’Heidegger storto che non aveva ancora capito bene la Tecnica, per tuonare – come nei temi in terza media sulla bomba atomica – contro la tecnologia disumanizzante che ci circonda e ci pervade? Perché d’un tratto questa svolta disforica, nel clima narrativo della webStoria? E’ possibile risalire alle scintille iniziali, che hanno impresso poi connotazione negative alle vicende successive contribuendo a costruire il frame cognitivo dentro cui avremmo interpretato i cambiamenti sociali legati alla nascita di Mondo 2.0? Ci sarebbero state anche da sopportare tutte le sciocche retoriche scandalistiche e criminalizzanti riguardo il web, a fine Novanta, e sappiate che “la mafia usa la posta elettronica”, tanto per dire, è affermazione che farebbe la sua disinformativa figura anche dentro un TG qualunque di questa sera.

“Imagine, if you will, sitting down to your morning coffee, turning on your home computer to see the day’s newspaper. Well, it’s not as far-fetched as it may seem.”

via MatteoBaldan

Spicciolame

Pasteris dice che

CriticalCity ha vinto i Kublai Awards 2009
CriticalCity è una piattaforma di riqualificazione urbana ludica e partecipata. E’ un progetto innovativo per mettere al centro i cittadini e trasformarli in motore attivo della trasformazione sociale, culturale e fisica del territorio urbano. Molti cittadini non sono soddisfatti della condizione della propria città, molti la vivono a fatica, la subiscono ma non sanno da dove cominciare, non hanno a disposizione uno strumento semplice per poter agire direttamente sulla propria città e fare qualcosa – anche di piccolo – per cambiarla, per renderla più vivibile, migliore. CriticalCity risponde al bisogno di potersi impegnare per la propria città e pensa che il modo più efficace per riuscire in questo sia di trasformare questa attività in un gioco.

Mi sono iscritto come Solstizio, dalle mie parti non c’è nessuno, proverò a capire come funzia.

Poi c’è questo brano di McLuhan del 1963, pubblicato da repubblica.it e arrivatomi via ValterBinaghi. C’è tutta una critica iniziale, sulla natura depauperante delle tecnologie di connettività – il sistema nervoso extracorporeo, nato con il telegrafo. Poi distingue

“… La nuova tecnologia elettronica, però, non è un sistema chiuso. In quanto estensione del sistema nervoso centrale, essa ha a che fare proprio con la consapevolezza, con l’ interazione e con il dialogo.”

E qui McLuhan, diciamolo, è eccezionale per la lucidità con cui riesce a rendere pertinenti le peculiarità dei new media dei suoi tempi (frutto di precise innovazioni tecnologiche) rispetto alle considerazioni sul funzionamento delle collettività umane. Con una visione moderna, di sistema e di processo – anche se ci sento dentro una figuratività metaforica un po’ ottocentescamente organicista o hegeliana, mah – riesce a cogliere l’emergere della consapevolezza collettiva nei sistemi mediatici planetari, proprio come un sistema nervoso sufficientemente complicato ad un certo punto sviluppa forme di coscienza, come strumento per meglio gestire quella complicatezza che ormai si può chiamare complessità. Si giunge all’autocoscienza, anche per il fatto che le tecnologie fulcro del cambiamento sociale attuale sono proprio le tecnologie della comunicazione e dell’informazione.

“Nell’era elettronica, la stessa natura istantanea della coesistenza tra i nostri strumenti tecnologici ha dato luogo a una crisi del tutto inedita nella storia umana. Ormai le nostre facoltà e i nostri sensi estesi costituiscono un unico campo di esperienza e ciò richiede che essi divengano collettivamente coscienti, come il sistema nervoso centrale stesso.”

Sta parlando di internet, è chiaro. Considerando evolutivamente il sistema televisivo come sviluppo degli organi di senso del corpo sociale (e negli Stati Uniti dei primi sessanta c’era già un sistema rediotelevisivo paragonabile all’italia degli anni Ottanta, per varietà di voci e capillarità), ad un certo punto si arriverà alla nascita di un sistema nervoso centrale, un Luogo di elaborazione dei flussi informativi, e si tratta di un Luogo sociale. Sul problema della scrittura e dell’oralità potremmo confrontarci con letteratura più recente, ma porre l’accento sui gruppi in relazione ai media è mossa notevolissima.
“La scrittura, in quanto tecnologia visiva, ha dissolto la magia tribale ponendo l’accento sulla frammentazione e sulla specializzazione, e ha creato l’ individuo. D’ altra parte, i media elettronici sono forme di gruppo.”

“Siamo diventati come l’ uomo paleolitico più primitivo, di nuovo vagabondi globali; ma siamo ormai raccoglitori di informazioni piuttosto che di cibo. D’ ora in poi la fonte di cibo, di ricchezza e della vita stessa sarà l’ informazione.”

“Quando nuove tecnologie si impongono in società da tempo abituate a tecnologie più antiche, nascono ansie di ogni genere. Il nostro mondo elettronico necessita ormai di un campo unificato di consapevolezza globale; la coscienza privata, adatta all’uomo dell’era della stampa, può considerarsi come un cappio insopportabile rispetto alla coscienza collettiva richiesta dal flusso elettronico di informazioni. In questa impasse, l’unica risposta adeguata sembrerebbe essere la sospensione di tutti i riflessi condizionati.
Penso che, in tutti i media, gli artisti rispondano prima di ogni altro alle sfide imposte da nuove pressioni. Vorrei che ci mostrassero anche dei modi per vivere con la nuova tecnologia senza distruggere le forme e le conquiste precedenti. D’altronde, i nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan. Possono essere affidati solo a nuovi artisti.”

Qui credo emerga un problema. Noi non conosciamo le potenzialità della nostra coscienza, nella sua abilità di coordinare flussi informativi, di farci restare attenti rispetto all’umwelt, come fossimo scimmie che in una foresta cercano sempre il profilo della tigre tra le foglie. Per il nostro essere animali, questa è facoltà necessaria per la sopravvivivenza (al punto che uno che legge il giornale in autobus è visto con un po’ di riprovazione, diceva Goffman, perché non può svolgere la funzione sociale di “sorvegliante” della situazione), e la coscienza come meccanismo serve anche a questo. En passant, sia chiaro che la coscienza per come ce la raccontano Hofstadter e Dennett può essere anche caratteristica di un formicaio, se non delle singole formiche, in relazione ai comportamenti adottati, quindi evitiamo di antropomorfizzare il discorso come al solito.
Ma il fatto è che se dentro un mondo virtuale in 3D, magari con visore e guanto, se mi dimezzano la forza di gravità ci metto un attimo ad adeguarmi. I bambini precocissimi non fanno fatica a interagire con flussi informativi, anche attraverso interfacce non pensate per loro (un telecomando del decoder o un software che si chiama Ufficio).
Se guardate i flash giornalistici di notte alla tv, vedrete uno schermo pieno zeppo di informazioni su molti flussi diversi (la voce dello speaker, le immagini alle sue spalle, i boxini con le quotazioni dell aborsa e il meteo in parte, nel sottopancia scorrono veloci altre news) eppure non facciamo fatica a seguire tutto. La nostra coscienza sembra essere sovradimensionata, capace di gestire anche quello per cui non è nata. Oppure semplicemente le sue facoltà non vanno pensate in termini di quantità, ma di algoritmi di funzionamento. Oppure meglio ancora, cerchiamo di capire che specie umana e tecnologie sono in simbiosi, da secoli. La pensabilità della tecnologia determina le direzioni verso cui la troviamo, spesso serendipicamente facendo lo sgambetto alla prevedibilità – d’altronde, la realtà notoriamente non ha nessun obbligo di essere verosimile, non siam mica a teatro qui – allo stesso modo in cui gli artefatti che ci circondano determinano le direzioni del nostro pensare. Perché stiamo dialogando con l’ambiente, e le tecnologie sono le parole dei nostri discorsi, dove traggo identità di me dal loro risuonare.
E guarda caso, nel mutuo reciproco evolversi degli Umana e dell’ambiente di vita, si scoprono facoltà cognitive che non si pensava esistessero (sì, sto ancora pensando al bambino di quattro anni che vi maneggia il MediaCenter in salotto con la stessa dimestichezza di un bibliotecario con un master in digital library) che si rivelano adeguate a fronteggiare le nuove forme di complessità degli ambienti mentali, fisici e digitali.
Nel parlare di coscienza privata e collettiva, McLuhan non poteva che pensare da dentro l’orizzonte della pensabilità del 1961, anche se in maniera eccezionale nella sua capacità di tratteggiare scenari futuri a partire da pochi segnali deboli. Qui forse ha tenuto ferma nel suo ragionamento una costante, la forma e le funzioni di quello che chiama coscienza, che invece è da considerarsi anch’essa una variabile, per il suo evolversi e mostrare nuove facoltà quando chiamata a fare il suo lavoro di “centro regìa” nel gestire flussi provenienti da ovunque, dentro e fuori su molti canali diversi.
Ma la coscienza e il mondo co-evolvono, non c’è bisogno di ipotizzare tragiche morti di coscienza individuale a favore di coscienze collettive. L’interazione dialogica tra sistema nervoso e oggetti è cosa sottile. Ad esempio, tutta la folksonomia è una risposta concettuale e operativa (forse addirittura non-pensabile nel 1961) che prova a fare luce su certi fenomeni socioculturali che si collocano su faglie di confine tra contesto individuale di significazione e i comportamenti degli oggetti culturali negli ecosistemi della conoscenza.

Gli artisti che scavano sotto i riflessi condizionati mi puzza ancora di romanticismo, mi sembra il solito Picasso che “dipinge quello che vede, non quello che sa”. Poi vengono gli straniamenti, poi le installazioni come indagine sul contesto di rappresentazione, i meticciamenti e le sinestesie. Questo ci porterebbe sui linguaggi della creatività, e via andare. Ma resteremmo ancora bloccati in una dialettica di contesti di pensabilità degli oggetti e dei comportamenti impostata su vecchie concezioni del mondo e della socialità e dello scambio informativo. Al momento, i migliori artigiani che conosco sono la sterminata massa anonima di sviluppatori software che di notte, nel buio dei profondi anni Ottanta o primi Novanta, hanno sviluppato il mondo digitale che ora abitiamo. Dell’arte parliamo più avanti.

E infine questa recensione di Tito Vagni ad un libro di Piero Vereni, “Identità catodiche. Rappresentazioni mediatiche di appartenenze collettive” che è un titolo di quelli giusti densissimi ma “catodiche” non mi piace, ma non credo che parli solo di tecnologia digitale, quindi figuriamoci se posso giudicare un libro dal titolo, toccherà fare un salto in libreria. La recensione è interessante, incollo anche qui alcuni concetti con la normale colla CtrlV.
… Esiste però un filo conduttore costituito dal ruolo determinante che i mezzi di comunicazione hanno assunto nella vita quotidiana e la necessità, per le scienze sociali, di guardare ai media come al luogo privilegiato dell’analisi sociale.

… ricostruzione dettagliata dei lavori di “antropologia dei media”, termine con cui individua un filone di studi derivante dalla contaminazione tra antropologia linguistica e cultural studies, che tenta di comprendere il rapporto tra sistema dei media e sistemi culturali

… “di fronte ai nuovi media siamo tutti primitivi, dato che tutti abbiamo bisogno di elaborare strategie d’uso e di significazione originali che abbiano e producano un senso dentro il sistema culturale che viviamo”

… mostra particolare attenzione al modo in cui l’introduzione di un mezzo di comunicazione ridisegni l’organizzazione dello spazio o, utilizzando le parole di Meyrowitz, riesca a proiettare l’abitare “oltre il senso del luogo”.

… la presenza della tecnologia nella vita quotidiana si è fatta talmente massiccia da rendere impertinenti alcune analisi sociali che eludono il ruolo dei media

Tutto interessante.

Dove si va?

FaceBook è pericoloso, perché al suo interno si fa tutto, ma poi lui non comunica con l’esterno ed è pur sempre cosa privata e commerciale. Lì dentro sì, le mie parole non mi appartengono più, un po’ perché il contesto in cui cadono le stravolge, un po’ perché non ne dispongo più, se vogliono me le portano via.
E la gente che dentro fb ci lavora, cioè lo usa come spazio professionale, di che tipo può essere? Potrebbe trattarsi di un vecchio internettaro che ha già i suoi canali professionali (lavora con GDocs, Ning, blog, lifestreamer, mailgruppi, pagine wiki proprie, ambienti Moodle, piattaforme video tipo Mogulus o UStream, ed è capace di radunare tutto il flusso in qualche luogo identitariamente connotato) il quale scopre che gli piace facebook e quindi decide di fare tutto là dentro, oppure non gli piace e quindi continua le sue attività fuori e usa la community incriminata solo come piazza di risonanza.
Se invece è uno appena arrivato in Rete, facile che trovi fb perfetto per fare tutto, così ogni cosa che deve pubblicare la pubblica là. Poi magara impara a usare meglio la Rete.

Se qualche collega decide di usare professionalmente faceBook, anche io mi trovo a frequentare maggiormente l’ambientino. E non so se vorrei.
Se voglio andare in biblioteca, mi scoccia l’atmosfera da bar. Né d’altronde mi piace andare in un bar a fare cose da biblioteca. Poi gli stessi che vedo al bar sono gli stessi della biblioteca, ma non parlo di lavoro al bar, né a riunione sono solito aprir parentesi sui film preferiti o la giusta procedura per un martini cocktail.

Posso capire che tutta questa complessità di web (e siamo agli inizi dell’Era Digitale, neh) crei confusione, e quindi molto meglio sarebbe fare tutto dentro lo stesso contenitore, ma dobbiamo per forza farlo su Facebook?
Credo che quello che le persone vogliono dire in piazza appartenga alla comunità. Quello che vogliamo mostrare, delle nostre identità digitali, deve appartenere a tutti, e da tutti essere riconosciuto nella sua origine. Devo poter esercitare controllo sui miei dati personali, devo poter controllare le mie affiliazioni o partecipazioni (quello che faccio, quelli che frequento mi connotano nella mia identità pubblica), devo poter stabilire in che modo vanno propagate informazioni su di me e sulle mie pubblicazioni professionali o ludiche. Ma appartengono a tutti, è il dono che faccio alla mia collettività di appartenenza o ai miei gruppi di frequentazione, con la partecipazione attiva; non possono appartenere a qualcuno soltanto, nessuno può essere padrone delle nostre conversazioni, della nostra socialità. Qui nascono le idee e le opinioni e le relazioni, qui si costruisce il domani.

Se verrà confermata questa spinta alla socialità, alla convivialità che questi Luoghi web fanno emergere a quanto pare come caratteristica umana (che ci sia sotto più un problema di riconoscimento sociale e quindi autostima, oppure la vedete come mossa difensiva ad una profonda angoscia di separazione? esseri umani, animali sociali), nel futuro siamo destinati ad abitare via via i prossimi social network che verranno inventati, ciascuno di essi con qualche nuova idea socialutility capace di renderlo accattivante e magari leader del settore, e ci comporteremo come nomadi che a milioni si spostano da un ambiente all’altro, magari perdendo tutto quello che lasciamo indietro sulla vecchia comunità digitale, milioni di foto e video e parole originali? Assurdo.

Certo, bisognerebbe che qualche commissione europea dicesse: “Ecco qui un people aggregator, un software opensource per fare socialweb con tutte le funzioni di fb e tutto: ciascuno Stato provveda per legge a installarlo e mantenerlo, e tutti i cittadini usino questi Luoghi pubblici per fare socialità esattamente come fanno in facebook”. Poi tutti gli opensocial su scala comprensoriale, regionale, nazionale, continentale sarebbero trasparenti gli uni agli altri, e la mia identità digitale sarebbe identica su ogni gradino della scala. Complicatuccio.
Più semplice sarebbe obbligare tutte le piattaforme social (avverranno fenomeni di ri-stratificazione, dopo lifestreamer e communityglobali: dopo questo rimescolamento-adeguamento alle nuove abitudini osserveremo un riadagiarsi delle nicchie di frequentazione nelle reti di interesse personale) a rendere esportabili i dati, tutti, che immettiamo. Sarebbe quindi da rendere tutto il web trasparente, ma questa cosa neppure mi piace. A me però interessa che siano pubbliche le piazze, e libero ciò che in esse viene detto. Perché se vado in piazza, SO che sto andando in piazza. Se mi trovo in salotto piuttosto che in piazza, sono diversamente attento alle mie parole. Per dire, la legge distinguerebbe tra frasi ingiuriose pronunciate in pubblico o in privato, perché presuppone che il parlante sia in grado di rendersi conto della differenza. Molti per esempio non si rendono conto di star parlando in pubblico, sui network. Ma stiamo parlando sempre di pubblico e privato, di come le TIC modifichino la soglia, tra uno che parla al telefonino in mezzo al bar e l’altro che pubblica foto compromettenti di sé online. L’importante sarebbe come al solito provvedere educazione sufficiente a far sì che le persone siano consapevoli del destino delle loro parole, se pronunciate in piazza oppure nel salotto di qualcuno: nel primo caso dovrei poter contare su autenticità e referenzialità della fonte (so chi ha detto cosa e quando), sul controllo intersoggettivo, su tracciabilità del flusso, su identità digitali stabili di legittimi cittadini, nel secondo caso devo essere consapevole che della mia identità e delle mie parole il padrone del salotto con la festicciola può fare ciò che vuole (e allora forse sarebbe giusto negargli la presa certa sulla mia identità, e permettere nomi fantasia o anonimato).

Perché il fatto che discussioni importanti, affermazioni etiche di sé o ping-pong intellettuale con gli altri non siano rintracciabili dai motori di ricerca e possano essere cancellate, non è tollerabile. E’ stupido, se visto nella prospettiva di una specie in evoluzione, inventare finalmente un supporto dello scibile capace di diventare memoria dell’Umanità (in modo migliore che le mnemotecniche o la carta) su scala planetaria, capace di permettere la partecipazione di tutti in Luoghi antropici relazionali, per poi chiudere la socialità in un unico luogo senza finestre, con padroni di casa di pessima reputazione.

Bene. Non immetterò contenuto originale in FaceBook, fino a quando non sarà possibile esportare tutto e mantenere il controllo sul proprio essere e sul proprio dire.

Mappe, aggregatori, punti di vista

In quell’Impero, l’Arte della Cartografia raggiunse tale perfezione che la mappa d’una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero, tutta una Provincia. Col tempo, codeste Mappe Smisurate non soddisfecero e i Collegi dei Cartografi eressero una Mappa dell’Impero, che uguagliava in grandezza l’Impero e coincideva puntualmente con esso. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive compresero che quella vasta Mappa era Inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl’Inverni.

Borges, sì. Capace di iniettare nell’immaginario una dialettica tuttora viva, che già riecheggiava negli slogan delle contestazioni giovanili di 40anni fa. La mappa non è il territorio. E se il territorio è digitale? Le mappe della Rete sono estese come la Rete? Se mettiamo lì un aggregatore che riproponga magari con qualche rappresentazione grafica tipo metafora spaziale se non addirittura corrispondenza geografica (occhio che il segno diventa indice, in quanto “fisicamente” connesso con il luogo di produzione) tutto ciò che viene pubblicato in Rete, avremmo per le mani il Web senza il social, visto che sarebbe solo vetrina e non luogo di interazione. Se poi il fantomatico aggregatore offrisse anche la possibilità di commentare, e tutti commentassimo lì, avremmo il serbatoio mondiale delle idee, e sulla superficie del calderone vedremmo formarsi e scomparire forme riconoscibili, configurazioni di senso, reti relazionali. Più di qualcuno ha immaginato questo calderone come un alambicco, da cui tramite la circolina per la condensazione sia poi possibile distillare e tracciare nuovi apporti culturali, nuove invenzioni, nuove parole per definire concetti prima nebulosi, vedere insomma in tempo reale lo scibile vivere. Non solo la storia delle idee, ma la vita delle idee.

Ma anche il pensiero che pensa gli aggregatori e i contenitori forse è pensiero vecchio, come quello degli imperatori e dei cartografi di corte, giunti al paradosso di avere una mappa grande come il territorio. Poi passa uno e dice: “ma scusate, sulla mappa manca qualcosa… non potete non riportare sulla mappa stessa un manufatto grande come il territorio stesso, cioè questa stessa mappa!”; quindi sulla mappa dovrebbe esserci la mappa. Bel problema. Più che altro, irrisolvibile. Perché il problema sta nella stessa “volontà di rappresentazione” (Schopenhauer non ridere), che poi è anche cosa legittima e teniamo presente che qualunque animale evoluto si crea una mappa mentale del proprio territorio di abitanza, ma poi il problema è nelle modalità di rappresentazione, e qui la cosa diventa “simulazione” nel senso buono, e quindi si entra dritti a parlare di modelli, di capacità descrittive euristiche e via così.

E se devo farmi una mappa di quello che si dice in Rete oggi, e magari distillare quelle cose che ritengo pertinenti ad un effettivo incremento della conoscenza, per me?
Oggi Mario Rotta, nella sua one-line di status su FaceBook

vorrebbe proporre a tutti di “condividere conoscenze”: ma chi avrebbe davvero il tempo di farlo?

la questione del tempo è altra bella variabile; io comunque gli rispondo dicendogli

dovrebbe essere possibile costruire conoscenza “articolata” a partire dai contributi one-line di chiunque passa. poi come un gigantesco sillogismo o come un “cadavere eccellente” (narrativamente orientato) alla fine strizzi tutto e distilli tutto e hai incremento dello scibile, foss’anche una virgola in più, però corale.

e lui di rimando

Ma la conoscenza (dico a me stesso, a volte) è “leggera” o “pesante”? Sono frammenti che si ricompongono come polvere attraversata da un campo magnetico o il risultato di azioni deliberate da parte di chi condivide prima di tutto una visione, o quanto meno un formato? Forse, è entrambe le cose…

Mi piace l’idea del campo magnetico sulla limatura di ferro. Crea configurazioni, secondo i punti di vista. Rappresentazione grafica e dinamica dei movimenti attrattivi-repulsivi. Ma riesce forse solo a spiegare il “punto di vista organizzatore” di chi interroga le idee sparse sulla Rete, un principio ordinatore che in fondo (kantianamente, e poi fenomenologicamente) è un soggetto che guarda e dà senso al mondo.

Ma c’è anche il fatto che quella limatura di ferro, quelle idee che circolano su web e nel mondo possiedono delle proprie capacità di legarsi o di respingersi, non tanto in modo dipendente dal significato veicolato quanto dalla forma dell’espressione grazie a cui possono veder la luce, grazie al format e al particolare sistema editoriale che usano. Possono essere voti su una stellina di un video di YouTube, contenuti articolati in un blog o commenti, linee di status dentro i messenger o dentro le comunità digitali.

Quindi, tolta di mezzo l’idea dell’aggregatore universale (è la stessa internet: oggi il territorio è la mappa), rimane da vedere come rendere visibile e social il nostro essere aggregatori unici e originali, ognuno di noi. Avere una bacheca di lifestreaming personale, aperta al web, significa cucire insieme atti-degni-di-menzione con il nostro filo personale e con il nostro stile, e ciascuno di noi avrà una bacheca unica e originale, e la stessa sequenza di segnalazioni e interventi sarà molto eloquente, perché esprime un punto di vista e possiede in sé molte informazioni di contesto, embeddate nelle mie frasi ma facilmente decifrabili.

E quindi se la metafora del campo magnetico e della limatura di idee rende bene l’idea di un pensiero aggregante, però esterno all’umanità e meccanico (tant’è che può essere fatto da un software, come un aggregatore pubblico dei memi, senza occuparsi del “contenuto” messo in Rete), e l’idea di un filtro aggregatore programmato da umano in fondo altro non è che l’espressione di un punto di vista (fondato sulle pertinenze che il “programmatore” ritiene utili), e poi potremmo anche aggiungere l’idea di un aggregatore che autoapprende e via via seleziona con più raffinatezza ciò che può essere considerato “incrementale” rispetto allo scibile che continuamente viene prodotto negli scambi interumani biodigitali, ma alla fin fine quello che torna importante è l’aggiunta personale di ciascuno di noi all’evento, il valore del contesto della pubblicazione, gli ambienti su cui pubblichiamo o ri-pubblichiamo ciò che vogliamo segnalare.

Da queste piccole dislocazioni del senso, re-interpretazioni attraverso la lente unica dei nostri occhiali personali, nel gioco infinito della traccia e dello scarto (trace|ecart, com’è scritto qui nel footer del blog) è possibile ragionare di “condividere conoscenza” e magari anche di “incremento delle idee”. C’è di mezzo l’idea di autorialità, di voce che sempre nasce da un luogo e in un tempo.
Stop al delirio (di cui famosa para-etimologia è “de-leggere”, ovvero quel leggere un po’ sghembo, capace di dare altri nomi alle stesse cose, pareidolicamente – sta finendo l’anno di prova, dovevo giocarmi questo avverbio sennò perdevo il bonus).

Abitare mondi

In un romanzo cyberpunk di William Gibson, a metà anni Ottanta, due protagonisti si incontravano virtualmente in un parco digitale, e la progettazione e la definizione grafica del mondo erano talmente raffinate da permettere di scoprire il cadavere di un’ape tra la ghiaia dei percorsi pedonali.
Qui di seguito, un bell’articolo su Apogeonline, dedicato ai mondi-specchio e ai relativi risvolti sociali. Guardate anche il video, e immaginate il vostro avatar, a voi somigliante o meno, a spasso per la vostra città, che incontra e chiacchiera con amici e conoscenti, che va al cinema e al bar.

Twinity, a spasso per Berlino.
di Giuseppe Granieri

Riflessione digitale del mondo atomico, questo nuovo mondo metaforico permette di socializzare e svolgere attività tra gli spazi e le architetture della città scelta (sono in arrivo anche Londra e Singapore). Parola d’ordine: powered by real life Twinity è un mondo mirror che riproduce (per ora) la città di Berlino, nei sui spazi e nelle sue archetitetture. Ma è anche una piattaforma sociale e uno spazio relazionale. Vi raccontiamo le nostre prime impressioni.

A differenza di Second Life, che con il nome e l’abuso iniziale dell’aggettivo “virtuale” ha sempre creato un’idea erronea di mondo altro rispetto a quello reale, il claim di Twinity è decisamente più efficace: powered by real life. Twinity è uno dei tanti nuovi metaversi che stanno fiorendo ovunque. È, tecnicamente, un mondo mirror perchè è basato sui dati del mondo atomico (Google Earth e Satnav) e tende ad essere una riflessione digitale della realtà materiale. La prima città riprodotta è Berlino (non a caso, data la matrice tedesca del mondo, ideato dalla startup tedesca Metaversum), ma le ambizioni sono molto più grandi: si mira a Londra e, con finanziamenti governativi, a Singapore.

Entrare in Twinity oggi, dunque, ci consente di fare una passeggiata per le strade di Berlino, di cui è stata riprodotta una buona parte con buona accuratezza. Come già con Second Life, va osservato, le architetture che replicano spazi e ambienti delle nostre città non hanno una grande capacità di emozionare o di offrire un forte “senso di essere lì”, soprattutto quando sono realizzate su piattaforme che, non essendo realtà virtuale, tendono a mantenere forte la percezione del medium che usiamo per visitarle. Si tratta, soprattutto per Second Life, della scelta più facile per raccontare un territorio: ma questi primi anni raccontano che il potenziale comunicativo di simili esperimenti è abbastanza basso se limitato alla semplice riproduzione del reale.

Nel caso di Twinity, la logica di geolocalizzione e di replica “a specchio”, può però rivelarsi interessante nel tempo. Sul piano della comunicazione territoriale (e turistica) si tratta di un esperimento ancora rudimentale, forse, ma con buone potenzialità: abbiamo la capacità di muoverci e orinetarci in una simulazione abbastanza realistica degli spazi e dei percorsi all’interno di una città e possiamo quindi cominciare a farci un’idea del posto che visiteremo e che vorremmo visitare. Il costo che si paga, ovviamente, è il basso contenuto creativo ed esperienzale, a tutto vantaggio di un contenuto informativo. Rispetto a Second Life, direi, meno creatività e contaminazione, più voglia di realismo e appeal patinato.

Ma Twinity non è solo una versione in 3D di servizi diversi come Google Earth o come i GIS: è un “mondo” (nel senso esteso di altri ambienti come Second Life o MMOG) e quindi è una piattaforma sociale. In realtà, rispetto a Second Life ci sono molte differenze di approccio: si può scegliere di usare il proprio nome e cognome (e ci sono le opzioni per decidere a chi mostrare il cognome), il sito web ha tutte le caratteristiche dei social network (profilo, messaggi) e anche “dentro” il mondo la parte sociale è gestita con logiche e interfaccia simile in tutto a quanto ci hanno abituato gli strumenti di social networking che utilizziamo ogni giorno.

In generale l’aspetto di social networking è meglio assecondato nel mondo metaforico tedesco laddove per i residenti del mondo Linden spesso ci doveva appoggiare a strumenti esterni (come i social network costruiti su Ning). Poi, naturalmente, anche su Twinity si può prendere casa o avviare attività. E la personalizzazione del proprio avatar è orientata al powered by real life: si può anche modellare il volto del proprio avatar partendo da fotografie. Il client, rispetto a quello di Second Life mi pare abbia raccolto molte esperienze dai client di gioco dei vari MMORPG. Ma è solo per sistemi Windows.

Insomma, la prima impressione è cauta ma positiva, anche se è ancora tutto in beta (pubblica solo da un mesetto) e anche se certe scelte – escludendo la logica mirror e le future finalità di comunicazione territoriale – mi pare appiattiscano Twinity più sul versante relazionale (in versione social network 3D) che su quello di insieme (contenuti, relazioni, design ecc.) che conosciamo in Second Life. Non è ancora un mondo molto popolato: si parla di poche decine di migliaia di utenti registrati (che non sono quelli attivi) e prevedibilmente si tratterà soprattutto di utenti tedeschi, per i quali il metaverso patrio può avere un senso differente. Ma, proprio come ci ha insegnato Second Life, alla fine la qualità di questi mondi è determinata dalla qualità delle idee che le persone vi portano dentro. Tanto più che non staremo mai tutti nello stesso: ognuno cercherà quello che gli è utile o in cui si trova meglio o che asseconda i suoi interessi.

Da tenere d’occhio, in ogni caso.

Scelte intelligenti

Uno segnala sottolinea dimostra promuove racconta illustra proclama suggerisce e perfino implementa software OpenSource nella Pubblica Amministrazione, poi accade che il ministro Brunetta e giusto per restare in loco il Governatore del Friuli Venezia Giulia Renzo Tondo (qui e qui i link per la notizia dello scorso agosto) continuino a fare affari con i colossi dell’informatica commerciale, e allora cascano le braccia.

Ma perché contravvenire a precise indicazioni di buone prassi già promosse dal ministro per l’innovazione Stanca anni fa riguardo l’uso di software libero? Perché non seguire le mosse di altre grosse realtà amministrative italiane o europee, che hanno definitivamente optato per soluzioni informatiche OpenSource su considerazioni sia etiche sia relative alla funzionalità del prodotto? Perché contrapporsi a scelte palesemente intelligenti?

Meno male che se lo chiede anche l’Associazione per il software libero, e prova ad ottenere delle risposte dal ministro Brunetta con una lettera aperta:

L’Associazione per il Software Libero cerca da 3 mesi di prendere visione dei protocolli d’intesa sottoscritti dal Ministro Brunetta con Microsoft senza successo.
Forse dei fannulloni si annidano nel Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ?
Pubblichiamo la lettera aperta indirizzata al Ministro con la quale richiamiamo la sua attenzione riguardo i vantaggi del software libero.

Lettera aperta all’On.le Ministro Renato Brunetta

Protocolli d’intesa sottoscritti in data 05.08.08 con Microsoft Italia S.r.l.

On.le Ministro Renato Brunetta,
il 16.08.08 Le abbiamo spedito una lettera (ricevuta il 03.09.08) con la quale domandavamo di avere accesso a due protocolli d’intesa da Lei sottoscritti con Microsoft Italia S.r.l.: quello “per lo sviluppo di soluzioni d’eccellenza tecnologiche e organizzative, in particolare nel settore della scuola” (http://www.microsoft.com/italy/stampa/Speciali/protocollo/intesa.mspx), e quello (sottoscritto anche dal Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia) “per la realizzazione di un progetto pilota di ammodernamento e dematerializzazione della gestione documentale degli uffici” (http://www.microsoft.com/italy/stampa/Speciali/protocollo/documentale.ms…).
La notizia di quegli accordi ha destato in noi viva preoccupazione: in primo luogo perché la P.A. spende ogni anno molti milioni di euro in licenze software (274 nel solo 2003), in secondo luogo perché l’azienda Microsoft è stata condannata in sede europea per abuso di posizione dominante e in terzo luogo perché in qualità di Ministro della Repubblica Lei non può ignorare che il software libero offre una valida alternativa e che la legge (art. 68 D.Lgs. 82/05) impone di realizzare una valutazione comparativa prima d’acquisire il software da utilizzare.
Abbiamo pensato che Lei, Signor Ministro, fosse stato mal consigliato e che fosse nostro dovere aiutarLa.
Ci siamo precipitati a scriverLe nel week end di ferragosto, ma, ad oggi, siamo ancora in attesa di risposta. L’inerzia del Suo Ministero ci ha infine costretti a ricorrere alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi.
Quanto dovremo ancora attendere per esercitare il nostro diritto di verificare che quei protocolli d’intesa non ostacolino l’impiego del software libero nella P.A., non rechino ingiusto pregiudizio agli interessi delle aziende europee che commercializzano servizi basati su software libero ed agli interessi dei cittadini ?
Per ora possiamo solo sospettare che, per esempio, l’accordo per il progetto pilota sulla dematerializzazione documentale sia del tutto inutile: in Piemonte si sta già realizzando, con soldi pubblici, un sistema di gestione documentale in software libero (doqui – http://www.doqui.it/), che anche altre regioni stanno considerando di adottare.
Infatti, il software libero può essere riutilizzato senza costi di licenza da tutta la P.A..
Ritardare l’uso del software libero da parte della P.A. danneggia la nostra economia, rende il mercato meno libero e favorisce un gruppo minoritario di aziende che privano il nostro paese di cospicui introiti fiscali. Sa che, per fare un esempio, Microsoft (ma analogo discorso vale per molti dei principali produttori di software proprietario) fattura le licenze vendute in Italia esclusivamente dalla filiale Irlandese (per un totale di 750 Milioni di Euro nel 2003) e che quindi comprando licenze di software proprietario si incide negativamente sulla bilancia dei pagamenti ?
Nel 2000 più di 2.000 cittadini italiani firmarono una lettera aperta intitolata “soggezione informatica dello stato italiano a Microsoft”: da allora le cose non sono migliorate se oggi si finanziano le iniziative di quell’azienda, che non ha certo bisogno di aiuti pubblici.
Non ci riferiamo ovviamente ai protocolli d’intesa da Lei sottoscritti (che non abbiamo letto e quindi non possiamo giudicare).
Ci riferiamo invece ad altre esperienze che la nostra associazione ha avuto modo di valutare negli ultimi anni.
Come il Centro di Ricerca di Povo (Trento), inaugurato nel 2005. Un centro in cui per ogni euro investito dal socio privato (Microsoft), ne sono stati erogati quattro a fondo perduto dai soci pubblici (Provincia di Trento, Università di Trento, Università di Catanzaro e FIRB-MIUR), cioè da tutti noi cittadini. Un centro nel quale gli investimenti sono largamente pubblici: saranno pubblici anche i risultati della ricerca ?
Dopo questo “affare”, anche il Governo di centro-sinistra si è affrettato a stipulare accordi per la costituzione di tre nuovi “Centri di Ricerca su tecnologie Microsoft”: non è certo una scelta sensata, in un paese che si riconosce nei valori del libero mercato e della concorrenza, destinare soldi pubblici a favore di una impresa che detiene il 95 % del mercato dei sistemi operativi.
Qualcuno potrebbe dire che non abbiamo ricevuto risposta per l’inerzia dei Suoi uffici, per una pratica dimenticata sulla scrivania di qualche dipendente fannullone perennemente in malattia o per qualche dirigente ignavo o menefreghista.
Certo che, se queste cose succedono proprio nel Suo dicastero, proprio nel periodo in cui, a quanto sembra, la “crociata contro i fannulloni” sta dando il massimo risultato, c’è ancora molto da fare.
Nella speranza di riuscire a penetrare la fitta trama di ostacoli che Le impedisce di dare la dovuta attenzione alle istanze del software libero, restiamo in attesa di una Sua gradita risposta.
Con ogni osservanza,
per l’Associazione per il software libero
Marco Ciurcina

Banda larga per tutti

Connettere tutte le case italiane in fibra ottica, un obiettivo coraggioso ma di estrema civiltà. L’idea è nota come Fiber To The Home FTTH, ovvero “fibra fino a casa”, e permetterebbe ad ognuno di noi di beneficiare di connessioni a Internet centinaia di volte più veloci dell’ADSL attuale.
Diciamo che potrebbe essere un’opera paragonabile alla costruzione dell’Autostrada del Sole, nei primi anni Sessanta, e foriera di altrettanti cambiamenti sociali in quanto infrastruttura cruciale (i trasporti allora come le comunicazioni oggi) per l’ammodernamento del Paese.Quintarelli sostiene che una rete FTTH nazionale costerebbe come un’autostrada lunga mille chilometri, circa 25 miliardi di Euro, ma ci darebbe una certa tranquillità nell’affrontare l’esplosione delle reti telematiche dei prossimi decenni, e la crescente richiesta di banda.

Del futuro delle scelte, anche tecnologiche, riguardanti il “diritto di banda” degli Abitanti digitali parla Alessandro Longo su Apogeonline, in occasione della pubblicazione del rapporto dell’Agcom sulla situazione della Rete italiana al giugno 2008, che potete trovare qui.
Chiaramente, l’Italia è in ritardo rispetto a molti paesi europei, dalla dotazione tecnologica all’alfabetizzazione informatica alle statistiche di utilizzo dei servizi web. Servirebbero proprio finanziamenti, che però non ci sono.

ps: cercando informazioni sulla storia delle autostrade italiane, mi sono imbattuto in questa voce di enciclopedia Encarta, dove con piglio narrativo viene ripercorsa la progettazione e la realizzazione dell’Autostrada del Sole. Interessante la parte dove indica gli errori compiuti nella progettazione del tratto strategico Bologna-Firenze, dovuti a fretta e mancata supervisione dell’opera in corso. Ragionamenti che possono tornare utili oggi, nell’affrontare il problema di trasferire efficacemente informazioni su reti adeguate, dopo le strade per le persone e le cose, e permettere di praticare dignitosamente le proprie attività di Abitante normalmente biodigitale.

Open access per i progetti europei

Una interessante segnalazione di Marco Scialdone (qui il suo blog) su Occasioneperduta.ning: parlando di adozione delle licenze Creative Commons per i risultati delle ricerche e delle documentazioni prodotte nelle Pubbliche Amministrazioni (in fondo, sono cose realizzate con soldi pubblici, e liberi e condivisi dovrebbero essere i risultati di queste ricerche, nella società della Conoscenza… poi penso che le Università si avviano ad essere brevettifici, e mi dolgo), viene indicata una recente delibera della Commissione Europea, riguardante proprio il lancio di un progetto pilota, all’interno del Seventh Framework Programme (FP7), per rendere liberamente disponibili in modalità open access i risultati dei progetti finanziati dalla UE.

Sette are sono interessate dal progetto: energia, ambiente, salute, tecnologie informatiche e di comunicazione, infrastrutture, scienze nella società, scienze sociali e umane.
I ricercatori dovranni condividere i risultati delle proprie ricerche e i relativi dati collegati attraverso un repository online. Inoltre devono assicurare l’accesso anche nel periodo successivo alla pubblicazione.
L’obiettivo del progetto è valutare se l’open access è il mezzo giusto per assicurare un accesso veloce e attendibile ai risultati delle ricerche, al fine di incoraggire l’innovazione, la scoperta scientifica e un’economia basata sulla conoscenza.
Si pensa inizialmente di coprire circa il 20% dei progetti finanziati all’interno del settimo programma quadro.
Link alla pagina originale: Open access pilot in FP7

Che dire. Magari. Magari un giorno qualcuno capirà.

Web20, scuola, wiki: il cambiamento necessario

Metto qui un’interessante presentazione di Luisanna Fiorini, insegnante ed esperta di nuove tecnologie, dedicata ai cambiamenti sociali in atto, alle nuove webtecnologie, alla scuola e alle tematiche dell’apprendimento. La seconda parte prende in considerazione inoltre l’utilizzo dei wiki nell’uso didattico.

Credo sia importante sottolineare l’affermazione secondo cui in questo momento storico è vitale puntare in maniera decisa verso l’aggiornamento delle competenze di cultura digitale possedute dagli insegnanti, proprio per far fronte alla consapevolezza di una sostanziale non adeguatezza della scuola rispetto alla preparazione culturale da passare alle nuove generazioni, al fine di rendere queste ultime pronte ad abitare in un mondo necessariamente 2.0.

Di un insegnante che non sappia ragionare di blog e di podcast, che non sappia riflettere sul valore della folksonomia, che non comprenda la filosofia opensource e la società della conoscenza, oppure le nuove forme di abitanza digitale, semplicemente non mi fido. Non lo ritengo in grado di preparare i giovani al futuro, tutto qui.

Mappe concettuali automatiche in Wikipedia

Conosciamo l’importanza dell’impiego di mappe concettuali, nella progettazione sociale o nella didattica, oppure semplicemente per prendere appunti ad una conferenza o per mettere ordine nelle proprie idee, quando si fa brainstorming da soli.

Ora usando wikimindmap.org è possibile generare delle mappe automatiche dei termini contenuti nella Wikipedia, dando rappresentazione visiva ai collegamenti tematici che procedono a partire dall’argomento da noi scelto come punto di partenza.

Decisamente uno strumento da sperimentare nelle aule scolastiche.