Who framed Roger Rabbit?

Sappiamo che la democrazia non è solo partecipazione, ma è partecipazione al voto di persone informate e non manipolate, ovvero capaci di prendere decisioni più o meno razionali. Certo, c’è chi non ragiona ma semplicemente fa il tifo e ragiona con la pancia, ma tant’è.

Ragioniamo quindi dell’informazione, della costruzione sociale dell’informazione, delle sue modalità di circolazione tra individui e nei gruppi, nelle situazioni concrete.

Prendiamo un professionista dell’informazione – un anchorman o un editorialista di fama per capirci, ma in realtà il ragionamento vale per ogni operatore – e stabiliamo subito che il suo lavoro non si limita certo a divulgare eventi, per il fatto stesso che quegli eventi in quanto accadimenti del mondo vanno innanzitutto traghettati oltre la soglia bassa della notiziabilità: ci sono atti, poi atti-degni-di-menzione, e poi le notizie dentro i media. I fatti devono essere percepibili, osservabili, descrivibili, inquadrati in una cornice, in un frame. Il nostro professionista è soggetto attivo e passivo di una costruzione sociale, reagisce a e insieme edifica un frame percettivo (scelta o esclusione degli stimoli pertinenti e significativi, attenzione selettiva) che poi è già subito un frame cognitivo che, poiché la realtà e la coscienza sono la storia che senza fine raccontiamo a noi stessi di noi stessi, infine si consolida in un frame narrativo, diventa una storia da raccontare. È quello che facciamo tutti, sempre, per dare senso al mondo e agli accadimenti. L’Io è una storia che ci raccontiamo, la realtà è una storia che ci raccontiamo: ci possono essere buchi nella trama, dissonanze e contraddizioni, ma la riconosciamo, ci crediamo.

in questa progressione, apparentemente neutra, si annida la vera sfida ermeneutica, se il nostro obiettivo d’analisi è decostruire i codici espressivi e la visione del mondo di quel nostro professionista dell’informazione: si tratta di decodificare la sintassi che regola la relazione tra le parti del dicibile, ovvero ciò che merita a suo vedere di ascendere al rango di notizia e di essere poi capillarmente diffuso nell’ecosistema mediatico, secondo il suo punto di vista ed il suo essere consapevolmente o meno portatore di certi valori e certe credenze, eventualmente spacciatore di false coscienze e discriminazioni (sempre in maniera inconsapevole o talvolta a bella posta) perseguite e promosse dalla classe dominante, dall’elite di potere economico di un sistema sociale.

Il richiamo al concetto di egemonia culturale, mutuato da Gramsci e raffinato dalla Scuola di Francoforte, diviene qui ineludibile. Quel giornalista quanto “è parlato” dalla voce del padrone, quanta consapevolezza vi è in lui nel selezionare innanzitutto e in seguito propalare una certa visione e interpretazione dei fatti, e non altre? 

Già la scelta dei generi “letterari” della rappresentazione – indignazione, commozione, partecipazione, partigianeria, militanza, denuncia, panegirico, invettiva, fredda cronaca asettica – come configurazioni affettive e discorsive ampie, culturalmente e storicamente sedimentate nella cultura del gruppo dei fruitori, dovrebbe sollecitare un’acuta diffidenza critica, poiché in essi si cela spesso una prefigurazione di manipolazione, un’insidiosa forma di irretimento del pubblico che si manifesta ben prima che il messaggio sia compiutamente articolato dall’emittente e compreso dal destinatario.

La prima e fondamentale mossa da disvelare in questo complesso gioco di specchi consiste appunto nella deliberata scelta di ciò di cui parlare e, soprattutto, di ciò di cui non parlare. Si tratta di una selezione discorsiva che non è affatto casuale, ma programmaticamente orientata. Essa agisce all’interno di una grammatica implicita, una sorta di codice segreto che modella la percezione pubblica, veicolando con precisione il significato inteso dal costruttore della narrazione. Questo processo, lungi dall’essere percepito come coercizione, viene spesso capziosamente celato dietro una sapiente simulazione di libertà di espressione. Il pubblico è invitato, quasi sollecitato, a sospendere l’incredulità dinanzi a una narrazione che si presenta come totalità, come rappresentazione esaustiva e complessiva della realtà, mentre in verità essa non è che una porzione accuratamente predeterminata del possibile dicibile. Si crea così una narrazione dominante, la cui forza persuasiva risiede nella sua apparente onnicomprensività.

Questo meccanismo di ingegneria percettiva e narrativa non si esaurisce nell’operato del singolo individuo, del singolo giornalista, ma si inscrive sempre in una vasta e complessa architettura mediatica. Un’architettura che è intrinsecamente legata a fitti intrecci di interessi economici e geopolitici, e che, pertanto, genera una forma di violenza silenziosa. Non una violenza fisica, tangibile, ma una violenza simbolica che si esercita attraverso la distrazione di massa e la manipolazione del consenso. Siamo dinanzi a una modalità tipicamente egemonica che si esprime primariamente attraverso la selettività narrativa. Un esempio di questo modus operandi è il frame narrativo persistente che presenta la “democrazia ferita”, una costruzione retorica che sollecita potentemente il piano affettivo del fruitore, inducendo una compassione selettiva e direzionata, lasciando nell’ombra ciò che non rientra in tale schema empatico.

L’analisi di questa narrazione dominante scende poi fino ai livelli più minuti della costruzione testuale, spingendosi fino alla gestione lessicale. 

Qui vediamo il fiorire di sinonimi meno problematici ovvero più neutri e notiziabili, eufemismi, circonlocuzioni bonarie, perifrasi occhiute. Ogni parola è pesata, ogni termine selezionato non per la sua precisione denotativa, ma per la sua capacità di orientare “subdolamente” la comprensione del fruitore. 

Il linguaggio non è più strumento di chiarificazione, ma veicolo di mistificazione, sottraendo al pubblico la possibilità di una decodifica critica autonoma e di una reale comprensione delle dinamiche sottostanti. È in questa prassi, apparentemente innocua, che si annida la vera potenza delle narrazioni mediatiche odierne, capaci di costruire un simulacro di realtà (tutto è simulacro) che occulta sistematicamente tutto ciò che non è favorevole all’egemonia culturale dominante. Ri-velare non s-vela.

Il gioco di simulazione è perfezionato al punto da rendersi quasi invisibile, tessendo una rete di consenso in cui il pubblico è chiamato a credere ciò che è stato meticolosamente costruito per la sua percezione.

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