Tagliamento e fine del mondo

Sarà lungo, sono due argomenti che credo possano essere intrecciati. 

Il Tagliamento e la fine del mondo, o almeno i cambiamenti drastici di tipo ambientale, economico, sociale che vedremo da qui al 2050. Tentiamo un parallelo, perché le soluzioni che ora vengono proposte per la fine del mondo assomigliano al costruire una diga laminante per addomesticare il fiume, ed è tutto sbagliato.

Come sappiamo tutti, l’edificazione di una diga di laminazione sul fiume Tagliamento – con gli annessi costruendi bacini di contenimento, la necessaria riprogettazione di reti idrografiche secolari, gli interventi ripariali (cementificazioni) – è una sciocchezza. 

Lo dicono gli esperti di mezza Europa, lo dice la sensibilità di chi sa vedere lungo ragionando di ecosistemi: avremmo una alterazione radicale dell’equilibrio idrogeologico, perdità di biodiversità, impatto disastroso sulle falde acquifere, senza ottenere peraltro i benefici ricercati, cioè la sicurezza del basso corso del fiume.

Attenzione, non parlo di scelte politiche qui, perché a pensar male si compie peccato, ma notoriamente spesso ci si azzecca.

Di certo non si riuscirebbe a laminare tutto per sempre se non appunto al prezzo di disastri ambientali, rimarrebbero i problemi di sicurezza legati all’effetto “tappo”, non si risolverebbero le cause a monte e non si garantirebbe la sicurezza a valle, anzi si alimenterebbe una falsa sicurezza, ben più pericolosa.

Come sempre, non dobbiamo lavorare sul messaggio (il Tagliamento, ultimo fiume “naturale” dell’arco alpino) ma sul contesto, proprio per ottenere il cambiamento che vogliamo: sulla manutenzione del letto fluviale (lo sghiaiamento non deve essere sregolato, ma controllato e sostenibile rispetto alle dinamiche naturali per evitare erosione a monte), sulla sua “libertà” selvaggia, sul ripristino (rinaturazione) delle aree golenali e quelle naturali di espansione in quanto reticolo idrografico minore, sulla rimozione di arginature obsolete e ridondanti per evitare le strozzature del fiume, sulla delocalizzazione dei manufatti sulle aree sensibili come buona prassi di pianificazione territoriale e urbanistica – orientata al rischio – con moratorie sulla cementificazione e piani puntuali di protezione civile. Al contempo vanno istituiti enti pubblici specifici per la gestione di bacino con il coinvolgimento di tutte le amministrazioni afferenti e enti competenti, nonché vanno attivati sistemi di monitoraggio e ricerca dedicati, insomma dobbiamo ragionare e lavorare “intorno” al fiume, lasciandolo libero di fare il fiume.

Si tratta di un cambiamento di paradigma: da una logica di “controllo” velleitario del fiume Tagliamento con opere rigide e invasive, a un approccio di “convivenza” e “adattamento” (nostro), che sfrutti e potenzi la capacità di laminazione naturale del fiume, integri il territorio e la sua gestione, e metta al centro la sicurezza delle persone attraverso la conoscenza del rischio e la pianificazione consapevole.

Adesso svolgiamo il parallelo che dicevo all’inizio.

Nei prossimi venticinque anni noi vedremo accadere – ci sono proiezioni catastrofiche diramate da enti mondiali, e vi dico subito che probabilmente è già troppo tardi per agire significativamente – cambiamenti disastrosi: temperature medie a +2° o più probabile a +3° gradi sull’attuale, un miliardo di persone non potrà più vivere dove vive attualmente, dove +4 gradi al 2050 significherebbe morte ovunque per metà almeno delle specie agricole e animali, crollo dell’intero sistema. Parliamo di cibo, salute, l’abitare, l’energia, le migrazioni e la guerra, quindi carestie e crisi alimentari, scenari apocalittici con gli umani che fuggono a nord, alluvioni, dissesto idrogeologico, incendi, crisi idriche perché l’acqua scarseggia e la neve e i ghiacciai sono ormai spariti (a meno che non si fermi la Corrente del Golfo e quindi avremo una bella Era glaciale in Europa), avremo il livello del mare che sale inesorabilmente, aumento delle migrazioni climatiche, epidemie e pandemie (metto qui anche il problema della resistenza agli antibiotici), pasticci possibili con IA e bioingegneria, sovrappopolazione, sommosse armate per l’acqua il cibo e la terra, la corsa alle armerie, bande armate. Tra Mad Max e “I sopravvissuti”, o la narrazione che volete del filone post-apocalittico.

Senza risalire fino al Club di Roma del 1972 e agli allarmi inascoltati sui limiti e le conseguenze della irreale crescita economica infinita, massacro del pianeta e delle collettività, abbiamo l’ONU che dal 1992 convoca le Conferenze mondiali sui cambiamenti climatici e il riscaldamento globale (Berlino, Kyoto, Copenaghen, Parigi quelle famose per i trattati internazionali di intervento, poi ben poco ratificati e perseguiti negli obiettivi dei singoli Stati): se avessimo fatto la metà di quanto si diceva anche solo venti o trent’anni fa non saremmo certamente come ora sull’orlo del baratro. 

Adesso è peggio, nelle cose e nel pensiero sulle cose: perché la svalorizzazione degli scienziati e degli intellettuali ha fatto leva sulle dinamiche di rivalsa sociale diffondendo mitologie di benessere illusorie, le campagne mediatiche hanno instillato ignoranza e paure per nemici-fantoccio, al Potere ci sono gruppi di persone mai così ricche in tutta la storia dell’umanità che finanziano e decidono Governi nazionali conservatori se non reazionari e negazionisti, ovviamente contrari per motivi di business a quelle ovvie fandonie catastrofiste: l’importante è diventare sempre più ricchi sulla pelle di centinaia di milioni di persone, magari preparandosi costruendo per pochi rifugi inaccessibili, fosse anche su Marte.
La situazione non si può risolvere con adattamenti e cambiamenti graduali, non c’è più tempo. Abbiamo avuto almeno trent’anni per cambiare la narrazione dominante, innescare buone pratiche per cambiare radicalmente il sistema, per agire: invece siamo ancora imprigionati nella stessa mentalità di conquista e di sopraffazione ottocentesca e novecentesca, dentro visioni economiche e politiche anacronistiche, deleterie.

Ci saranno rivoluzioni, e non saranno rivoluzioni pacifiche. Ci saranno guerre civili.

I governi nazionali salteranno, non possono rispondere sulla scala o nella velocità necessarie per queste emergenze, non è possibile mantenere (con l’Esercito?) il controllo in territori vasti, e fin d’ora andrebbero organizzate soluzioni di sopravvivenza ritagliate sulla dimensione delle piccole comunità locali, informando e promuovendo iniziative di sostentamento delle popolazioni, a partire dal settore agricolo, dalla gestione dell’acqua, dai medici del sistema sanitario e dalle professioni vitali. Mappe, vie di fuga. Arnesi e strumenti. Famiglie, tribù, clan. E invece qui stiamo tutti giocando a suonare nell’orchestrina del Titanic.

Una politica regionale oggi dovrebbe pensare a questo. E anche comunità più piccole dovrebbero autoorganizzarsi e provvedere a individuare ciascuna di per sé possibili adeguamenti e cambiamenti al disastro imminente. Sì, pensiamo pure al worst case scenario. A questo serve la politica: a trovare i modi per garantire benessere sociale, qualità dell’abitare, con lungimiranza e pragmaticità. Adesso dobbiamo proteggerci, e le comunità locali devono immaginarsi e varare unità di sopravvivenza, diffondere informazioni, organizzarsi, progettare subito un inventario delle risorse della comunità.

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