Guarda la vastità

La vastità

Cinque milioni di anni fa una scimmia d’un tratto ha indicato un boschetto, accompagnando l’urgenza del gesto con le tipiche grida “uuuhhh uh uh uh!!” di quando un predatore, facciamo un leone, si prepara ad attaccare.
Tutte le scimmie del branco hanno guardato in quella direzione, ma non hanno visto niente.
Si sono nuovamente girate, e quella scimmia stava ridendo scompostamente, dandosi delle manate sulle cosce, tenendosi la pancia, rotolandosi per terra.
In quel momento è nato l’umorismo, il teatro, le fake news, il dubbio, la messinscena, la creduloneria, i giochi di linguaggio, forse il primo pestaggio per motivi concettuali, perché non si può infrangere impunemente una regola di sopravvivenza.

Però a dire il vero non c’era nessuna regola, ancora. Bisognava prima infrangerla, ovvero mostrare qualcosa che c’era e non si pensava ci fosse.
Lì è nata la semiotica, perché come ci raccontava il Sommo un segno è tutto ciò che può mentire.
Fin a quel momento, le parole – o gli atti linguistici, dai – sono vere. Quella parola, quell’urlo, quel gesto vogliono dire quella cosa, forse quella situazione. Si riferisce a quella cosa, proprio quella cosa lì, che esiste ed è lì nel mondo, posso nominare il mondo con la parola adeguata.
Infatti già se come sopra dico “situazione” complico tantissimo, e in questo momento mi stanno guardando secoli e secoli di gnoseologia e filosofia del linguaggio.
Diciamo parola.
Quando Dio chiamò Adamo, gli disse “Vieni qua ragazzotto, dai un nome alle cose, su” e allora Adamo *le chiamò col loro nome*. Questa cosa ha tolto il sonno a centinaia di pensatori nelle ultime migliaia di anni.
Cioè, nella parola che Adamo utilizzò per ogni cosa c’era la cosa stessa, la sua forma o sostanza o essenza (vado veloce), addirittura nel suono di quella parola c’era qualcosa che richiamava l’oggetto. Dicevo “tavolo”, e la parola /tavolo/ assomigliava *sotto qualche aspetto o capacità* a un tavolo.
Così fino a Babele. Tutti belli contenti, tutti parlavano prebabelico, tutti si capivano e usavano la lingua perfetta. Però voler costruire o meglio erigere questa torre itifallica era decisamente troppo, Dio se ne ebbe a male e confuse le lingue.
E anche qui fior fiore di filosofi ed eruditi a chiedersi nei monasteri sperduti nel tempo cosa potesse significare, quel confondere le lingue. Nessuno capiva più quell’altro, non si poteva più costruire la torre. Quel burlone di Dante disse che Dio in quel momento aveva inventato i gerghi professionali, quindi il manovale non capiva più il capomastro che non intendeva più cosa dicesse l’architetto, e in effetti come spiegazione funziona.

Ma a noi qui interessa la rappresentazione. Nel linguaggio, in tutti i linguaggi, in tutti i testi. Verbali, scritti, iconici, cinematografici, fotografici.
La semiotica ha “espulso il referente” molti decenni fa. Il linguaggio funziona anche se non esiste quello di cui sto parlando, possiamo parlare di unicorni o di sesso degli angeli per secoli, il linguaggio è simbolico, manipolabile e manipolatorio, non ha logica, è autocontradditorio, poggia su paradossi, non posso uscirne per spiegarlo, non ha pretese di verità ovvero non fa nemmeno finta di cogliere univocamente ciò a cui – concetto o percetto o atto o oggetto di realtà – intende riferirsi, è simbolico, cambia le regole nel tempo e cambiano morfologia semantica e sintassi, abitiamo linguaggi che ci tradiscono, ci affezioniamo a parole che hanno senso solo per noi e solo in quel momento, magari sappiamo pure che il linguaggio è menzogna però continuiamo a dare fiducia, ci piace ingannarci, amiamo la gabbia dorata, ci facciamo dei film, coloriamo le situazioni, inquadriamo e incorniciamo, ci crediamo sani e siamo sull’orlo del delirio.

Ci culliamo nel sogno di poter fare esperienza dell’esperienza dell’altro, ma possiamo solo fare esperienza del comportamento dell’altro, e scommettere che il suo comportamento sia coerente con la sua esperienza. Però stiamo leggendo secondo i nostri codici interpretativi, e proiettiamo sull’altro una simile costellazione di strategie e desideri e aspettative che sono nostri, soltanto nostri.
Illudendoci. Qualche volta pigliandoci, per motivi statistici, spesso al di là dell’intenzionalità del parlante.

Poi ci sono quelli che credono, senza alcun dubbio, alle news su Facebook, ai follower di Instagram, che Phoshop non esista, al fatto che il mio profilo stia avendo successo su LinkedIn.

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